tag:blogger.com,1999:blog-5865437870597156842024-03-13T02:38:11.958+01:00"La Rotta delle emozioni" WWW.PICCHIOTTIDANILO.ITPer far conoscere gli artisti e i grandi pensatori che sono stati di stimolo alle emozioni e di influenza per il percorso pittorico di DANILO PICCHIOTTI.
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica. Le immagini e gli scritti inseriti sono tratti in massima parte da Internet; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, vogliate comunicarlo e saranno subito rimossi.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.comBlogger883125tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-55017002501788378892011-06-08T09:56:00.002+02:002011-06-08T10:14:38.884+02:00NOVELLE DI PAOLA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/-Mf5QU-Am440/Te8vN7djwiI/AAAAAAAAD54/giXJ_27o93g/s1600/03.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 360px; height: 360px;" src="http://4.bp.blogspot.com/-Mf5QU-Am440/Te8vN7djwiI/AAAAAAAAD54/giXJ_27o93g/s400/03.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5615759176700772898" /></a><br /><br /> Cara Paola....l'amicizia non biasima nel momento della difficoltà'.....<br />non dice con fredda ragionevolezza....se tu avessi fatto cosi' o così'....<br />apre semplicemente le braccia e dice... non voglio sapere... <br />non giudico....qui c'e' un cuore dove puoi riposare.........<br /><br />Novelle e racconti<br />per ragazzi e volendo... anche per adulti<br /> Dedico queste novelle a Marisa ai miei genitori, <br />a tutti i bambini di questo mondo, a ciascun adulto che ha saputo mantenere in sé<br />la parte bambina e a chi se ne è dimenticato, sperando che essa si risvegli<br />per incamminarci così tutti assieme verso un mondo migliore.<br />Kala - Paola Santerini<br /> <br /> Ricorda che tu sei necessario<br />Nessuno è più in alto e nessuno è più in basso<br />Nessuno è superiore e nessuno è inferiore<br />Tutto è armonia.<br />Osho Rajneesh<br /><br /> Il vivere di momento in momento la nostra vita ci toglie la possibilità di diventarne coscienti; ciò ci costringe a trovare un significato alla vita stessa.<br />Questo lungo processo di sviluppo ci riconduce a ritroso nella ricerca delle modalità differenziate per incontrare un mondo affine a tutta l’umanità: il mondo delle fiabe, con le sue azioni che portano dall’irrazionale al razionale, dove ogni linea conduttrice si illumina della gioia di essere così vera e reale nell’infanzia.<br />Il significato più profondo va trovato trascendendo gli angusti confini dell’esistenza egocentrica e ponendosi attraverso il tempo, oltre i confini dello spazio, in un’oasi che si chiama fantasia, nello sforzo di non sprofondare nei capricci ma di trarre una coerenza dal tumulto dei sentimenti e superare le vanità illusorie.<br />Questo libro vuole andare in questa direzione nella ricerca vivace e serena dell’immagine.<br />Fiorenza De Angelis<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />Al centro della terra ci trovai...<br /><br />Lapo, un bambino dai biondi capelli ricci e dai grandi occhi verdi, quel giorno era più triste del solito: gli amici lo prendevano sempre in giro per i suoi modi delicati “roba da femminucce”, diceva la banda di quei dieci pestiferi bambini che stavano sempre a pensare quale marachella avrebbero potuto fare per apparire sempre più maschietti e terribili. La gentilezza di Lapo era innata in lui ed in molti gli volevano bene ma quei dieci pestiferi bambini non lo lasciavano mai in pace. Il piccolo biondino ogni qualvolta era attaccato da loro si andava a rifugiare nel giardino di Michele e Zoe, due fratellini che erano a lui affezionatissimi e sempre lo consolavano. Era un giorno speciale, anche il dolore di Lapo aveva un sapore diverso, scorreva nel suo corpo e presto avrebbe preso consistenza. Lapo sentiva questa strana sensazione ma non se la sapeva spiegare e proprio per questo era agitatissimo. Parlava in fretta, in un modo mai usato e né Zoe né Michele capivano cosa gli stesse succedendo. Dal lato più nascosto del giardino sbucarono le tre tartarughe dei fratellini, Adelina, Astianatte e Clotilde. Era autunno e venivano a salutare i bambini perché sarebbero presto andate in letargo fino alla prossima primavera. “Ciao piccoli, salve Lapo.” “Salve a voi” disse lui e nella sua fervida fantasia fece campo una visione e senza neppure accorgersene disse loro “Vorrei venire con voi al centro della terra perché è lì che siete dirette”, ma le tre tartarughe dissero a Lapo che mai avevano intrapreso un viaggio così lungo in un posto sconosciuto, ma che era ora di provare, la partenza se non cambiava idea era immediata. <br />“Certo che lo voglio”, rispose, e Michele e Zoe erano già pronti per partire perché era scontato che anche loro sarebbero andati con Lapo il grande amico, sia per non abbandonarlo sia per la curiosità che stava sempre più crescendo. La partenza fu stabilita di notte, quando il buio sarebbe stato loro complice nascondendo così la loro fuga - viaggio ad occhi indiscreti. Così ognuno di loro fece ritorno alla propria casa come nulla fosse, e andarono a letto alla solita ora. Ma appena mamma e papà ebbero loro spento la luce, dato il bacio della buonanotte e chiusa la porta, i due fratellini e Lapo nelle rispettive camerette, si alzarono, misero un cuscino nel lettino, tanto da ingannare i loro genitori che aprendo la porta per vedere se dormivano avrebbero visto i lettini non vuoti. Così avevano visto alla TV e così fecero. Erano le 10 e la luna era già alta nel cielo quando Lapo, Michele, Zoe, Adelina, Astianatte e Clotilde si ritrovarono nel giardino là dove le tre tartarughe erano solite partire. Prima di iniziare a scavare il lungo tunnel che portasse tutti e sei i viaggiatori al centro della terra, le tre tartarughe dettero istruzioni precise ai tre bambini, cose segretissime che non possiamo svelare perché nel mondo delle tartarughe vige un segretissimo codice. Come sarebbero arrivati e quando? Sembrava che la fame non si facesse più sentire, ma era solo il gran desiderio di arrivare che faceva tacere l’appetito. Così le tartarughe che erano sagge, vollero fermarsi per fare uno spuntino. Esse si ritirarono nelle loro case e presero vivande a sufficienza per dare a tutta la comitiva nuove energie per proseguire il lungo viaggio. Ora tutti si chiederanno come fanno le tartarughe ad avere nella loro casa che sempre si portano dietro, tante riserve di cibo. Questo è perché la tartaruga è un animale magico e non si sa mai quali sorprese ci può riservare. A metà del loro cammino... ma dimenticavo il paesaggio: un paesaggio buio ma nonostante questo c’era una luce indescrivibile, la luce del buio, altre parole per descriverla non ci sono. La sua tonalità ha colori molto caldi, intensi come il rosso, il blu ed il giallo. A metà del cammino iniziarono a comparire delle minuscole figure che appena videro la comitiva iniziarono a gridellare. Le tre tartarughe li salutarono e tra questi c’erano Zoilo, Afeo, Getulio, Dula, Fara e Gea che dopo aver risposto al saluto chiesero in coro alle tartarughe “Chi sono quei tre?”. “Non vi preoccupate, sono nostri amici, garantiamo noi per loro.” “E così sia, ci fidiamo di voi, i vostri amici sono i nostri.” Zeno, un altro abitante di quei luoghi, il più diffidente ispezionò i tre piccoli in modo dettagliato annusandoli da capo a piedi, ma i tre bambini non si meravigliarono e lo rassicurarono che da loro nulla c’era da temere ed erano pronti a superare qualsiasi prova di lealtà. Così Zeno, che prese le loro parole in alta considerazione, gli rivolse una domanda: “Perché mai vorreste andare al centro della terra, e dopo esserci stati a chi racconterete tutto?”. Zoe parlò a nome di tutti e tre dicendo che è sempre bello conoscere luoghi nascosti dove nessuno è mai arrivato e che sicuramente non avrebbero mai rivelato ciò che avevano visto. Zeno aveva la facoltà di sapere se le risposte erano sincere per cui essendosi rassicurato, sorrise e con un lungo abbraccio strinse a sé i piccoli. I Ninion, così si chiamava la popolazione di questo luogo, dettero loro il permesso di proseguire il viaggio per il centro della terra, ma al rientro a casa nulla sarebbe rimasto nella loro memoria, se non sotto forma di sogno, e naturalmente, ad ognuno avrebbe lasciato un insegnamento proprio, il quale sarebbe stato maestro di vita. Così indicarono all’allegra comitiva la strada per arrivare a Palaon, il centro del Mondo. Da quel momento le qualità di ciascuno delle compagnia erano sempre più marcate e delineate, e l’amicizia che prima li univa diventava sempre più intensa. La gentilezza di Lapo era sempre più forte, cosa che nessuno mai avrebbe potuto distruggere ed ogni evento della vita l’avrebbe sempre più consolidata in lui. Michele e Zoe, il loro senso forte dell’amicizia che sempre più si sarebbe esteso ad ogni essere umano, facendo però distinguere loro sempre e comunque il giusto dal falso, il buono dal cattivo, badando bene a riconoscere che anche la cattiveria è una parte della vita, frutto soltanto dell’ignoranza e va compresa perché essa possa sciogliersi come neve al sole. Il loro compito era molto alto e nobile: far scomparire il poco buono nel piccolo mondo che li circondava. E le tre tartarughe avrebbero insegnato il loro motto “Chi va piano va sano e va lontano”. E così in un attimo più o meno lungo, si ritrovarono a Palaon, che spettacolo per gli occhi dei piccoli visitatori! Che luce! È inspiegabile descriverne la bellezza! Una luce bianca con riflessi di ogni colore, intensità e densità. Sì, i colori avevano una densità, una consistenza propria, si potevano toccare, plasmare, senza per questo togliere nulla alla loro bellezza, alla loro propria esistenza, forma e compattezza. Quei colori avevano vita, avevano un sapore, avevano i loro suoni, vibrazioni che entravano nel cuore come mille violini, lasciandovi una dolcezza infinita, paragonabile all’estasi dell’anima che troppo spesso ignoriamo, e l’essenza della terra vibrava di vita propria in ogni forma quaggiù esistente: qui si respirava, si assaporava il nettare dell’anima del Pianeta. Lapo vide una cosa spaventosamente bella, la bontà vera della banda dei dieci, avvinghiata e prigioniera di ragnatele fatte di paure, ed essa non riusciva a liberarsi per arrivare al cuore delle dieci pesti. Turbini di fuoco, a fare da guardia a questa bontà e si vedeva chiaramente un drago dagli occhi di gelo, che stava costruendo laboriosamente il passaggio da birbonaggine a cattiveria dei dieci ignari pestiferi fanciulli. Sì, in una sfera di gelo era scritta la loro storia che sarebbe così arrivata indisturbata nella vita di ciascun fanciullo di quei dieci ignari birbanti. Era tutto confuso, ma ben presto le forze del male li avrebbero resi capaci di azioni veramente brutte.<br />Lapo era come paralizzato da questa visione, ricordandosi anche di tutti i torti subiti, in futuro si vedeva ancora come una loro vittima inerme. Fu allora che arrivò il re Zanè di Palaon che, vedendo Lapo in quelle condizioni, fece cadere su di lui essenze di estratti di Lipion, sostanza che nasce proprio nel suolo di quella terra che fa sì che la volontà di una persona sia libera da paure e possa così sprigionarsi in tutta la sua potenza. E così fu. Lapo si scagliò contro la ragnatela fatta di paura, armato solo del colore che aveva plasmato a forma di scudo, e questa si squagliò proprio come neve al sole e dalla volontà di Lapo l’enorme ragnatela del male si trasformò in un enorme sorriso fatto di luce. E per tutti re Zanè ebbe un dono: ai piccoli donò essenze di Nacon che faceva radicare sempre più in loro il senso dell’amicizia e della fratellanza, in modo che questa crescesse sempre più in loro per aiutarli in ogni frangente di vita, specialmente in quei difficili momenti che essa riserva per tutti. E ad Adelina, Astianatte e Clotilde fece dono di Sanè, una sostanza di lunga vita e altro, perché le tre tartarughe erano già sagge per conto loro e non avevano bisogno di altro. Re Zanè era felice dello stupendo incontro avuto con quei piccoli abitanti della Terra e donò loro anche un suo sorriso perché lo tenessero sempre in fondo al proprio cuore, e questo avrebbe regalato loro pace e serenità in qualunque momento. Tutto sarebbe servito per arricchirsi di serenità e bellezza e per non lasciarsi mai andare a pensieri negativi che servono solo a distruggere ogni forma di vita. E loro avevano avuto dal Re la facoltà di infondere ciò nel cuore degli altri. Dopo di che si preparava il lungo viaggio di ritorno. Ora salire sarebbe stato veloce come un volo di gabbiano, che con le sue enormi ali sorvola l’immenso Oceano. Il salire fu un’altra esperienza dell’Anima e ogni battito d’ali aveva il sapore della speranza. Ed eccoci di nuovo nel giardino da cui i bambini erano partiti per il lungo viaggio invernale. I tre bambini videro le tre tartarughe e dissero loro: “Ciao, ben tornate dal vostro letargo”; “Ciao, piccoli amici, siamo felici di vedervi ad ogni primavera”. <br />E i tre amici si sentirono inspiegabilmente più uniti del solito e un qualcosa dentro li spingeva a sperare in un mondo migliore, con una sorta di inspiegabile ottimismo. Cosa mai era successo dentro di loro? Un solo inverno li aveva fatti maturare in modo grandioso. Nessuno si era accorto della loro assenza perché misteriosamente dai cuscini lasciati dentro i lettini avevano preso consistenza le immagini di loro stessi, per permettergli di avere un rientro senza problemi. Questo loro non lo sapranno mai, ma fu un dono delle tartarughe perché come ho detto all’inizio del racconto, esse sono animali magici. Lapo vide e andò incontro alla banda dei dieci “Ciao Lapo”, dissero. “Ciao a tutti voi”. “Lapo è primavera, che ne dici di festeggiare l’arrivo delle rondini?”. E tutti e undici si avviarono a comprare un gelato. <br /><br />“L’odio non cessa con l’odio ma con l’amore: questa è una vecchia regola”.<br />Buddha, Pensieri<br />Perché esistono varie razze e colori<br /><br />Un tempo lontano gli abitanti della terra erano tutti uguali, così uguali che neppure da se stessi erano capaci di riconoscersi ed era tutta una grande confusione. Bambini che non venivano riconosciuti dalla mamma e dal babbo, o da chi si prendeva cura di loro e venivano scambiati l’un con l’altro e tutto andava avanti così. Erano completamente identici non solo nell’aspetto fisico, ma in tutto ciò che compone una persona: carattere, voce, sentimenti... insomma quando dico tutto è tutto. Dapprincipio come tutte le cose nuove ciò incuriosì, ma man mano che passava il tempo tutto ciò faceva solo confusione e tristezza: nessuno sapeva porre rimedio a questo triste evento, tutti erano ormai rassegnati, tutti meno una persona la quale ogni giorno pensava a come risolvere questa spiacevole faccenda. In una giornata lui non si sentiva sempre nella stessa maniera. E se una persona è capace di essere così diversa, come poteva tanta gente essere sempre identica l’una all’altra? Qui c’era qualcosa che non tornava nel modo più assoluto. Era necessario rimediare il più presto possibile perché la gente incominciava ad essere troppo apatica.<br />Sarebbe stato un guaio senza rimedio se il sonno spirituale avesse invaso il cuore di tutti. Ma come fare? Egli pensò di radunare tutte le persone e parlare loro, in modo da toccare il cuore di ciascuno e qualche cosa sarebbe certo successo: risvegliarli da quel torpore in cui erano caduti. E così fece. Disse loro cose semplici che il cuore gli dettava: “Non si può essere tutti uguali, ma siamo diversi gli uni dagli altri ed è questo il bello della vita, perché proprio dalla diversità nasce il desiderio di conoscersi, amarsi, parlare, crescere e vivere”. Così in un secondo successe il tutto. Ognuno come d’incanto si differenziò dall’altro: chi ebbe gli occhi color verde, chi azzurri, chi neri, chi blu, chi marroni, chi i capelli ricciuti, lisci, mossi e di colore diverso, chi alto chi basso, chi magro chi grasso, e così via. Ma ancora non erano contenti: si sa quando l’entusiasmo invade i cuori vengono mille idee, così certa gente tinse la propria pelle di rosso, altri di giallo, di bianco, di nero, chi prese gli occhi a mandorla e chi più rotondi. Così sì che era un mondo vario e divertente! E tutto andò avanti per un lungo periodo in cui ognuno era felice. Ma si sa, quando si diventa diversi è in bene e in male. Così nacque anche gente che non vedeva di buon grado altri colori di pelle, e non solo ma altre cose diverse dalle proprie e così nacquero i primi guai. E tutto ciò faceva male sia al cuore dei perseguitati che al cuore di chi era veramente consapevole che la diversità è una cosa buona e naturale. <br />E così andò e va avanti il mondo e si spera che presto tutti siano consapevoli che ogni diversità è bella e affascinante non solo nell’aspetto fisico, ma in tutti gli aspetti che la vita ci regala.<br /><br />“L’uomo saggio impara soltanto ciò che è giusto,<br />e poi lo insegna agli altri”.<br />Buddha, Pensieri<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />Come mai il mare è salato<br /><br />Esisteva, in un tempo assai lontano, un Re assai crudele. Nessuno tranne lui stava bene. Era così ricco da non poterlo nemmeno immaginare. Tutto il popolo da lui dominato viveva in estrema miseria. Doveva pagare tasse molto molto elevate e nonostante questo il Re Arin faceva mangiare tutti pochissimo. Il Sovrano pensava:<br />“Se mangiano pensano e se pensano vorranno sempre più cose, più deboli sono e meglio è per me”.<br />Vivevano in capanne ammonticchiate l’una vicina all’altra, e la miseria era il loro pane quotidiano. Le terre erano abbondanti di raccolto e da mangiare ci sarebbe stato per tutti, lasciando ugualmente tanto al Re Arin. Un giorno una fanciulla di nome Nenè, stanca di vedere tutti soffrire, decise di fare qualcosa.<br />Si introdusse a corte come cantastorie per il divertimento del Sovrano. Questa fanciulla dai poteri eccezionali, mentre raccontava una storia al Re Arin, iniziò una cantilena che incantò il tanto famigerato Re.<br />Nenè disse:<br />“O mio Re, ora farai tutto ciò che dico io lasciando spazio solo al tuo cuore”.<br />E il burbero Sovrano così rispose:<br />“Sì, mia dolce fanciulla”.<br />Nenè gli ordinò:<br />“Darai alloggi e cibo a tutti i tuoi sudditi in maniera giusta e al tuo risveglio la tua mente sarà libera dal passato”.<br />E così fu.<br />L’incantesimo poteva durare solo un anno. Questo fu un periodo felice in cui il popolo ebbe tutto ciò che Nenè aveva ordinato al Re. Trascorso un anno, il Re voleva togliere ai sudditi tutto ciò che avevano ottenuto, ma le menti delle persone ora funzionavano proprio bene, perché, proprio come diceva Re Arin:<br />“Se mangiano pensano, ecc., ecc.”.<br />E così tutti i sudditi continuarono a svolgere la loro vita senza assoggettarsi ai comandi. Re Arin ordinò così alle sue guardie di arrestarli tutti e ucciderli.<br />Ma anche loro ora erano in grado di ragionare e distinguere il giusto dal non giusto e si opposero a ciò che era stato loro comandato.<br />Re Arin si trovò completamente solo e finalmente il suo cuore trovò spazio e capì che aveva sbagliato tutto. Fuggì per un anno intero e andò a piangere sui suoi misfatti in riva al mare, e pianse così tanto che l’Oceano stava per straripare se lo avesse fatto per un altro giorno.<br />Versò così tante lacrime che le acque di ogni mare oceano divennero salate, perché si sa, le lacrime sono salate.<br />Chissà che disastro sarebbe successo se non fosse arrivata la piccola Nenè la quale prendendolo per mano lo riportò tra la sua gente.<br />Da quel giorno, il crudele Re Arin divenne il sovrano più buono e saggio mai esistito. Egli continuò a raccontare come mai il mare è salato e ancora oggi nelle lontane terre dove il Sovrano ha abitato, continua a tramandarsi questa leggenda.<br /><br />“Non negare un beneficio a chi lo chiede,<br />quando sei in grado di farlo”<br />“Più di tutti veglia sul tuo cuore, da questo sgorga la vita”<br />Proverbi della Bibbia<br />L’Ombrello senza padrone<br /><br />Chi ha mai detto che gli oggetti non hanno anima? Ora vi racconterò di Nanzè l’ombrello, la cui vita ebbe inizio nella bottega di Zazzè l’artigiano, il quale costruiva gli ombrelli a mano nonostante già da molto tempo esistessero le fabbriche. Era un vecchio nostalgico e mai si era arreso all’idea che dei macchinari si fossero sostituiti al lavoro artigianale. Ne aveva visti di ombrelli usciti freschi freschi dalla fabbrica, ma lui voleva portare avanti una tradizione secolare della propria famiglia. I suoi clienti erano vecchi nostalgici di un tempo in cui ancora si creava con le proprie mani, come per imprimere un’anima anche alle cose. C’è chi dice che le cose se vengono create con Amore sprigionano Amore. Un giorno il vecchio Zazzè, durante una sua passeggiata nel bosco, fu colpito da un vecchio faggio, il quale abbattuto da poco, giaceva a terra e sembrava raccontare il suo dolore a causa di questo. Il vecchio Zazzè era un uomo capace, con la sua sensibilità d’animo, di parlare con tutto e tutto gli rispondeva. Era fermamente convinto che ogni cosa avesse vita propria, con una propria storia e una propria anima. Ma tutti, proprio per questo, lo ritenevano un po’ svitato e dicevano:<br />“Povero Zazzè, il suo cervello non funziona più”.<br />Ma il vecchio non si preoccupava del parere della gente, perché era convinto che ognuno deve saper spendere la propria esistenza come meglio crede e non curarsi dei giudizi altrui. L’unica cosa veramente valida consiste nell’essere in armonia con la propria anima. Bisogna respirarla la vita, e non polemizzare su ogni battito di cuore altrui. E fu così che Zazzè si inginocchiò vicino al tronco e lo accarezzò con Amore e recependo questo calore, il faggio chiese al vecchio di portarlo con sé e utilizzarlo come meglio credeva. Così egli fece. Prese un’ascia e fece tanti pezzi del tronco, e caricatolo su di un carrello, lo portò nel suo laboratorio. Ne ricavò molte cose e il vecchio faggio ne fu felice: un tavolo, due seggiole, un piccolo mobile, e un ombrello il quale era così bello da rendere il faggio orgoglioso della perfetta lavorazione che Zazzè aveva dato al suo tronco. L’Amore dell’artigiano si respirava in ogni oggetto da lui creato. Egli rispettava ogni singola sua creazione, e se mai una seggiola o un’altra cosa si fosse rotta, egli si guardava bene dal gettarla ma ne ricavava altri oggetti. Tutti pensavano che fosse un vecchio spilorcio, capace di utilizzare anche non so cosa per risparmiare e accumulare quattrini. Dicevano “Quel tirchio non getta mai nulla. Ma che se ne farà di tutti quei soldi; scommetto che il suo materasso al posto della lana, ha tutte banconote accumulate. Quel taccagno per risparmiare non so cosa farebbe!”.<br />Nessuno aveva capito la qualità del suo non gettare nulla. Comunque Zazzè non si occupò mai dei giudizi e tanto meno di giustificare le sue azioni. Sua moglie sapeva che, sotto la cosiddetta spilorceria del marito, si nascondeva un cuore tenero come pochi. Egli aveva per la moglie mille premure ed era un marito esemplare, ogni desiderio dell’amata era esaudito ancor prima che lei potesse finire di esprimerlo.<br />Come dicevo, l’ombrello era così stupendo da incantare anche lo stesso Zazzè che lo aveva creato e si chiedeva come avesse mai potuto fare uscire dalle proprie mani un’opera così stupenda. Certo, era per lui il risultato di secoli e secoli di esperienza avuta dai trapassati, che si esprimevano attraverso le sue mani, e si sentiva immensamente grato del regalo che gli avevano fatto. Era infatti l’oggetto più bello in assoluto che aveva creato; per questa ragione lo battezzò, dandogli il nome di Nanzè.<br />Di lì a poco, Zazzè e sua moglie Onara sognarono di essere paracadutati da Nanzè, in un posto dove tutto era pace e nel viaggio si sentivano così leggeri, da non sentire più il peso dei loro corpi e dei loro anni. I due coniugi rimasero in questo posto di beatitudine eterna dove tutto era colore e musica. Il distacco da Nanzè fu dolce, infatti ancora avrebbe dovuto continuare il suo viaggio sulla terra.<br />Poiché non avevano lasciato nessuno al mondo, la vecchia casa dei coniugi fu saccheggiata dagli abitanti del paese, ma ogni oggetto e cosa di cui si erano illegittimamente appropriati, misteriosamente spariva per cui, presi dal terrore che quella casa e quegli oggetti fossero stregati, non misero più piede nella vecchia dimora, nella quale intanto tutti gli oggetti costruiti da Zazzè fecero ritorno. E così fu per molto tempo, fino a quando non fu deciso di abbattere la casa per costruirvi un alto edificio, e tutto attorno una zona residenziale. Anche la casa era stata costruita dal vecchio Zazzè e le sue pareti parevano avere un’Anima propria. Non voleva finire sotto una ruspa, per cui, come per magia, una notte la casa sparì nel nulla, e al suo posto rimase solo Nanzè, lì con tutta la sua bellezza e la sua maestosità. Si ergeva proprio lì nel mezzo, dove fino allora era stata la vecchia casa, come a voler difendere un territorio, l’unica sua arma era lui stesso nella sua bellezza e fierezza. La mattina le ruspe erano lì, pronte per abbattere quelle vecchie mura, appartenute a quel pazzo che per tutta la vita era passato come visionario e vanitoso. E dicevano: “Come credere che gli oggetti abbiano un’anima. Solo un superbo e svitato come Zazzè era capace di una simile fandonia”. Ma quel giorno la gente scettica che tanto aveva criticato Zazzè ebbe un moto di sussulto e terrore. La casa dove mai era finita? Tutto ciò fece tremare di paura la gente sciocca e stolta di Mava, e nessuno di loro riuscì a comprendere il messaggio, che solo il cuore di un puro avrebbe capito. Nessuno mai toccò quell’Ombrello, e lì accanto è fiorito un prato arredato da mille fiori da infiniti colori stupendi e da profumi acuti e leggiadri, vi sono alberi abitati da uccelli che cinguettano felici e sereni. Nonostante ciò, gli abitanti non si avvicinano a quel prato che tutti reputano stregato e come recintato da filo spinato. Nessuno capisce che l’ostacolo è la loro paura d’amare, e l’unico modo per superarlo è un cuore coraggioso e libero dagli ostacoli della mente e aperto alla vita. Nanzè, l’Ombrello senza “padrone”, è sempre lì, nella sua sfolgorante bellezza e il tempo e il vento e l’acqua non l’hanno mai sciupato. È lì in attesa di avere un “padrone” come Zazzè e solo allora egli si regalerà a chi saprà capire.<br /><br />“Con la serenità, la limitazione, il controllo, il saggio si costruisce un’isola che l’inondazione non sommerge”.<br />Buddha, Pensieri<br /><br />La scuola alla rovescia<br /><br />Zuro e Flea erano due gemellini che, fin dalla più tenera età erano stati abituati alle buone maniere e ai ruoli ben distinti che si addicono ai maschietti e alle femminucce. Ma quando mamma e papà uscivano, entravano in un mondo tutto loro ideale, realizzato al di là da ogni convenzione e schema. Zuro e Flea erano bambini di un’intelligenza unica. Sapevano bene che essendo così piccoli non sarebbero riusciti a imporsi e opporsi agli adulti, ecco perché davanti a loro facevano di tutto per aver meno guai possibili. E ci riuscivano bene. All’età di sei anni furono mandati a scuola e fu un anno davvero indimenticabile. Questa nuova istituzione acuiva ancora di più i loro ruoli ma non si limitava a questo. I bambini non erano vissuti come persone che, anche se piccole, hanno sempre qualcosa di grande da insegnare anche agli adulti. È vero, questi ultimi hanno cultura ed esperienza, ma i bambini hanno dentro di sé la spontaneità, la saggezza che troppi adulti accantonano. Ci vorrebbe solo il coraggio di cose semplici, per riconquistare questo lato. Zuro e Flea lo sapevano e ne erano veramente dispiaciuti. Loro certo non volevano cadere in questo errore e tutto accadde in quella notte. Loro amico era Blauber il vecchio orsacchiotto che erano riusciti a salvare. Questo era senza un orecchio, spelacchiato, con un solo occhio per cui i genitori volevano riporlo tra le cose da regalare ai bambini poveri. Non volendo separarsi da Blauber, i piccoli accettarono di buon grado il nuovo giocattolo per non insospettire i genitori, e fecero finta di avere smarrito il vecchio orsacchiotto. Quella notte Zuro e Flea si sentirono chiamare per nome, chi mai poteva essere?<br />- Zuro, Flea, sono io Blauber, questa è una notte magica dove tutti i bambini e tutti i giocattoli possono esprimere uno o più desideri e questi si avvereranno. Parlate davanti alla Luna, vedete viene giù un raggio e qui ogni messaggio viene impresso e poi realizzato.<br />I bambini così parlarono:<br />- Blauber, grazie. Noi desideriamo che la scuola sia più divertente e gioiosa e che questi adulti, oltre che insegnarci, ci sappiano ascoltare e farci anche a noi decidere qualcosa. -<br />E Blauber rispose:<br />- Ho capito il vostro messaggio e da domani tutto sarà in questa dimensione. -<br />Così il giorno dopo, la Luna, che aveva recepito il messaggio e il suo volere, mandò i suoi influssi non solo sulla scuola ma in tutto il mondo. Fin dalla prima mattina tutto fu diverso, il linguaggio e l’atteggiamento dei genitori era trasformato nei confronti dei piccoli, che subito lo capirono. Lo sguardo di mamma e papà era come fossero in trance e finalmente nei loro occhi si iniziarono a intravedere calore e luce. Arrivati a scuola, la maestra con i bambini e i custodi portarono via tutti i banchi e al loro posto fu messa una grande moquette, tutti poi si misero a sedere su di essa compresa la maestra Launa che chiese ai piccoli di parlare di se stessi e tutti assieme avrebbero collaborato per una crescita e ricerca spirituale. L’insegnante, dopo aver ascoltato i piccoli, così parlò:<br />- Miei piccoli, i bambini hanno una spiritualità immensa che poi man mano che crescono viene soffocata dal mondo in cui sono costretti ad entrare. Ora ricordo, ascoltate se lo desiderate.<br />Ero nata da poco, e nella mia culla filtrò un raggio di sole e attraverso lui viaggiai a velocità ultrasonica su altre costellazioni, Xun per la precisione, un mondo dove esiste solo il quieto vivere, tranquillo ed armonico, e lì mi fu assegnata la mia missione sulla terra, dovete sapere piccoli che ognuno ne ha una. Io dovevo insegnare a dei bambini i quali a loro volta, un giorno mi avrebbero aiutato a ritrovare la bambina che un giorno fui. Da qui si interrompe il mio ricordo che più non può andare oltre, per permettere a ciò che deve accadere di accadere. -<br />I piccoli presero per mano la saggia maestra e tutti insieme fecero un girotondo che inventarono lì per lì e diceva:<br />“Giro giro Mondo io giro tutto attorno e ancor dopo giro ancora come una lesta trottolina e vedo i colori tutti attorno e da tutti quanti colgo il mio frutto. Frutto frutto che lancio tutto attorno, che lancio a te e tu lanci a me e dopo sopra vi saltiamo tutti insieme per andare nel Paese del Buondì, (buon dì), ed ora a dire tocca a te”.<br />Furono giorni di Vita, esperienze indimenticabili e tutto attorno cambiava in modo vertiginoso. Era tutta una gran cuccagna ed ogni cosa, così trasformata, diventava piacevole. Questa libertà dell’anima dilagò a macchia d’olio. I due fratellini uscivano di casa con Blauber che era diventato il grande amico di tutti. A scuola, tutti impararono di nuovo a ridere e piangere, quest’ultima possibilità negata specialmente ai maschi perché ritenuta una debolezza. E le donne non furono più declassate come ordine sociale ma a poco a poco i ruoli si distrussero da soli. E ci fu una gioia totale di vedersi, scambiarsi e viversi: tutto era indescrivibile. Anche il direttore della scuola, un burbero classicamente temuto per la sua superbia, acquistò uno sguardo così puro che i bambini cominciarono ad amarlo e a non temerlo più. Egli iniziò a piangere di felicità, anche per la sua passata cecità, ma i piccoli che sanno vivere il presente accantonarono il passato, quando entrava tutti attorno gli gridacchiavano:<br />- Ciao Barol, vieni con noi a fare un girotondo? andiamo poi a vedere le stelle e insegnaci cose che ancora noi non sappiamo. -<br />E così tutta la vita divenne gioiosa e Zuro e Flea ne erano felici. Non avrebbero mai voluto rompere l’incantesimo, perché temevano che gli adulti tornassero ai loro vecchi ruoli solo per un vizio di ipocrisia. Essi avevano imparato il vivere felice, cosa che non esclude assolutamente l’essere adulti. Zuro e Flea credettero bene sia per loro ma anche per gli adulti, continuare a vivere in quella dimensione.<br />Così Blauber ebbe la concessione di tramutare quello stato di cose in modo stabile. E così fu.<br />Questa è solo una fiaba ma chi l’ha scritta si domanda:<br />- chissà se i bambini che leggono questa fiaba, sarebbero capaci poi di continuare a vivere in questa dimensione una volta adulti, o se varcato il muro dell’adolescenza si dimenticheranno di ciò e ci vorranno altri bambini ancora a ripetere questa storia. Solo a voi la risposta. -<br /><br />“Anche in una situazione in cui i tuoi sentimenti sono completamente giustificati, o senti di aver pienamente ragione! Anche in questo caso sii aperto alle possibilità di qualcosa al di là di tutto ciò che hai sempre conosciuto. Esci dall’esperienza passata<br />e buttati in una dimensione totalmente nuova”.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br />L’Oca ferita<br /><br />Abulina era l’Oca capo del villaggio e tutte confidavano nella sua estrema saggezza. Questa era un animale speciale con piume dorate e dal becco argentato, ma non solo per questo si contraddistingueva dalle altre. Si deve sapere, che ogni mille anni tra queste oche ne nasce una con caratteristiche uniche, ed è usanza reputare ciò segno del destino che vuole innalzare il diverso a illuminato e saggio del villaggio. E per tutto questo periodo l’intera popolazione vive e cresce sugli insegnamenti dati dall’Oca designata dal destino.<br />Già da remote generazioni, allo scadere dei mille anni ciò accadeva con regolarità estrema senza neppure il frapporsi di un secondo. Ora sarà curiosità del lettore sapere cos’era la caratteristica che la rendeva così unica.<br />L’Oca aveva tre zampe, con due camminava normalmente come le sue coetanee, e la terza le serviva solo nei momenti di grandi decisioni per intraprendere la via giusta. La vita nel mondo Ochinense si svolgeva tranquilla, beata, in maniera molto semplice ed equilibrata. Assai raramente accadeva un qualche importante evento, che richiedeva una risoluzione saggia e determinata. Fino allora le Oche designate avevano saputo prendere queste decisioni nella maniera più giusta. Un giorno accadde una cosa assai grave, in quel mondo così distante dal genere umano. Sapevano, da storie tramandate, che tra gli uomini esisteva un sistema di divertimento chiamato caccia, che consisteva nell’uccidere con fucili dalle pallottole mortali. Essi si vanagloriavano di questo sport dove chi riesce ad uccidere più animali è considerato il più bravo. Un tempo assai lontano, la caccia era soltanto una stretta necessità di sopravvivenza, tempo in cui ancora si rispettava l’equilibrio del tutto. Un giorno, uno strano giorno diverso dagli altri, Abulina avvertì nitidamente che stava per accadere qualche cosa di veramente orribile. Gli altri Ochinensi non riuscivano a crederle, ma dato che lei riscuoteva la loro massima fiducia su tutto, fecero ciò che la saggia Oca chiese loro, e cioè di rifugiarsi all’interno del cratere Ouli, vulcano inattivo da sempre. Lei avrebbe trovato la maniera più giusta e saggia per far sì che la pace tornasse a sorridere nel mondo delle Oche. Questo era proprio un bel guaio, e in queste occasioni così importanti l’Oca era solita andare in vetta al Monte Stero, e qui rimase tre notti e tre giorni. Al quarto giorno, Abulina andò ancora a meditare sotto il vecchio Pino Mazzuolo e mentre era in questo stato riflessivo, caddero tre pigne dall’albero che si tramutarono davanti ai suoi occhi in tre possibilità, e ognuna di esse le illustrò le varie risoluzioni.<br />La prima era costituita da una forza massima di pensiero, che, capace di uccidere i cacciatori, avrebbe riportato la pace tra le Oche, <br />la seconda era un filtro magico che avrebbe tramutato i cacciatori in oche, <br />la terza consisteva in un modo per arrivare al cuore di questi lazzaroni, così che gli stessi di spontanea volontà dichiarassero pace alle Oche.<br />Questa era la via più rischiosa ma Abulina senza indugio alcuno, con la sua terza zampa, trotterellò verso questa soluzione e lasciò le altre due. Il Pino era felice per la decisione, essendo questa la più saggia. L’Oca si affidò al potere magico della pigna alla quale chiese aiuto. Essa le offrì i suoi pinoli e mangiandoli, questi avrebbero dato ad Abulina la forza interiore per affrontare la situazione. La saggia compì tutto come in un rito magico e così impavida si incamminò verso i cacciatori. Ora l’Oca aveva in sé un potere magico grazie al quale era anche invulnerabile. Gli uomini armati di fucili, appena la videro, spararono e lei decise nell’istante come realizzare il suo piano: volle rimanere ferita dalle armi da fuoco appena gli uomini fossero andati a prenderla... e così fu. Abulina da ogni ferita riportata fece nascere Oche, e questo di certo fu per i cacciatori un’esperienza allucinante. E solo allora l’Oca si alzò e così parlò:<br />- Voi uomini siete venuti qui con i vostri fucili a seminare panico paura e morte, ma io e le mie compagne vogliamo continuare a vivere in pace, e quel giorno a noi designato per trapassare all’altra vita, non saranno certo i vostri fucili a sentenziarlo. E voi portatori di sterminio, rendetevi conto che neppure l’odio e la stoltezza può vincere, quando saggezza e amore gli fanno da barriera. - <br />E misteriosamente tutti i fucili si tramutarono in stelle filanti. Dopo questo, gli uomini non ebbero più parole se non lacrime sincere di pianto per la loro superficialità, e fecero solenne promessa che nessuno mai avrebbe più turbato Ochinense, perché loro avrebbero impedito a chiunque di farlo, persuadendolo come loro stessi lo erano stati dalla saggia Abulina. Solo allora le Oche, al richiamo convenuto, uscirono dal Vulcano e con Abulina allestirono un sontuoso banchetto, dove gli uomini furono invitati. Fu una grande festa di pace, dopo di che gli invitati fecero ritorno alla loro terra non più con preda di caccia, ma con qualcosa da insegnare a tutti.<br /><br />“Se vuoi trarre il massimo beneficio<br />da qualsiasi situazione, devi impegnarti totalmente.<br />Questo ti darà la chiave”.<br />Osho Rajneesh<br />Il ruscello fatato<br /><br />Nelle lontane terre di Abaria scorreva un ruscello fatato chiamato Rufa e chiunque vi si immergeva ne usciva spiritualmente arricchito. Questa sua grande facoltà fu scoperta un giorno nel quale vi cadde dentro un delinquente incallito: e di qui ne uscì completamente cambiato, diventando una persona veramente amabile, buona, arricchita interiormente, e così fu per chiunque vi si immergesse. Per questo motivo molti studiosi avevano esaminato dettagliatamente le sue acque che risultavano del tutto normali. Gli Abariani, sfruttando le capacità delle magiche acque, chiusero le prigioni e ogni malvivente del paese fu fatto tuffare in queste acque. Il mondo, dilaniato da guerre sempre più cruenti, essendo ora venuto a conoscenza delle magiche acque si divise in due fazioni, l’una che voleva l’armonia del tutto e l’altra, per interessi economici, che le guerre continuassero ad esistere. Certo era che se i soldati e costruttori d’armi si fossero resi consapevoli di ciò che realmente è la guerra, avrebbero smesso sia di andare al fronte, che di costruire armi sempre più sofisticate. Gli Abariani e questa parte del mondo pacifista volevano veramente pacificare questa umanità piena di violenza e odio e far regnare fra tutti amore e armonia. Una notte, tutti i ricercatori di pace si accamparono sulle sponde del ruscello con rispetto e devozione chiedendogli che fosse loro indicata la via giusta. Le loro parole e pensieri, d’un tratto, presero consistenza in un fascio di luce il quale illuminò tutta la notte e come pioggia di coriandoli cadde nelle acque da cui ebbe vita Dinacodè, dimensione illusoria, che al tempo stesso può essere vissuta come reale. Essa spiegò la sua origine e tutti iniziarono a danzare attorno al fascio di suoni e colori che diventava sempre più bello. Vioux, folletto emerso dalle acque, spiegò come l’essenza potesse essere utilizzata: ogni portatore di pace doveva disporsi attorno a Rufa, tenendosi l’un l’altro per mano infondersi coraggio, e andare poi incontro a coloro che volevano l’odio e le guerre. Le pallottole sarebbero rimbalzate sui corpi dei pacifisti tornando indietro e colpendo così gli altri. In questo modo, sarebbero stati massacrati e, vivendo ciò sulla loro pelle, avrebbero capito l’orrore della guerra. E così fu. Dello sterminio fecero parte anche i batteri killer i quali uccisero i figli degli stessi inventori. Essi piansero lacrime amare e solo ora si resero conto di ciò che avevano fatto. Ah! Se fossero potuti tornare indietro le loro invenzioni sarebbero state rivolte solo per il bene. <br />“Che orrore la guerra”, dicevano e pensavano tutti. Maori, uno dei pochi sopravvissuti, aveva in tasca dei piccoli fiori che gli erano stati regalati dalla sua bambina rimasta uccisa dal batterio da lui stesso inventato. Si diresse verso un piccolo pezzo di terra, e qui dispose con amore i semi ricavati dai fiori, e da essi sperava ne nascesse almeno uno solo, capace di donare almeno un sorriso in quella valle di desolazione. Così ognuno dei superstiti fece un gesto d’amore, da cui nacque il desiderio di ricominciare a vivere in maniera completamente diversa, all’alba di una civiltà all’insegna della pace. Ora sì che i pochi superstiti erano legati da un qualcosa di divino! A questo punto Dinacodè capì che era il momento giusto per dileguarsi e tornare nelle acque del fiume.<br />Nel campo di battaglia, dove nessuna catastrofe era veramente accaduta, tornò la realtà, ed ora qui tutti i guerrafondai di prima piangevano lacrime amare perché si erano realmente resi conto di ciò che porta la guerra: distruzione e sofferenza. Con il loro pianto purificarono il loro passato e decisero l’unica cosa saggia: il passato appartiene solo al passato, ora avevano davanti a loro il presente, il futuro, e decisero che da allora in poi avrebbero inventato, tutti quanti uniti, un qualcosa di innocuo per neutralizzare ogni loro passata invenzione.<br />Capendo che finalmente la consapevolezza era scesa in ognuno, di nuovo Vioux e Dinacodè emersero dal ruscello e con la loro facoltà di esaudire i pensieri positivi, fecero in modo che l’invenzione potesse essere concretizzata subito e la nuova formula dell’invenzione fu così siglata: C.P.N.M.<br />C = consapevolezza<br />P = pace<br />N = nel <br />M = mondo.<br /><br /><br />“Sii consapevole che perfino quando commetti<br />un errore, anche quella può essere un’occasione. Quando capisci che sei andato contro la tua verità e che sei sceso a compromessi, rispetto a ciò che senti nel cuore, lascia che dentro di te le lacrime scorrano in profondità: potranno produrre una trasformazione”.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br />Come fece Babbo Delfino a trovare Dolly<br /><br />Nelle lontane terre dell’Oceano Pacifico, c’era vita di ogni tipo e nelle acque l’esistenza si svolgeva in maniera tranquilla e armoniosa. Gioco, fantasia, attività quotidiane erano tutte in equilibrio così perfetto, che nessuno degli abitanti mai si lamentava della vita anche laboriosa che dovevano svolgere, specie in certi periodi dell’anno, in cui il cibo abbondava e i delfini dovevano fare provviste per i tempi più magri. Qui esistono famigliole che si raggruppano in branchi e non si dividono mai. Ognuno ha i propri compiti che con diligenza e amore ogni giorno riesce a portare a giusta conclusione. C’era una famigliola di cui vi parlerò con più precisione perché la sua storia fece il giro dell’Oceano.<br />C’erano babbo e mamma delfino che misero al mondo una bella delfina di nome Dolly.<br />Dolly era diversa dalle altre pescioline, era curiosa in maniera estrema, così tanto che ogni onda dell’Oceano la distraeva e babbo e mamma dovevano stare attentissimi a non perderla di vista. La delfina voleva bene ai suoi genitori, ma la curiosità era così forte che avrebbe fatto follie per scoprire altre verità. Man mano che la piccola cresceva, l’Oceano le diventava sempre più stretto. Era intelligentissima e sicuramente a lei si addiceva il mestiere di scienziata o ricercatrice. Voleva allargare la sua conoscenza e Dolly avvertiva, intuiva che il mondo non si limitava solo all’enorme Oceano che la accoglieva, e dentro di sé un qualcosa la spingeva a conoscere altre realtà. Così un giorno, mentre babbo e mamma Delfino nuotavano e guizzavano fuori dalle acque, Dolly in un impeto ancor più forte dell’affetto che provava per i propri genitori, con un forte guizzo, salì sulle spalle di Miron, un suo amico gabbiano, e gli chiese di portarla a fare un giro per esplorare altri mondi. E così Miron fece. Lui sapeva bene dell’innato spirito libero di Dolly e che ora lei era adulta abbastanza per decidere. Così fu che, con un sospiro, Miron accontentò l’amica. Vola che ti vola, sfiorarono l’alto dei cieli e ad un certo punto Dolly vide la terraferma. Ciò la emozionò tantissimo, non tanto perché non l’aveva mai vista, ma perché le sue teorie prendevano consistenza: esistevano altre dimensioni oltre l’Oceano. Così chiese a Miron di portarla sulla terraferma perché lei voleva esplorarla e così fece. Miron disse all’amica:<br />“Buona fortuna Dolly, quando hai bisogno di me, chiamami, io verrò da qualsiasi parte sia, non dubitarne mai”.<br />E così i due amici si salutarono affettuosamente. Dolly iniziò la sua avventura. Vide che nel mondo c’erano male, ingiustizia e soffriva di ciò. Cercò di vivere la sua avventura nella maniera più completa possibile, e fece in modo tale da lasciare un’impronta positiva in tutto ciò che qui sperimentava. Imparò anche molte cose, un giorno le avrebbe raccontate ai suoi piccoli non come una favola, ma come esperienza di vita, visto che decise di far ritorno nell’Oceano.<br />Ora che sapeva dell’esistenza di un’altra dimensione, vi sarebbe tornata un giorno con i suoi figli per nuove esperienze. Voleva che i suoi bambini conoscessero più realtà possibili e decidere poi in piena libertà la via preferita.<br />Un giorno Dolly sentì più che mai il richiamo dell’Oceano, allora chiamò Miron, il fedele amico, che arrivò puntuale come sempre. Nel viaggio si scambiarono le varie esperienze fatte. Anche Miron, dei suoi voli, aveva molto da raccontare.<br />Quello che si dissero! Vi dirò solo la conclusione del loro lungo dialogo. Si ripromisero di tornare assieme sulla terraferma e nell’alto dei cieli per arricchire sempre più le loro esperienze.<br />Ecco l’Oceano:<br />“A presto Miron”.<br />“A presto Dolly, quando sarà il momento di viaggiare ci ritroveremo come sempre”.<br />E Dolly con un guizzo tornò nell’Oceano. Suo padre era lì che nuotava alla ricerca di Dolly. Si voltò e finalmente la vide.<br /><br /><br />“Noi siamo il risultato dei nostri pensieri, tutto viene determinato dal nostro pensiero.<br />Se un uomo parla o agisce con intenzioni pure,<br />la felicità lo seguirà come un’ombra per sempre”.<br />Buddha, Pensieri<br /><br /><br /><br /><br />Perché le nuvole stanno in cielo<br /><br />Un tempo ormai lontano un intero continente era minacciato da un pauroso terremoto che lo avrebbe raso al suolo, ma per fortuna fu scoperto dai macchinari sofisticatissimi degli Eulotoni, popolo dalla civiltà assai progredita.<br />Essi avevano capito che finché un solo individuo soffre, la felicità è solo effimera perché anche se così diversi, siamo tutti figli di un medesimo mistero.<br />Gli Eulotoni decisero così di aiutare questo continente nella realizzazione di una macchina sotterranea capace di neutralizzare il sisma.<br />Certo che gli Eulotoni avrebbero dovuto accantonare per un lungo periodo il loro estremo benessere. Per loro ne valeva la pena, poiché era per la salvezza di altri esseri viventi. Dopo che l’altro continente fu salvato, i due popoli vissero un lungo periodo di felicità, fino a quel giorno in cui tutto l’equilibrio si stravolse a causa di un virus, che neppure gli scienziati riuscirono a distruggere. La sua manifestazione consisteva in invidia, cattiveria, odio e rivalità e questo contagio si allargava a macchia d’olio.<br />Prima che contagiasse tutti, arrivò Luoxa, la scienziata che era anche chiaroveggente e per merito di questa sua dote aveva previsto tutto.<br />Lei aveva nascosto una sostanza capace di arginare questo virus denominato Boioc.<br />Le dosi del vaccino non erano sufficienti per tutta la popolazione, per fortuna però questo rendeva immuni chi lo prendeva e le persone non ancora contagiate che venivano in contatto con essi. Questa era una guerra tra Virus, che continua ancora oggi.<br />Luoxa ebbe il dono dell’immortalità e per questo la scienziata giurò di fare sempre di tutto per arginare il grande male.<br />Gli scienziati di allora e le persone rimaste indenni, piansero tantissimo nel vedere come il virus riducesse le persone, e versarono così tante lacrime che da queste scaturirono rivoli d’acqua. Un giorno ci fu un sole così intenso da far evaporare le lacrime cadute e queste arrivarono fino al cielo. Così ebbero origine le nuvole e da quelle altre ancora, nate sempre dalle lacrime di coloro che sperano che le situazioni migliorino.<br />Ogni tanto le lacrime delle nuvole cadono sulla terra per ricordare a Luoxa la promessa fatta, e torni così quel lontano giorno in cui gli Eulotoni avevano acquisito veramente il saper vivere.<br />Si avvererà tutto ciò?<br />Molte più assai persone si rivolgeranno fiduciose all’infinito e più questa speranza ha la possibilità di concretizzarsi.<br /><br />“Non esiste il male per chi non lo commette.<br />Colui che non ha ferite nella mano<br />può toccare il veleno e rimane incontaminato”.<br />Buddha, Pensieri<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />Perché il cammello ha due gobbe<br /><br />Il cammello, molto tempo fa, invece di avere due gobbe aveva al loro posto due enormi sacche capaci di contenere tante tante cose. Quest’animale aiutava sceicchi, lavoratori e qualsiasi persona ne avesse bisogno. Ma le persone, a cui lui con tanto amore si rendeva utile, si approfittavano sempre della sua enorme generosità.<br />Gli sceicchi mettevano nelle enormi sacche del cammello, ori, preziosi di ogni genere e il poveretto era sobbarcato sempre da enormi pesi. Allora il cammello fuggì lontano dall’uomo ricco, anche perché quando l’animale non riusciva nel lavoro e camminava più piano veniva frustato.<br />Pensò:<br />“Forse l’umile lavoratore sarà migliore. Sì, lui mi tratterà bene sapendo cos’è il duro lavoro. Andrò da lui”. E così fu.<br />All’inizio andò bene e il cammello ne fu felice, ma questo durò ben poco. Questi uomini avendo a loro disposizione la generosità incondizionata del cammello, credettero bene di poter risparmiare a loro stessi parecchia fatica, tanto che importanza mai poteva avere un cammello?<br />Questa era per loro un’occasione d’oro. Avrebbero potuto lavorare con meno sforzo faticando meno, e guadagnare di più. E il costo era ben poco: sfamare il cammello consisteva solo nel portarlo al pascolo per brucare l’erba dei campi e questa non costava nulla.<br />E tutti erano felici, eccetto il cammello che era ben triste della sua sorte e, un giorno in cui non riuscì a lavorare bene come al solito, ne buscò come un ciuco.<br />Allora, con la complicità delle notte, decise di fuggire ed andò là dove c’erano molti bambini: “Loro certo sono buoni e innocenti e non mi maltratteranno” pensò l’animale. Ma dopo ben poco capì che la sua situazione non era affatto migliorata, infatti una massa di piccoli marmocchi salivano nelle sue enormi sacche e il peso era davvero insostenibile.<br />I bambini, per la loro ingordigia di divertirsi, non si rendevano conto di nulla. Si sa, i bambini sono buoni ma, se nessuno dà loro il buon esempio, possono diventare davvero insostenibili. I grandi li incitavano a approfittarsi del cammello e nessuno capiva che anche lui soffriva sia nel fisico che nel cuore. Anche gli animali, che molti ne dicano, hanno un cuore, emozioni sussulti sentimenti come quelli tuoi mio piccolo lettore, e va rispettato nella sua dignità di essere vivente. Nessuno mai aveva parlato loro così degli animali e i piccoli vedevano nella bestia solo un divertimento, ma se qualcuno glielo avesse insegnato i marmocchi avrebbero compreso.<br />Il cammello, di nome Beniamino, capì questo e per questa ragione non voleva abbandonare i piccoli come aveva fatto con gli adulti. Loro senz’altro avrebbero capito. Avrebbe voluto aiutarli ma come? Ci pensò il caso. Proprio così, molte volte nella vita il caso scorre da solo, basta prendere l’occasione che la vita ci offre e usarla il meglio possibile. Bisogna essere sempre consapevoli di ciò che ci sta intorno, le occasioni per crescere a volte sono uniche e irripetibili e sta a noi coglierne l’attimo fuggente.<br />Un giorno in cui i bambini erano più temibili del solito, salirono su Beniamino in un numero assai superiore delle volte precedenti. Cammina che ti cammina, il cammello passò vicino ad una cava di pietra che sotto i suoi passi pesanti iniziò a tremolare. Ed ecco cosa accadde! Dall’enorme cava caddero delle pietre e come per miracolo i bambini caddero rimanendo incolumi e sul groppone di Beniamino caddero due enormi massi, e lui dal gran dolore svenne. I bambini, che anche se birbanti hanno un gran cuore, iniziarono a piangere, sgomenti nel pensare che il cammello fosse morto. Capirono quanto erano stati sciocchi nel loro sbaglio, infatti avevano preteso l’impossibile da Beniamino e giurarono che se l’amico si fosse salvato, non si sarebbero mai più approfittati della sua bontà. E Beniamino stava male sia a causa della gran fatica a cui da troppo era stato costretto, che nel proprio cuore, in cui sentiva il non affetto che tutti gli avevano dimostrato. Comunque sia, aprì gli occhi e figuriamoci la contentezza dei piccoli! Loro curarono Beniamino con molta dolcezza e amore. I grandi volevano liberarsi del cammello perché stava ancora male e avevano timore che desse loro troppo da fare, ma i piccoli si schierarono in massa attorno all’amico, nessuno escluso.<br />E altri bambini fuggendo da casa scesero da tutte le parti sapendo che gli adulti volevano uccidere Beniamino, tutti erano schierati per salvarlo. Solo allora, vedendo la compattezza unanime dei piccoli, gli adulti sentirono dentro di loro battere un cuore, cosicché dissero ai marmocchi che non avrebbero più ucciso il loro amico, ma avrebbero dato il permesso di curarlo offrendogli anche il loro aiuto. Così iniziarono tutti a curare il malato.<br />Ma giusto! Ho dimenticato di dirvi cosa successe a Beniamino! Che distratta! Ricordate miei piccoli lettori le due enormi pietre cadute sulla groppa di Beniamino? Dalla gran botta gli vennero al posto delle sacche due enormi bernoccoli, i quali nonostante le cure amorevoli dei bambini e degli adulti non se andarono mai più.<br />Da quel giorno in poi i cammelli sono nati sempre con due gobbe perché su due gobbe non si può certo mettere tutto il peso che mettevano prima nelle sacche di Beniamino.<br />Sì, i bambini avevano capito la lezione, ma i cammelli pensarono bene fosse meglio così, in questa maniera era eliminato ogni problema anche perché, come dice il proverbio, “l’asino non casca mai nello stesso punto”. <br /><br />Quando usi il potere devi avere un profondo rispetto<br />per gli altri e per la totalità dell’esistenza.<br />Non interferire nella vita di qualcun altro<br />con le tue idee intellettuali. Se hai potere<br />non manipolare gli altri, usalo creativamente.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />L’Orologio cantastorie<br /><br />Tic-tac, tic-tac, tic-tac ....<br />Di quante storie è stato partecipe quel pendolo che è tradizione di casa Flauber, tramandandosi di generazione in generazione.<br />Nel castello abitano ora i giovani coniugi Flauber che assai spesso devono assentarsi da casa, lasciando così la loro bambina di nome Nenè in compagnia della balia Elsa. Questa donna oltre che balia, è un tuttofare, per cui molte volte va nelle altre stanze lasciando la piccola sulla seggiola a dondolo e lì vicino vi è un pendolo, che mai si stanca di cantare la sua nenia sempre uguale. <br />Nenè ne è affascinata e su di lei ha un effetto magico. Quel 13 dicembre in cui faceva un freddo birbone, e la neve scendeva a fiocchi enormi, l’albero del grande giardino era stato ricoperto dal tipico manto della neve, e sentite cosa accadde a Nenè. Lei era sola davanti a questo magico scenario e il ticchettio del pendolo sembrò tramutarsi in voce.<br />Era sogno o realtà? La piccina si dette un pizzicotto per accertarsene. Era proprio sveglia! <br />- Tu sei proprio dolce e simpatica, ti voglio raccontare di cavalieri e cavalli dalle ali dorate dove portavano le proprie donzelle a visitare paesi fantastici e qui vivevano draghi dalle cui fauci uscivano, invece dei fuochi incandescenti, dolciumi e leccornie che i cavalieri portavano ai bambini poveri che vivevano nelle misere capanne sulla sponda del fiume Trioloco, essi uscivano dalle loro dimore a raccogliere i mille dolciumi lasciati cadere dai cavalieri dorati e li mangiavano a sazietà. <br />Felici di questo gesto d’amore, sempre più si rendevano conto della loro misera situazione e dell’ingiustizia che esisteva nel regno di Trioloco. <br />Si deve sapere che questi dolci erano magici ed era questo un cibo capace di nutrire corpo anima e mente.<br />I cavalieri assai spesso li portavano ai piccoli che, giorno dopo giorno, diventavano sempre più grandi. Fu così che un giorno, quando questi crebbero, chiesero ai cavalieri di unirsi a loro per portare la giustizia nel mondo. E così fu. <br />Furono procurati altri cavalli per i nuovi paladini della giustizia e i cavalieri che ora erano tantissimi, tutti uniti assieme decisero di andare a reclamare giustizia dal Re Fario. <br />Il Re intanto a corte era diventato sempre più ricco, più avido e sempre più solo. Ognuno dei suoi sudditi aveva cessato di amarlo.<br />Si deve sapere che molto tempo prima, quando Re Fario era giovane, fu amato e rispettato da tutto il popolo, egli infatti era saggio e buono, e nel suo regno si stava veramente bene.<br />Un giorno, un brutto giorno, arrivò un mago crudele che fece al Re un sortilegio, rendendolo così cattivo e avido, e da quel giorno in quel regno dove prima soleggiava giustizia e felicità, si conobbe il vero volto della tristezza e della miseria.<br />Il popolo per paura accettava sempre più ingiustizie, sempre più tasse senza mai ribellarsi, cosicché Re Fario, sicuro della sudditanza del popolo, ne metteva sempre delle altre e sempre più governava con arroganza e tracotanza.<br />Tutti i cavalieri che erano arrivati alla corte del Re Fario chiesero di essere annunciati e furono subito ricevuti. Proprio così, era tanto che il Sovrano non vedeva nessuno oltre i servitori, i quali anche se molto ubbidienti per paura, erano con lui freddi e distaccati.<br />Re Fario aveva estremo bisogno di vedere, di parlare con qualcuno perché la solitudine è assai brutta e ancor di più lo è essere odiati da tutti.<br />- O Sovrano - <br />dissero<br />- la tua solitudine è a noi nota e se continuerai ad essere così tiranno, di certo morrai solo, perché nessuno può amare un Re dispotico. Che tu sia il nostro Re, ma come lo eri una volta, ed allora anche l’amore tornerà attorno a te. Solo allora i tuoi sudditi ti porteranno in gloria perché tutto si può, anche essere Re, unici e decidere le sorti di un paese, ma tutto consiste nel saperlo fare, solo così potrai essere degno d’amore e di stima. -<br />Allora, solo allora, l’incantesimo si sciolse, e il Sovrano iniziò a piangere così tante lacrime da lavare tutti i suoi malfatti. I cavalieri, dopo aver così parlato, credettero bene andare via sui loro cavalli dorati e lasciare il Sovrano solo con se stesso.<br />Re Fario, dopo una grande riflessione avuta a tu per tu con la propria anima decise: chiamò a sé i suoi servitori e comandò loro di imbandire una grandissima tavola e, in ogni stanza della reggia imbandire un sontuoso banchetto a favore di tutti i suoi sudditi, e lui avrebbe parlato loro di un cambiamento nel Regno, e così fu fatto.<br />I cittadini di Trioloco pensarono che tutto ciò era molto strano e ubbidirono all’ordine, e nel giorno prestabilito, le porte della corte furono aperte a tutto il popolo.<br />Fu un banchetto ricco di ogni portata e il Re, che naturalmente era presente, tenne un discorso. Disse che dei cavalieri erano riusciti ad aprirgli il cuore fatto prigioniero, un giorno lontano, da un cattivo sortilegio e finalmente l’incantesimo era finito, e grazie a ciò sarebbe tornato a regnare con l’amore e la saggezza di un tempo. Proseguì il discorso nonostante le grida di felicità del popolo, e chiesto di fare silenzio così proseguì:<br />- Ciascuno di voi è in egual misura responsabile del cattivo sortilegio di cui caddi vittima, infatti nessuno fra voi, per paura, si è fatto avanti per reclamare del mio mal regno: questi prodi cavalieri disarmati si sono esposti per rivendicare i diritti di un popolo mal governato, ma in altrettanto modo vi dico vittime della vostra paura e codardaggine, a tal punto da subire cose ignobili. Tutto ciò sia a voi di lezione e a chi vivrà dopo di voi, tramandate alle future generazioni la storia di Re Fario, e spero che da oggi in poi nel mondo non esistano più le tristi sorti che fino ad oggi ho visto a Trioloco. Vi dico di parlare, non abbiate paura di ciò, siate uniti e sarete ascoltati. Ed ora andate o popolo verso le nuove vie. -<br />Tic-tac, tic-tac, tic-tac, e Nenè torna alla realtà.<br />Elsa, avendo finito le faccende domestiche, chiamò a sé la piccola che nell’entusiasmo le corse incontro dicendo:<br />- I cavalieri alati, i cavalieri alati! -<br /> e la balia<br />- piccina mia cosa dici? -<br />Nenè le raccontò così la fantastica storia e la balia sopraffatta dalla stanchezza, mentre Nenè narrava la storia, si addormentò, così la bambina premurosa, coprì Elsa con una coperta e, camminando piano piano per non svegliare la balia, tornò sulla sua seggiola a dondolo vicino al pendolo e così l’orologio continuò la sua storia.<br />- Piccina mia, la storia che ti ho raccontato è una storia vera, io l’ho vissuta, ero lì presente nella sala dove Re Fario parlò al popolo. Sì, ero lì fiero nel mezzo della stanza e il mio cuore batteva batteva commosso di tutto ciò che stava accadendo, e avrei voluto abbracciare il popolo e Re Fario perché finalmente, era tornata la serenità e il quieto vivere nel Regno di Trioloco.<br />Si susseguirono così anni felici e un giorno Re Fario in tardissima età cessò di vivere. Era così vecchio che lui stesso aveva perso il conto degli anni che aveva, e così egli volò in cielo col sorriso sulle labbra e nel cuore, grazie al fatto che era riuscito veramente ad essere un ottimo Sovrano, e più che Re da quel giorno fu per il suo popolo come un buon padre.<br />Alla sua morte ogni cosa era giusta e la povertà nel Regno di Trioloco non esisteva più. In suo onore ci fu una solenne cerimonia dove canti e danze si susseguirono ricordando con gioia e dolore il Re con amore vero, e nella piazza principale fu costruito da maestri artigiani una bellissima statua del Sovrano.<br />Erano tutti profondamente commossi e salutarono il Sovrano con elogi e la sua memoria non tramontò mai.<br />Il trono fu ereditato dal figlio Salfo.<br />Il Re Fario aveva così deciso perché il figlio sembrava buono e saggio, ma ben presto il popolo si rese conto che Salfo aveva avuto questo comportamento solo per salire al trono, ma in verità egli era solo un dispotico assetato di potere.<br />Re Fario prima di andare in cielo, aveva ricordato ai sudditi il discorso da lui tenuto a corte, quando l’incantesimo si sciolse e si raccomandò che le sue parole fossero sempre vive, al fine di non permettere a nessuno di sopraffare la dignità di ciascun abitante del suo popolo.<br />Salfo, con la compattezza di tutto il popolo, fu detronizzato e messo a lavorare nei campi e a vivere in una misera casa, e non poté certo ribellarsi a questa situazione, perché proprio nessuno gli era complice così che per mangiare era costretto a lavorare sodo, cosa del tutto insolita per un Sovrano.<br />Negli anni Salfo riuscì a vedere e leggere nel più profondo di sé, e comprese finalmente il suo popolo e suo padre che era così ben riuscito con l’amore e la saggezza, ad innescare nell’animo del popolo la giustizia e nessuno più sarebbe riuscito a far subire soprusi a nessuno di loro.<br />Comprese finalmente i suoi errori e volle porvi rimedio, chiese di essere ascoltato e così parlò ai sudditi nella piazza principale, promettendo di proseguire le orme del Padre, semmai credendo alla sua buona fede lo avessero scelto in piena libertà come loro Sovrano.<br />Questo discorso toccò il cuore di tutti e tutti sentivano che erano parole sincere, e fu così che Salfo fu eletto all’unanimità di nuovo Re.<br />Di nuovo a Trioloco ritornò l’armonia e l’amore e ogni successore da allora in poi fu saggio e amato da tutti.<br />Come fu possibile che da Salfo in poi in ogni Re ci fosse tanta consapevolezza e amore?<br />Questo Sovrano divenne un grande saggio e riuscì a dare a pochi eletti capaci il compito di governare con lui il paese e di tramandare così la saggezza ai pochi che erano veramente degni di questa fiducia.<br />Mai più ingiustizie sarebbero dovute esistere ma solo saggezza e amore, unico strumento per un vivere equilibrato e armonioso.<br />Tic-tac, tic-tac, tic-tac<br />ed ecco i genitori della piccola Nenè che tornavano dal loro lungo viaggio. <br />Lei corse incontro a mamma e papà con il cuore aperto, perché questa storia le aveva regalato un qualche cosa di grande e bello, e questo dono ora voleva condividerlo con tutti.<br />Volle raccontare subito questa storia ai genitori, che ne rimasero completamente sconvolti e solo ora sentirono la responsabilità della grande solitudine di Nenè, e capirono che erano stati troppo severi con la figlia e i loro cuori tornarono a battere di vere emozioni.<br />Da quel giorno tutto cambiò in casa Flauber, i genitori trovarono più tempo per Nenè e riuscirono a esprimerle quell’amore di cui prima erano stati incapaci.<br />Elsa non perse mai il ruolo affettivo che aveva nella vita di Nenè, che per lei nutrì tanto amore come per sua madre.<br />E sì, l’amore non è una torta che si divide a fette, ma lo si può dare a tutti senza suddividerlo in porzioni.<br />La vita continuò il suo corso e quando Nenè ebbe a sua volta figli propri, chiese ad Elsa di fare loro da balia. E il pendolo continuò il suo tic-tac, tic-tac ed ora ha una nuova bella storia da raccontare.<br /><br />Il cuore può parlare alla roccia ....<br />l’amore totale rivela questo mistero.<br />Sii folle dal cuore.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />Il secchiello fatato<br /><br />Ramona, una ragazzina molto infelice e altrettanto buona d’animo, compiva quel giorno 12 anni. La sua vita era assai triste e per rallegrare le sue giornate, andava sempre in riva al mare e qui stava ore e ore a parlare con ogni elemento della natura, solo così il suo cuore trovava refrigerio, ma tornata alla vita normale la tristezza albergava sovrana dentro di lei.<br />Non si confidava mai con nessuno perché già così piccola, si era chiusa al mondo, e grazie alla generosità dell’esistenza, per il giorno del suo compleanno conobbe Sara, una bambina di sette anni con la quale strinse una profonda amicizia.<br />Subito appena la vide, Ramona grazie alla sua estrema sensibilità, seppe riconoscere in lei una persona eccezionale che nascondeva in sé qualcosa di veramente bello e magico.<br />Fu così che le giornate di Ramona tornarono a sorridere e il suo piccolo cuore indolenzito da un grande dolore, ne fu riscaldato.<br />Ramona confidò alla sua grande amica il dolore che da tanto tempo albergava in lei.<br />Le raccontò che fino all’età di cinque anni aveva vissuto con sua madre e suo padre vicino ad un piccolo ruscello, e delle giornate felici con la madre in cui spensierate andavano a rincorrere le farfalle nei prati, e a volte spiandole da lontano senza recar loro disturbo le osservavano, in tutto il loro magico splendore. Queste avevano colori stupendi che riuscivano a toccare il cuore, lasciandovi una sensazione indescrivibilmente meravigliosa. Tra queste in particolare c’era una farfalla da loro chiamata Isotta, ancor più bella delle altre, e sembrava veramente metterle in contatto con qualcosa di veramente profondo; era azzurra con riflessi gialli, arancioni e puntini trasparenti: essa le accompagnava nelle loro lunghe passeggiate e poi, quando madre e figlia rientravano a casa, lei si innalzava nel cielo volteggiando, disegnando nell’aria magici disegni, e pareva desse loro appuntamento per il giorno successivo.<br />Ramona raccontò poi a Sara delle giornate felici trascorse nel giardino della loro casa, dove c’era un’altalena e mamma, papà e figlia giocavano felici: il babbo Gabriele spingeva l’altalena dove stava la figlia, verso sua moglie Anna, e appena l’altalena arrivava dalla mamma, questa la spingeva di nuovo verso il papà, proprio come nel gioco della palla a volo, e Ramona ne era elettrizzata.<br />Ma un giorno Isotta non si vide più e neppure la mamma Anna. Il babbo, con gli occhi lucidi di pianto, spiegò a Ramona che la madre era volata in cielo sulle ali di Isotta. La bambina tutti i giorni andava al ruscello, cercando di sua madre e di Isotta, ma non le trovò mai, se non nei fantastici stupendi ricordi che arrivavano dalla mamma, che era volata in cielo sulle ali meravigliose di Isotta. La piccola immaginò che le due fossero fuggite assieme in un mondo lontano, rapite dalla bellezza l’una dell’altra. Chiamò Isotta, perché portasse anche lei in quel mondo dove avevano trovato la nuova dimora, ma a nulla valsero le sue affannose invocazioni.<br />Ora che mamma Anna non c’era più, era tutto tremendamente triste e fu così che Gabriele, decise di trasferirsi con il consenso della piccola in un altro posto vicino al mare, dove il ruscello sfociava: la sua Anna amava torrenti fiumi e mari e fu qui che Gabriele si volle trasferire, per rendere omaggio alla partenza prematura dell’amata.<br />Ramona ebbe sempre più uno stretto legame con il mare, e le pareva che dalle acque venisse la voce della mamma e che le onde, infrangendosi sulla sponda, fossero le mani di sua madre, che così la raggiungevano per accarezzarla ancora.<br />Sara fu veramente commossa dalla storia di Ramona, ma misteriosamente Sara scomparve per una settimana. Eppure le aveva detto che sarebbe tornata, che cosa mai era accaduto? Forse anche questa aveva preso il volo come Isotta e sua madre? No, non voleva perdere anche questa cara persona, così ogni giorno fiduciosa e speranzosa tornò in riva al mare aspettando. E dopo una settimana finalmente ritrovò Sara e le due amiche si corsero incontro.<br />Ramona le domandò:<br />“Perché non sei più venuta, credevo che anche tu fossi andata via sulle ali della farfalla Isotta!”.<br />Sara le rispose che le era stato impossibile arrivare pri-ma, perché era andata a cercarle un regalo speciale, e pose nelle mani di Ramona un secchiello dicendole:<br />“Questo è per te, è fatato e solo tu potrai usarlo e solo con te egli potrà sprigionare i suoi poteri”.<br />Ramona era stupita da ciò che le stava accadendo, non aveva mai immaginato che una fata potesse nascondersi in una bambina, nonostante questo le credette: il secchiello rimase tra le sue mani e Sara scomparve.<br />Ora solo a Ramona spettava trovare la maniera per far uscire la magia dal secchiello fatato. Provò a stropicciarlo forte forte come aveva letto ne “La lampada di Aladino”, ma non accadde nulla. Guardò poi intensamente nel fondo del secchiello, per vedere se ne uscisse un genio, ma non successe nulla. Come fare per far sì che dal secchiello uscisse la magia? Le novelle non le furono di nessun aiuto e aspettò che accadesse un qualcosa in lei capace di risvegliare il magico secchiello. Lo custodì gelosamente in un cassetto, aspettando fiduciosa quel giorno e sempre lo portava con sé in riva al mare: fra lei e il secchiello si creò un legame e sentiva in sé nascere di nuovo l’amore per il mondo e la vita. Forse era questo il lato magico del secchiello: aver fatto tornare in lei quel cuore aperto di cui aveva tanto bisogno. Forse era questo il suo lato magico e sentiva che comunque fosse, questo era un secchiello non comune, e sapeva che solo lei poteva vedere e sentire questa cosa. Ma la tristezza per la scomparsa prematura della madre non l’abbandonò mai.<br />Sara da quel giorno era svanita nel nulla, ma Ramona ne sentiva la presenza costante, respirava la sua esistenza in ogni sussurro di vento, parlava con Sara come fosse fisicamente presente e mai a nessuno raccontò questo lato della sua vita. Aveva compreso che le grandi emozioni e le cose veramente importanti, non vanno sciupate con inutili parole, ma vanno custodite strette strette nel cuore, così che ci facciano crescere spiritualmente. Ramona cresceva ed era sempre più bella, i suoi occhi stupendi racchiudevano la profondità dell’oceano e la dolcezza infinita dei suoi primi cinque anni di vita, le avevano lasciato una dolcezza senza limite che si tramutò sempre più in un perfetto equilibrio tra mente e cuore: per questo era amata da tutti e a tutti lei riusciva a dare qualcosa di veramente grande. Anche il ricordo di Sara era per lei motivo di gioia infinita. Non sapeva quando, ma prima o poi sentiva che l’avrebbe incontrata di nuovo. <br />Un giorno, dopo tanto tempo che non lo faceva, portò il secchiello fatato in riva al mare e lo riempì d’acqua dopo di che, dentro l’acqua apparve l’immagine di Sara, era bella più che mai ed ora aveva 9-10 anni, il suo volto era l’immagine della purezza proprio come Ramona lo ricordava e così le parlò:<br />“Sara, amica mia, dove eri mai finita? Dove sei stata? Quanti ricordi mi evoca la tua immagine”<br />e Sara così le rispose:<br />“Amica mia, sono là dove la terra lascia spazio allo spazio senza che esso sia invaso da nulla, se non dal desiderio di essere tale. Lì ogni cosa bella è realtà, ogni realtà è possibile se buona. Come ti dissi, questo secchiello è fatato e tu ora ne hai scoperto la magia ed è tempo che essa si possa concretizzare, e se lo vuoi esprimi un desiderio ed esso si avvererà: versa un po’ d’acqua e di rena in questo secchiello e di’: <br />- Sabbia magica io ti spargo su quest’acqua limpida e pura come il mio desiderio innocente. Fa che io possa...”.<br />Ramona portò a termine il rito magico e disse:<br />“Fa’ che io possa giungere là su quella terra su cui tutto si avvererà, ciò che è buono e saggio”.<br />E sulla scia di un raggio di sole, si ritrovò in una dimensione dove il pensiero aveva forma e colore e così pure i sentimenti e i desideri. Erano colori dalle forme stupende e disparate e tutti assieme formavano un girotondo che girava tutt’intorno a Ramona, e lei aspettava, estasiata da una simile bellezza, che anche le sue forme-pensiero prendessero consistenza. <br />Lì tutto era fantastico e al tempo stesso reale.<br />E senza neppure accorgersene, le uscirono dalla bocca queste parole “vorrei vedere mia madre, dove vive e come sta, la vorrei stringere ancora una volta a me e attingere, in un attimo, ogni frazione di tempo non vissuta con lei, riportarla con me sulla terra, se la mamma lo vuole”.<br />E mamma Anna apparve in tutto il suo splendore in una luce dorata con riflessi arancioni celesti e gialli e mille altri colori, che non hanno corrispondenza con nessun colore esistente sulla terra, ma tutti nati da una luce che solo la purezza fa scaturire. E la madre così parlò a Ramona:<br />“ Figlia mia come sei bella! Io ti avvolgo nella mia luce e ti farò dono della pace del tuo cuore, pace che perdesti quando io caddi nel sonno eterno, così come lo chiamano i terrestri. Quante volte avrei voluto parlarti, ma i tuoi occhi velati di lacrime erano un ostacolo fra i nostri due mondi, e così lo sarebbero rimasti fino a che tu non mi fossi venuta a trovare in questa dimensione da cui ora attingo luce”.<br />Fu un abbraccio indescrivibile dove le mani non si stringevano, dove l’abbraccio inteso come abbraccio non si tocca, ma fu uno stringersi in un tuono di luce, musica e colore. L’intensità fu molto forte e tutte e due le donne ne uscirono arricchite di esperienza, saggia maestra di vita. Non si dissero nulla perché molte volte le parole annullano la magia dell’attimo che si sta vivendo. Questo Anna e Ramona lo sapevano bene. Furono le anime che si incontrarono e si scambiarono parole segrete senza limiti di dolcezza, e Ramona capì che il suo soffrire era il non aver mai saputo dove sua madre aveva trovato dimora.<br />“Ramona” - disse mamma Anna - “rimarrai sempre nel mio cuore, ora che sai, torna nel mondo, il tuo viaggio non è ancora terminato. Hai ancora molte albe da vedere e da vivere nella dimensione terrestre. Ora il dolore non sarà più tuo fedele compagno di vita, potrai rifuggire da esso perché non hai più motivo di versare lacrime di dolore per me, ora che sai. Io aspetterò altro tempo, poi in altre sembianze tornerò sulla terra e ci rincontreremo, poi alla fine dei tempi ci ricongiungeremo in un’unica possibilità di amore. Io tornerò e sarò vicino a te di nuovo, non più come madre. Più non ti dirò”.<br />E Ramona disse:<br />“Madre io ti lascio in questa dimensione, non più con il cuore infranto ma con la gioia dell’anima perché so che la tua essenza vive in altri mondi e so dell’amore che ti circonda. Non più addio ma solo un arrivederci madre mia, in un dove e quando senza mai più altri addii”.<br />E così un altro raggio di sole riportò Ramona sulla spiaggia. Il secchiello era ancora pieno d’acqua con dentro un fondale di sabbia dorata, e l’acqua le sorrideva e sempre lì, costantemente l’immagine di Sara e anche della cara farfalla Isotta. E così Sara parlò: <br />“Ramona, poni quest’acqua come fosse rito magico nel mare e diamoci solo un arrivederci. Io sarò con te e quando lo vorrai saprai come fare, ed io sarò sempre lì, in un’immagine che si concretizza dalle acque magiche del mare”.<br />E con un devoto rispetto e movimenti e apertura dell’anima e del cuore, Ramona gettò l’acqua del secchiello nel mare. Il sorriso di Sara fu una scia che si dipinse nelle acque marine e si dileguò nelle profondità oceaniche.<br /><br />“Usa la tua intelligenza per cercare le cose là dove sono, anziché dove non sono, anche se è buio. Guarda all’interno”.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />La rana volante<br /><br />Nel Bosco delle Fate Rezine esiste un pioppo magico che riflette la sua immagine nelle acque del ruscello Brio, il quale costeggia tutto quel fantastico mondo. Qui i rami degli alberi accarezzano il cielo in maniera tale da dare la possibilità agli uccelli di avere il loro nido fra le nuvole, e la vita esistente in questo luogo è in perfetto equilibrio e tutto ha una collaborazione perfetta con ogni cosa. Le fate Rezine ad ogni alba eleggono Re o Regina un abitante del Bosco e ciascun abitante può raccontare una fiaba e quella che è reputata la più bella dà la facoltà a chi l’ha narrata di mettere le ali. In questo luogo ameno, dove c’è posto per tutti, non esiste la morte e qui tutti convivono in armonia.<br />Dal ruscello escono pesci dai mille colori che dialogano con le onde, le quali sono avvolte da una miriade di moscerini e tutti attorno vi danzano felici. L’unico essere che ancora non vi ha saputo trovare spazio è Maron il Drago delle acque, la sua comparsa annuale faceva tremare tutto il pacifico vivere dell’Isola e il giorno fatidico stava avvicinandosi.<br />Quel giorno Veta, la rana del ruscello, era in pericolo e nessuno mai l’avrebbe salvata se non il volare in alto per sfuggire a Maron. Nel fondo del ruscello vi era un mondo dove la vita si svolgeva tranquilla fino al risveglio del Drago. Perché proprio la Rana era in pericolo?<br />Maron nel sonno parlava e faceva con chiarezza il nome della sua prossima vittima, e questa volta aveva fatto il nome della Rana.<br />Quel giorno anche Veta doveva raccontare la sua favola ma se questa non fosse stata la più bella storia, mai avrebbe potuto mettere le ali, unica sua ancora di salvezza. Se fosse stata capace di farlo, avrebbe poi costruito un pensiero positivo per far sì che Maron smettesse di seminare panico e morte in quel luogo così pacifico.<br />Ancora non sapeva come fare per concretizzare il pensiero positivo se mai avesse messo le ali, ma di sicuro avrebbe trovato la maniera.<br />Veta chiese che la sua favola fosse ascoltata e nell’Isola cadde un silenzio profondo, simbolo di rispetto per la narratrice. Ed ecco qui la favola:<br />“C’era una volta un lontano paese governato da una Regina amata e rispettata da tutti per la sua estrema saggezza, e tutti si affidavano a lei fiduciosi. Anche se molti suoi comportamenti non sempre erano compresi, venivano sempre rispettati perché questi risultavano positivi, intelligenti e costruttivi. <br />Vicino a lei viveva un Rospo assai brutto, per il quale aveva fatto costruire un trono intarsiato dalle gemme più preziose e rare. Tutti accettavano anche senza capire il comportamento della Sovrana, fiduciosi che prima o poi come sempre avrebbero capito. Il Pavone Nurdoc, sordo alla voce della saggezza e dell’umiltà, un giorno andò a Corte per farsi annunciare alla sovrana Niash. La vecchia saggia lo accolse nella stanza dove era solita ricevere ospiti.<br />E Nurdoc iniziò il suo discorso:<br />“O mia Regina, Sovrana a cui io umile Pavone mi inchino, io vostro umile servitore sono venuto fin qui perché il trono da voi fatto intarsiare per il Rospo Calian, a mio parere, dovrebbe essere onorato da una bellezza che rendesse onore alle sue pietre preziose. Il Rospo è di una bruttezza simile alla schifezza e offende il trono su cui siede. Vorrei onorare io, simile bellezza visto che lo splendore delle mie piume è simile ai riflessi delle gemme preziose di cui questo è intarsiato”.<br />La sovrana, dopo aver ascoltato attentamente il discorso di Nurdoc così rispose:<br />“Mio caro amico, ti ringrazio per la devozione da te espressa e per farti dono delle mia riconoscenza, offro a te questo scettro di rubini e diamanti e ti farò condurre in un’abitazione degna di un sì devoto suddito”.<br />Così fatto il superbo Pavone, gongolante della sua vittoria si inchinò e salutò con rispetto la sua Sovrana. Fu così trasportato in una lettiga dorata alla nuova dimora e ne era tutto elettrizzato. <br />Che scherzo era mai questo? Fu portato ad abitare in una capanna costruita apposta per lui, fatta di paglia e mota con un umile giaciglio, e tutt’intorno il paesaggio era brullo e grigio. Infatti si deve sapere che nel regno di Niash ogni suddito viveva in grande agiatezza e anche le loro dimore erano assai confortevoli. Nella misera capanna, la Sovrana aveva fatto porre una sedia regale intarsiata di gemme preziosissime e rarissime. Tutt’intorno c’era solo terra da coltivare con il sudore della fronte, il minimo indispensabile per sopravvivere.<br />Il Pavone era infuriato, e voleva tornarsene da dove era venuto, ma a nulla valsero le sue grida. Imprecava contro la Sovrana per quell’affronto, meglio la morte che una simile umiliazione. Voleva essere giustiziato: per questo inveiva, ma nel regno della Regina già da tantissimo tempo tutto ciò era solo passato, superato grazie alla saggezza dei vari sovrani susseguitisi. Nurdoc portava alla sua umilissima tavola bacche trovate dopo ore e ore di faticoso lavoro. E sapete a cosa serviva lo scettro al superbo Pavone? Le sue pietre, lucenti anche quando calava il buio, illuminavano le notti. Egli era sempre più offeso da un simile trattamento.<br />Non potendo più vivere nell’agiatezza di cui potevano disporre tutti i sudditi, la bellezza di cui tanto si vantava, andava sempre più sbiadendosi.<br />Iniziò la cattiva stagione e con questa i freddi. Povero Nurdoc, non aveva mai patito freddo perché nel regno di Falosè non esisteva niente che recasse disagio ai propri abitanti. Come fare? Così iniziò a raccogliere più legna possibile da ardere nel piccolo camino e la sera, il povero Pavone era così distrutto dalla fatica che dormiva come un sasso.<br />Le uniche cose di valore erano la seggiola e lo scettro ma non poteva venderli, perché quel luogo era completamente disabitato e chissà mai dove avrebbe potuto trovare un’anima viva. E poi, ammesso e non concesso avesse anche trovato una persona, nessun suddito avrebbe tradito un volere della Sovrana, non per paura, ma perché sapevano bene che le sue decisioni avevano sempre un senso logico.<br />A che gli serviva una seggiola così regale se poi assiderava dal gelo? E se il suo povero stomaco a fatica era ricompensato dalle fatiche giornaliere? E se non aveva un tepore a cui riscaldarsi, se non un fuoco quasi sempre spento? A che gli serviva una seggiola e uno scettro così sontuosi? Almeno lo scettro a qualcosa gli era utile. Il suo cuore iniziò a provare un qualcosa, ma ancora non riusciva a decifrarne il messaggio. Una notte, sognò di essere a corte e vedeva Calian, il Rospo, circondato da mille attenzioni ma negli occhi del brutto Rospo, intravide una strana luce che riuscì a toccargli il cuore.<br />Si risvegliò con gli occhi umidi di pianto e si ritrovò a singhiozzare come un bambino. E si diceva ad alta voce:<br />“Come sono stato ottuso, ho finalmente capito la lezione della Saggia Regina, ma a questo punto è troppo tardi e morrò qui solo e abbandonato da tutti, solo in compagnia della mia stupida vanità. Tutti si ricorderanno di me come uno stupido arrogante e insulso Pavone. O bel Rospo, o Calian, ora finalmente ho compreso, la tua vera bellezza è nel cuore, tu sei veramente degno del trono su cui siedi. Io invece che mi ritenevo bello, che me ne sarei fatto dei diamanti se poi avevo il gelo nel cuore? Se potessi almeno dimostrarti tutto ciò che ho capito, potrei lasciare questo mondo più sereno”. A questo punto, il povero Pavone credette veramente di rendere l’anima a Dio, perché si sentì innalzare verso il cielo e credeva fosse la sua anima a lasciare il suo corpo.<br />Erano amici volatili della Sovrana i quali erano andati a riprendere Nurdoc che finalmente era riuscito a superare e oltrepassare l’invidia la stupidità e la superficialità. Nurdoc si ritrovò nella sfarzosa corte della Regina, proprio nella stanza reale in cui si trovava la Sovrana, anche lei in lacrime, che lo accolse con mille onori. Finalmente il Pavone aveva capito la vera essenza della bellezza e così parlò:<br />“O mia amatissima Regina, è Calian degno del trono che gli hai donato, non io povero sciocco che umilmente ti chiedo perdono”.<br />E Niash a questo punto così rispose:<br />“Pavone Nurdoc, io posso solo darti la mia sincera amicizia. Come potrei io incolpare un cieco di non vedere? Posso solo gioire con lui quando ha riconquistato la vista. E per dimostrarti la mia gioia, da oggi dividerai il trono con Calian”.<br />Vissero tutti felici ancor più di prima perché finalmente anche Nurdoc, aveva conquistato l’assopita bontà e nel regno più nessuno fu sciocco ma tutti assieme collaborarono per la felicità del quieto vivere...”.<br />Splash! Splash! Splash! Il bosco era un vibrare di applausi ed essi erano così intensi, che anche il cielo li udì e il tutto risuonava di pianti e gioia.<br />La favola era piaciuta tantissimo e le Fate con il consenso di tutti, commosse, dettero a Veta le ali con cui lei volteggiò felice nell’aria. Dalle acque del ruscello emerse il Drago Maron ed ora il panico stava prendendo il sopravvento. Chi andava di qui chi di là, chi urlava, chi chiedeva aiuto e nella foresta ci fu un gran rimbombo: era il Drago che starnutiva e le acque del ruscello aumentarono di volume. Che cosa stava mai succedendo? Maron stava piangendo, sì, mentre stava emergendo per mangiare la sua vittima, si era fermato incuriosito a fior d’acqua per ascoltare la novella che finalmente gli aveva toccato il cuore. Egli ora gioca con ciascun abitante del Bosco e fa del suo dorso un enorme vagone su cui trasporta tutti a navigare e porta tutti a visitare il magnifico mondo sottomarino. E da quel giorno in poi, nel Bosco delle Fate Rezine, regna solo l’Amore e l’armonia e ora anche Maron concorre per avere le ali.<br />Ma questa è un’altra storia.<br /><br />“Orienta la tua consapevolezza verso una direzione positiva, verso la fiducia che qualsiasi cosa ti venga data è assolutamente giusta, e con questa fiducia,<br />lasciati andare e danza con gratitudine”.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br />Il bosco dei pomi dell’amore<br /><br />In un pianeta lontano lontano anni luce dalla terra, vive un popolo molto simile al nostro, assai progredito e qui non esiste nessuna forma di violenza e di povertà. Ma non sempre era stato così: qui, molto tempo fa, a loro spese capirono che la violenza è solo generata dalla miseria e dalla ignoranza e che il benessere di ognuno è strettamente legato a quello di ciascun singolo individuo. Iniziò così una nuova era in cui tutti erano felici perché l’armonia del tutto regnava tra tutti. Ma ancora qualcosa turbava il loro cuore: come mai la Terra, pianeta che aveva avuto la loro stessa origine, era ancora succube di una logica tanto perversa? Avrebbero voluto indicare anche a loro il perfetto equilibrio. Ma come fare? Loro sapevano bene che non c’è maestro di vita più potente della consapevolezza: siamo solo noi con il nostro senso della vita gli artefici della nostra storia.<br />C’era fra di loro un sapiente di norme Altur al quale essi si rivolsero chiedendo come fare per aiutare gli abitanti del pianeta Terra. Egli così parlò:<br />“Noi possiamo dare loro solo il seme per un nuovo modo di essere. Solo a loro sta farlo germogliare e crescere: nulla si può imporre tanto meno la consapevolezza poiché se questa è effimera, evapora proprio come l’acqua che bolle. Se non si sa usare il cuore, tutto sarà vano ed inutile. Scenderà sulla Terra la bella Fasta, lei porterà in dono ai terrestri questi semi, si mescolerà a loro come una di loro e solo quando li avrà seminati tutti, farà ritorno fra di noi. Chiamate suvvia la Donna che potrà accettare come suo questo compito. Fasta acconsentì molto volentieri. Chiese solo come avrebbe potuto far ritorno su Terion e il saggio rispose che, al momento giusto avrebbe calato un raggio di sole, il quale in un solo attimo, con il suo intenso calore l’avrebbe ricondotta sul Pianeta. I semi avrebbero germogliato quando anche una sola creatura avesse dimostrato a Fasta un cuore libero da ogni impurità, totalmente aperto e ricettivo. E così su un raggio di luna la donna arrivò sulla Terra. Nonostante la serenità di cui il suo cuore era capace, la vita su questo Pianeta la ferì tantissimo. Molte volte pianse per le assurdità che qui esistevano e che la dilaniavano. E pensava:<br />“Perché mai non si rendono conto della vera essenza della vita? Eppure anche qui ci sarà chi ha capito in parte, forse troppo pochi per poter cambiare la storia”.<br />Vagò per molto, ma non trovò nessuna persona che rispondesse alle qualità richieste. Un giorno, incontrò una giovane la quale era in riva al fiume in posizione meditativa e guardava nel vuoto ad occhi chiusi. Fasta, con i suoi occhi capaci di guardare oltre i limiti consentiti agli umani, trovò ciò che cercava nella Donna che era lì, imponente di fronte al cielo.<br />Fu così che le due donne si ritrovarono l’una davanti all’altra. Solo allora i loro sguardi si incontrarono e nell’atto magico, i semi caddero, da loro crebbero a dismisura arbusti dai piccoli frutti colorati e il loro intenso odore si diffuse nell’aria, avvolgendo e travolgendo l’intero Pianeta. Fu un richiamo per tutti coloro i quali desideravano una nuova storia. Un raggio di sole irradiò il Bosco e Fasta su di esso fece ritorno a Terion, con lei la Donna del fiume, con la quale aveva dato origine al Bosco. Da allora in poi è rimasta la leggenda di Fasta e l’altra misteriosamente scomparse su un sorridente raggio di Sole. Fu un tuono di luce e le persone veramente desiderose di un Mondo Aperto al Cuore crebbero sempre più.<br />Ora questi arboscelli colorati magicamente nascono a dismisura sul nostro Pianeta, essi non muoiono mai, nell’intento di dare inizio a una nuova Era dove regni consapevolezza e Amore universale.<br /><br /><br />“È tempo di aprirsi, di smettere di essere avari,<br />è tempo di dare il meglio che puoi e il meglio che hai,<br />dai a piene mani, dona la ricchezza del tuo amore<br />e del tuo cuore che esistono in te”<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />La mano nera<br /><br />Werter, un ragazzino di otto anni, già da molto tempo faceva lo stesso sogno e questo sembrava tanto vero da essere entrato a far parte della sua vita. Il sogno si svolgeva così: <br />Werter si trovava spettatore in mezzo ad una folla di persone le quali correvano correvano, per raggiungere e toccare l’idolo d’oro che era risaputo essere magico e chiunque lo sfiorasse, questo fortunato diventava onnipotente, ma ancora nessuno vi era riuscito.<br />L’enfasi di arrivare all’idolo era tale che se qualcuno fosse caduto nell’intento di raggiungerlo, non avrebbe mai ricevuto soccorso. Quest’idolo d’oro era sempre più lucente ed emanava essenze di profumi indescrivibili, ma si deve sapere che chiunque stesse per raggiungerlo, era sempre fermato da un’enorme mano nera che fiera si stendeva come a proteggerlo. <br />A questo punto del sogno, Werter si svegliava sempre e sempre aveva la sensazione che il sogno volesse insegnargli qualcosa.<br />Il ragazzino frequentava la terza elementare ma non aveva un amico vero e proprio con il quale parlare liberamente, perché Werter era molto più maturo dell’età che aveva. Per fortuna aveva un cugino di nome Loris, con il quale poteva aprire il proprio cuore e parlare liberamente, ma i due si incontravano poco frequentemente, perché Loris svolgeva un lavoro per il quale doveva andare in terre molto lontane, dalle quali portava al cugino sempre dei regali studiati in modo scrupoloso intelligente e sensibile.<br />Una volta, donò a Werter una meravigliosa conchiglia raccolta all’imbrunire con devota gratitudine nell’Isola di Mauritius che simile ad un puntino si affaccia nell’Oceano Indiano. Era stupenda, con colori magnifici, accostata all’orecchio aveva un suono estasiante che pareva racchiudere tutta la musicalità del profondo Oceano. Un’altra volta Loris, che era un uomo molto ricco, aveva acquistato in Australia un totem costosissimo, assai antico e pareva racchiudere in sé la storia di secoli e secoli e portare dentro l’anima le emozioni la vita di ogni appartenente alle tribù che l’avevano posseduto per chissà quali riti magici. Certo, riconsegnare il totem al suo popolo sarebbe stata la cosa migliore, ma nulla si sapeva della sua provenienza altro che era Australiano. Loris sentiva le energie positive di questo oggetto magico e voleva farne partecipe Werter, e così gliene fece dono.<br />Ogni regalo che veniva da lui donato al cugino, aveva un valore inestimabile, questo Werter lo sapeva e apprezzava ogni cosa ricevesse alla stessa maniera.<br />Loris già da tempo era andato per lavoro nell’Africa Nera e non sapeva quando mai avrebbe fatto ritorno. Intanto Werter cresceva e con lui anche il suo lato spirituale si arricchiva sempre più. Conduceva una vita normale, giocava a pallone con i suoi amici e si divertiva anche, ma non capiva molte cose dei suoi coetanei. Sapeva benissimo che specialmente per un bambino il gioco è importante, ma altrettanto la crescita interiore che va sempre curata, arricchita ed anche questa va accudita con gioia e amorevolezza. Questo è il perfetto equilibrio.<br />Con la sua forte personalità riuscì in poco tempo a far sì che Ibram fosse accolto da tutti i suoi compagni di classe, prescindendo dal colore della sua pelle e fece vivere a tutti i suoi compagni, la diversità come bella e arricchente per un mondo sempre migliore. Il lato fisico, qualunque esso sia e qualsiasi sia la diversità, è sciocco che crei divisione.<br />Nella classe regnava l’armonia e la maestra Edith, sempre più amata da tutti, dava ai suoi alunni un modo di crescere pulito e consapevole, sperava che la vita lasciasse loro quella pienezza che avevano, anche quando adulti avrebbero dovuto affrontare un mondo difficile.<br />Gli anni passarono e Werter e Ibram divennero amici inseparabili: finalmente il nostro ragazzino trovò un compagno con il quale poteva parlare proprio di tutto come con suo cugino. Nella sua vita, era sempre presente il sogno della mano e Werter ora sapeva che molto presto gli si sarebbe rivelato il mistero. In quel periodo Loris fece ritorno dal lunghissimo viaggio, i due cugini si incontrarono e si abbracciarono e Loris disse:<br />“Come ti trovo cresciuto” - egli era infatti alla fine della V elementare. <br />Werter, aveva uno sguardo sempre più intenso e il suo aspetto fisico andava cambiando. Non aveva più l’aspetto di un bambino e ancora non si poteva definire un ragazzo, stava attraversando quella fase di tutti gli adolescenti e Werter ne assaporava la trasformazione, studiando con attenzione tutti i passaggi del suo corpo e della sua anima. Sentiva che stava per entrare in un’altra dimensione, quella di adulto, ed ora stava a lui essere il solo vero artefice del proprio destino. E Loris pensava che suo cugino era davvero una persona eccezionale, gli aveva portato come al solito un regalo, un referto archeologico che con il permesso delle autorità del luogo aveva avuto come segno di gratitudine per il buon lavoro svolto in Africa. Era una mano di bronzo aperta in segno di pace e fratellanza, così almeno la interpretava Loris. In quella mano una potenza indescrivibile sembrava portare in sé un grido millenario di giustizia fin dai tempi in cui iniziarono ad essere deportati i primi schiavi neri. In essa, non esisteva rancore ma c’era impresso il diritto all’esistenza e la dignità di ciascun essere umano alla vita.<br />Così essa fu regalata a Werter che appena la vide ne rimase folgorato riconoscendo la mano dei suoi sogni e cadde in uno stato di semi incoscienza. Sì, era lei, nel palmo della mano aveva come intarsiato un sole e una stellina piccola piccola proprio identica alla mano del sogno.<br />E Loris, vedendo cadere il cugino in uno stato totale d’estasi, gli chiese cosa stesse succedendo e Werter così rispose:<br />“Lo sentivo che sarebbe accaduto molto presto qualcosa, questo è il sogno che ho fatto fin da piccolo, non ne ho parlato mai a nessuno, ma a te lo devo proprio dire, perché mi hai regalato la mano dei miei sogni”. E così glielo raccontò.<br />I due si strinsero forte e rimasero nel silenzio più assoluto e la sacralità, l’intensità di quel momento, rimase sempre il loro segreto. Non una parola in più uscì dalle loro bocche, ci fu solo un susseguirsi di sguardi abbracci e lacrime.<br />Werter, andò sulla collina dalla quale nel sogno la mano nera si estendeva e fece un rito: innalzò al cielo quella regalata e mentre faceva ciò il cuore gli batteva forte forte.<br />Così lentamente unì la sua mano con quella di bronzo, e accadde!<br />Un’esplosione in un’altra dimensione, quella del sogno, che andava così materializzandosi e in questa realtà c’erano Loris, Ibram, Edith, che con lui erano spettatori del sogno-realtà. Ora, la corsa all’Idolo d’oro, non era più sfrenata ma tutto si trasformò in una ricerca interiore dove non c’era concorrenza ma solo collaborazione.<br />Così, la mano di bronzo si innalzò nel cielo liberandosi nell’aria e si dileguò fra le nuvole. Ancora una volta apparve nella sua sfolgorante maestosità per scomparire per sempre nello spazio infinito.<br />Werter si svegliò sulla collina come da un viaggio spaziale e si sentiva più leggero. Accanto a sé non trovò più la scultura della mano di bronzo che nessuno avrebbe potuto portar via.<br />Tornando al paese sapeva che qualcosa era certamente cambiato, infatti spesso vedeva la gente volgere il proprio sguardo al cielo in maniera diversa da sempre, e anche il loro comportamento stava cambiando.<br />Da quel giorno Werter scelse senza esitazioni la sua strada, anche lui un giorno sarebbe andato nell’Africa Nera come suo cugino Loris che qui si trasferì, come più tardi fece Werter che ebbe dei bambini da una donna nera e il loro colore fu quello dell’Amore.<br /><br /><br />“Che bisogno c’è delle Nazioni?<br />Che bisogno c’è dei Passaporti?<br />Visti e confini?<br />Questa intera terra ci appartiene.<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br />La donna di legno<br /><br />Il vento quel giorno sibilava nell’aria con voce roca e tenebrosa e ogni abitante di Siofà trovò rifugio nella propria abitazione: l’un l’altro si tenevano stretti stretti nel terrore che il vento così infuriando potesse spazzarli via. In questa terra esisteva l’invidia, la totale inconsapevolezza, nessuno poteva fidarsi del vicino perché era legge la non legge e i sentimenti di crescita non solo erano spenti, ma nei loro cuori era solo annidato il non sentimento e l’indifferenza. Se si tenevano stretti stretti il motivo era solo uno: se non l’avessero fatto, ognuno sarebbe stato spazzato via da questo vento furioso. Ognuno in cuor suo pregava per la propria salvezza e per l’altro non vi era nessuna preoccupazione. Molti infatti, in cuor loro, si auguravano che quel vento spazzasse via chi più gli stava antipatico e intralciava i propri affari. Ma che mondo era mai questo?<br />Non era sempre stato così. Un lontano giorno qui regnava l’amore più assoluto e l’alba era sempre stata accolta da ogni suo abitante con un sorriso.<br />“Chi sa mai cosa se ne faranno di questo cuore aperto” diceva Bolo, il folletto che era stato scacciato dal paese a causa della sua perfidia. <br />Ope, il re della città della distruzione il quale abitava nel profondo della terra, così parlò al folletto:<br />“Se vuoi entrare a far parte del mio regno, devi dimostrare di esserne capace, per cui ti affiderò un incarico quasi impossibile.<br />Sappi che nessuno di noi c’è riuscito: porta la distruzione a Siofà, e fa che ogni abitante diffidi del proprio simile in modo tale da debellare per sempre l’armonia che vi regna. Per svolgere questa impresa, potrai contare solo su te stesso e nulla più. Se fallirai non potrai mai far parte del mio regno e vagherai per sempre errabondo.<br />Ma bada bene, non dovrai fallire assolutamente con nessuno. Questo è il patto e con questo ti saluto.”<br />Così Bolo, sicuro di sé, pensò subito una tattica infallibile. E sapete cosa escogitò il manigoldo? Egli aveva il potere di tramutarsi in ogni essere e prendere le sue sembianze; si sarebbe sostituito via via ad ogni singolo abitante (che avrebbe fatto sparire nel nulla e poi fatto ricomparire quando il suo piano fosse innescato), badando bene che il malcapitato non ricordasse nulla, intaccando per prima cosa la fiducia che ognuno riponeva nel proprio simile, portando così la menzogna e la maldicenza nel pacifico e ignaro popolo di Siofà.<br />E così ben presto nei Siofesi nacque la più totale incomprensione.<br />Bolo tornò da Ope e non solo fu accolto con grandi festeggiamenti, ma gli abitanti vollero lui come loro sovrano e Ope fu degradato a semplice consigliere del Re, ma in cuor suo covò sempre la vendetta, simulò a tal fine una totale ubbidienza e sudditanza al sovrano in carica.<br />Ma come esistono le forze oscure, esistono anche quelle della luce. Gli Edoniani, abitanti della lontana città di Edo, non si davano pace per come era stata ridotta la terra di Siofà e tentarono di far tornare l’amore di prima in questa città. Ma ormai l’odio e l’indifferenza si erano incancreniti nei loro cuori e gli Edoniani, nonostante i loro innumerevoli sforzi, dovettero rinunciarvi. Rimaneva ora una sola unica possibilità.<br />Esisteva un vecchio di particolari doti, e nessuno più sapeva quanti anni avesse. Nella sua sfera di cristallo, vedeva cosa succedeva in ogni mondo e solamente quando lo reputava opportuno, interveniva. Gli Edoniani chiesero al saggio un intervento, al che lui così rispose:<br />“Da tempo so cosa succede nel mondo di Siofà ma ancora non è ora che io intervenga: lo farò solo quando sarà giunto il momento”.<br />E così il vecchio si pose in un silenzio assoluto e più non rispose a nessun’altra domanda.<br />La storia proseguì ancora per un arco di tempo nessuno sa quanto lungo, ma un giorno il vecchio Saggio vide nella sua sfera di cristallo che era giunta l’ora, così costruì una donna di legno, il cui volto era di una dolcezza infinita, sembrava vera da quanto era stata ben costruita e fu situata di notte nella città di Siofà. Questa iniziò a piangere e le sue lacrime erano così calde che, scivolando sul petto, iniziarono a far battere il suo cuore se pur di legno. I singhiozzi furono sentiti fin dentro le dimore e in tutti ci fu un attimo di umanità: ognuno si riversò nella strada principale nonostante la bufera in corso di cui ho parlato all’inizio, e come d’incanto in un solo attimo tornò il sereno.<br />Ope, che vide questa scena credette che Bolo lo avesse ingannato, così diffamò subito il nome del Sovrano in modo tale che fu cacciato e Ope salì di nuovo al trono. Ma ora, gli abitanti della città della distruzione si stancarono di questo tenore di vita e fuggirono via e la loro malvagità si dileguò in un solo attimo, per cui nella città dell’inconsapevolezza rimasero solo Ope che qui fece ritorno, e Bolo, solo loro due a contendersi il trono, ma il loro regno da allora in poi non ebbe più sudditi.<br />Nella città di Siofà ora regna di nuovo l’amore e la vita è tornata sorridente.<br />La donna di legno è lì, monumento nazionale e si dice che chiunque smarrisca la via, si rechi da lei per riconquistarla, e la dolcezza del suo sguardo fa nascere in chiunque la osservi un bene assai grande: la consapevolezza.<br /><br /><br />Più di tutto veglia sul tuo cuore <br />perché da quello sorge la vita.<br />Buddha, Pensieri<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />Ago e Forbici<br /><br />Tazio era un mercante di stoffe, ne aveva di ogni tipo e colore con ricami stupendi, disegni che nell’insieme creavano effetti magici: stoffe per ricchi, per poveri, per bambini, per adulti per chiunque insomma. Le stoffe destinate ai ricchi tenevano caldo nei lunghi inverni, ed erano leggerissime, tanto da sembrare una seconda pelle; scivolando addosso pareva entrassero a far parte della persona che le indossava. Molte avevano ricami d’oro fatti a mano, per le lunghe torride estati e chiunque se ne vestisse ne provava un refrigerio senza paragoni.<br />Sembrava fossero fatte di fresche albe mattutine che refrigeravano corpo e spirito.<br />Plautilia era la città in cui Tazio si riforniva di lana, seta, filo da tessere, e il mercante avrebbe venduto queste stupende stoffe anche ai mendicanti, ma questi non avevano abbastanza denaro neppure per mangiare a sufficienza. Sopraggiunse un rigido inverno e le stoffe del mercante erano in continua richiesta: la fredda stagione non faceva certo paura affrontata con la calda lana di Plautilia, mentre i poveri si trovavano ad affrontare una difficilissima stagione gelida senza vestiti adatti.<br />Abner, un povero mendicante fra i tanti, era veramente stanco di vedere queste ingiustizie, ed era assai addolorato anche per i suoi piccoli che, quando era inverno, avevano tanto tanto freddo e a causa di questo erano quasi sempre malati.<br />Così notte tempo, si introdusse nel campo di Tazio che era risaputo, avere un sonno assai profondo e quasi nulla era capace di svegliarlo: così Abner, avvalendosi di questa debolezza del mercante, indisturbato si introdusse nella sua dimora. Il pover’uomo, fuori di sé per la gran miseria che lo attanagliava, aveva portato con sé un paio di forbici e iniziò a tagliuzzare tutte le stoffe, senza distinzione sia quelle dei ricchi che quelle dei poveri in strisce piccolissime e così come erano non potevano servire più a nessuno. Dopo questo scempio, furono da lui riposte accuratamente nel loro carro e Abner si avviò a casa soddisfatto e si andava ripetendo, per convincersi sempre più, “mal comune mezzo gaudio”.<br />Ma in lui c’era qualcosa, come se... ma, oltre questo, nulla più riusciva a spiegarsi<br />“e che diamine”<br />si andava dicendo<br />“da domani anche i ricchi e i loro figli patiranno freddo! Cosa hanno loro in più di noi e dei nostri bambini?”<br />E così andò a dormire con il rancore nel cuore. Fece sogni agitatissimi: un drago quella notte nel suo incubo sorvolava sulle case di Marpressa, il suo paese, gettando dalle enormi fauci, carboni incandescenti che bruciavano sia le povere case dei mendicanti sia la corte del Re, sia le sontuose abitazioni dei ricchi.<br />Ora invece gettava dalle fauci acque gelate e scroscianti, che inghiottivano chiunque e qualunque cosa si trovasse nel proprio cammino, bambini ricchi poveri animali e case.<br />Con terrore, madido di sudore e tremante, sobbalzò sul letto, quando la lava incandescente e gelata stava per travolgere lui, sua moglie e i suoi piccoli.<br />Quel giorno come al solito tornò al lavoro nei campi apparentemente come nulla fosse, ma dentro un qualche cosa di misterioso lo faceva sentire in estremo imbarazzo con se stesso.<br />Ma cosa succedeva a Marpressa? Tazio rimase folgorato dallo stupore dell’incredulità e dallo sgomento quando, andato in paese per vendere la merce, vide lo scempio fatto alle sue stoffe.<br />Che inverno sarebbe stato quello? Egli aveva investito nelle stoffe quasi tutto il suo capitale. E i suoi piccoli? E sua moglie? Come mai avrebbe potuto sfamarli?<br />Nel paese era un subbuglio generale, sembrava una rivolta, un tumulto. Poveri e ricchi iniziarono a picchiarsi per accaparrarsi i brandelli di stoffa, ma che cosa mai avrebbero potuto ricavarci se non copridita? Erano tagliati in pezzetti così minuti, che solo a questi sarebbero serviti, ed era panico generale. Le cose erano molto serie e presto sarebbe corso del sangue, perché il popolo non voleva patire più di ciò a cui era solito, e i ricchi non volevano di certo rinunciare alle loro super comodità, ed era un saccheggio generale di stoffe in ogni casa di Marpressa, sia di quelle prima tanto disprezzate e derise (perché si sa, quando il bisogno è tanto ci si arrangia con tutto), sia di quelle nelle case dei ricchi. Nel tumulto generale, di molti vestiti rimasti fu fatto scempio gettandoli nel rogo improvvisato nella piazza principale.<br />Una notte allora, Iania, la figlia più piccola del mercante, con la complicità di Zarima figlia del Re di Marpressa, presero ago e forbici e insieme dettero inizio al loro progetto. Gida, la strega del paese, con un filtro magico, fece cadere tutto il paese in un sonno profondo per una settimana, durante la quale le tre donne cucirono pazientemente le stoffe rimaste pezzetto per pezzetto. Nel loro lavoro di cucito ci fu comunque un’innovazione: le tre sagge donne cucirono assieme sia le belle stoffe di Plautilia sia le stoffe dei poveri, in modo tale che ogni vestito non si poteva classificare né in un modo né nell’altro.<br />L’incantesimo svanì al termine della settimana e le tre sagge donne tornarono nell’anonimato, senza svelare a nessuno il loro segreto, e nessuno si era accorto dell’incantesimo di cui erano stati vittime.<br />Quel giorno faceva un freddo tremendo, iniziava a nevicare e la gente sia ricca che povera implorava aiuto a Tazio che sgomento, scoprendo il baule delle stoffe, disse:<br />“amici miei, vorrei aiutare voi tutti ma... ma...”<br />e l’incredulità del mercante non fu certo minore di quella degli altri.<br />Allora tutti si misero in fila per comprare i vestiti che finalmente non avevano più differenza di prezzo.<br />La lezione fu così imparata.<br />E da quell’inverno nessuno più soffrì freddo a Marpressa e non solo esteriormente. <br /><br />“Guarda dentro di te e osserva se sei integro. Le forbici assomigliano alla mente, esse tagliano, dividono. L’ago assomiglia all’amore: unisce e guarisce ciò che è lacerato.<br />Apri il tuo cuore e l’amore ti renderà integro”<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />Pit e Pat<br /><br />Pit e Pat, due magici uccellini, liberi volavano nel cielo immenso e, grazie ai loro poteri magici, erano capaci di assumere qualsiasi sembianza. In verità questi avevano origini antichissime e quelle più remote da loro ricordate, erano quelle di foglie. Un dì, nel pianeta in questione dove era sempre giorno, calò la notte e dalla nuova alba, splendente più del solito, ebbe origine l’albero e questo aveva due enormi foglie di un verde sempre più smagliante che non ingiallivano né cadevano mai. Erano enormi e lo ricoprivano totalmente. Ancora dopo un’altra interminabile notte, misteriosamente erano nati innumerevoli alberi che sfioravano il cielo con i loro rami ma essi non avevano neppure una foglia, eccetto Vanoi il primo albero del Pianeta.<br />L’uomo iniziò ad usare la natura che era ben felice di rendersi a lui utile, ma presto questo esagerò abbattendo ancor più alberi di quelli a lui necessari. Così accaddero cose strane. Da ogni albero abbattuto ne nacquero tre, il primo in memoria del sacrificato, il secondo per ricordare lo scempio e il terzo magicamente nato da questi due. Da una delle due foglie di Vanoi ebbe vita un essere assai strano, con becco e ali per volare, e dall’altra un essere a lui simile, affinché il primo si sentisse meno solo e fosse per lui compagno di vita, e Pit e Pat fu il loro nome. Il canto degli esseri alati era una dolce melodia. Cantavano dicendo che l’essere umano doveva imparare ad essere in armonia con tutta la natura, anche lui ne fa parte e nessun equilibrio dovrebbe essere intaccato.<br />Ma l’uomo fu sordo al loro canto, per cui Pit e Pat decisero di incarnarsi in esseri umani, sperando così di insegnare queste verità.<br />Furono due donne che ebbero dei compagni e dalle loro unioni nacquero due bambini, uno per ciascuna donna.<br />Ora si deve sapere che Pit e Pat erano vincolati a un giuramento fatto a Pilot il mago del cielo: mai a nessuno dovevano rivelare la loro capacità di trasformazione, inoltre ogni tanto anche nella vita presente dovevano tornare ad essere volatili.<br />Un giorno rivelarono ai loro compagni il segreto, per cui Pilot dispiaciuto dal loro comportamento, fece rimanere Pit e Pat per sempre volatili. Pit e Pat non erano dispiaciuti di questo, perché il cielo è uno spazio libero, ma sentivano molto la mancanza dei loro cari.<br />I figli di Pit e Pat avevano ereditato dalle rispettive madri gli stessi poteri e il mago Pilot svelò loro questo mistero al momento giusto. Essi ne furono felici e chiesero a Pilot di dare anche ai padri il loro stesso dono e il mago che aveva un buon cuore ed era veramente saggio, acconsentì. Pit e Pat non credettero ai loro occhi quando li videro tutti e quattro volare nei cieli e insieme felici iniziarono a cinguettare.<br />Da quel giorno nacquero altri volatili dalle infinite specie che con il loro canto rallegrano le nostre giornate.<br />Essi cercano con il loro cinguettio di rendere l’animo umano più sensibile e nobile e di renderlo, così, capace un giorno, per un mondo migliore dove tutto vivrà in perfetta armonia.<br />“Sei parte del tutto, appartieni all’esistenza.<br />Non lasciare che l’attaccamento a una parte<br />ti impedisca di entrare in una totalità più grande”<br />Osho Rajneesh<br /><br /><br /><br /><br />La vera storia di Walter, il pesciolino rosso<br /><br />Walter, il pesciolino rosso protagonista della nostra storia, non conobbe mai le libere acque dell’Oceano prima di quel giorno in cui tutto accadde. Ma per saperne di più vi racconterò tutta la storia. <br />Era una giornata come tante altre, serena tranquilla e pacifica. Placido, il capo dei pesciolini rossi, aveva iniziato un gioco conosciutissimo tra di loro, ma nonostante ciò accolto sempre con entusiasmo e gioia. Placido rincorreva una banda di pesci e chi veniva toccato dall’inseguitore perdeva e, per punizione, doveva salire fino alla superficie delle acque, dare un guizzo e poi tornare di nuovo giù, dove a sua volta conduceva il gioco.<br />Forse ai nostri lettori sembrerà un giuoco banale, ma i pesci rossi sono animali molto semplici e questo era per loro un grande divertimento, anche perché fare attività ludiche tutti assieme è per loro stimolo di vita. Da tempo sulla terra un uomo di nome Barna escogitava un modo facile, anche senza scrupoli, per far soldi. Egli molte volte andava con la sua barca nelle libere acque dove vivevano i pesci rossi e qui se ne stava per ore, sia per trovare refrigerio dal caos della vita cittadina, sia per pensare a come fare più denaro possibile. Molte volte aveva visto i pesci rossi guizzare su dalle acque e man mano qualche idea stava balenandogli in testa.<br />In città ogni novità aveva successo, perché le persone travolte e sconvolte da una vita sempre più frenetica, avevano bisogno di divertirsi, non aveva importanza con cosa, e questo Barna lo sapeva con certezza. Egli aveva molti soldi, ma nessuno gli voleva bene. Gli unici a stare vicino a Barna erano i quattrini, ma nessun essere umano gli aveva mai dato calore ed amore. Tutto ciò era un circolo vizioso: più Barna era avido e più gli altri lo scansavano, più gli altri lo scansavano più lui diventava avido. Così, un giorno, credette buona idea mettere in un sacchetto di plastica con l’acqua i pesci rossi e venderli in città, per la felicità dei bambini.<br />Fu un giorno nefasto nel mondo delle libere acque in cui Placido felice giocava con i suoi amici. Il nostro pesciolino rosso aveva tutto ciò che al mondo si poteva desiderare, la libertà e una compagna di nome Lisa, la quale era la più bella e cara pesciolina di tutto quel mondo, una vita assai piacevole dove assaporava la gioia dell’esistenza attimo dopo attimo. Anche Lisa quel giorno, come del resto molto spesso, partecipava ai giochi. Iniziarono a rincorrersi tutti quanti, era proprio una bella compagnia! Per primo vinse Arturo, ma aspetta aspetta non tornava. Perché mai? I pesci non riuscivano a capire il motivo. Allora Ines non vedendolo far ritorno, decise di salire in superficie per richiamarlo e insieme sarebbero tornati giù. Ma anche questa non si vide più. Che diamine mai succedeva? Che scherzo era mai questo? I pesci rossi, si deve sapere, sono assai burloni e la cosa non destava troppa preoccupazione. Allora salì Placido ma fu la stessa cosa. Lisa andò subito a vedere cosa mai stesse succedendo. Era realmente preoccupata perché conosceva bene l’amato e sapeva che in quell’occasione non avrebbe mai scherzato. Dopo di lei ne salirono molti altri ma fu la stessa cosa. Era un vero mistero, che cos’era mai? Una burla? Se era uno scherzo quella volta era di pessimo gusto. I pesci incominciarono a insospettirsi, così, siccome l’unione fa la forza, salirono in massa. <br />Ad attenderli c’era Barna con un grosso retino e prima ancora che loro se ne potessero rendere conto, l’uomo li aveva già tutti catturati in quella terribile rete. I poveretti erano impauriti e a nulla valeva dimenarsi. Lo sciocco era felice di essere riuscito nel suo losco scopo. Chissà quanti soldi ne avrebbe ricavato! Erano lì i poveri pesci rossi: dalle grandi acque si ritrovarono in sacchetti piccoli piccoli dove Barna ne metteva uno o due. Che cosa mai sarebbe accaduto di loro?<br />Placido e Lisa, nella sfortuna, la sorte volle tenerli vicini: infatti Barna li mise nello stesso sacchetto. L’uomo sentiva in sé qualcosa che non sapeva spiegarsi alla vista di tutta quella “merce” e credette di sicuro fosse la frenesia del facile guadagno. Ma sì, erano solo dei piccoli stupidi pesci.<br />In effetti il guadagno fu molto cospicuo. E ogni volta che finiva la “merce” da vendere tornava nelle acque libere, territorio dei pesci rossi e ne faceva di nuovo incetta. Era una giornata molto piovosa, ma Barna non avendo più materiale da vendere, volle tornare ugualmente a pescare i pesciolini. Prese la sua moto-scooter e si avviò! La frenesia di arrivare lo costrinse ad accelerare fino a superare il limite massimo. Ad un certo punto le ruote slittarono sull’asfalto piovigginoso e Barna, dopo aver volteggiato tante volte nel tentativo di fermarsi, cadde giù dalla moto nel burrone circostante. Barna era veramente in brutte condizioni. Chi mai l’avrebbe soccorso? Egli perse i sensi. Quanto tempo mai passò? L’uomo fece un viaggio assai strano: tutto era offuscato da un velo di nebbia e le nefandezze fatte a causa della sua cupidigia ora erano tutte lì presenti, davanti ai suoi occhi. Ma quella era stata la sua vita e ora non poteva fare altro se non prenderne solo coscienza. Si vide davanti Nicolas il bambino povero a cui, quando faceva il gelataio, negò un gelato poiché i soldi non gli erano sufficienti. Era lì davanti a lui con quegli occhioni neri, tristi e sconsolati. E poi altre immagini si susseguirono ancora, tra cui anche una carezza, un sorriso a lui negato da tutti. E poi vide quei pesci rossi: disperati nella loro vaschetta, surrogato delle grandi acque. Barna, consapevole delle cupidigia della sua vita, avrebbe ora voluto rimediare a tutte le nefandezze fatte. Si presentò a lui una Signora vestita di colori stupendi, che sempre più gli veniva incontro porgendogli le mani e così lo accarezzò! Da quanto tempo egli non riceveva un gesto gentile? Barna pianse, le sue ruvide guance erano ora solcate da lacrime che sgorgavano sincere. L’uomo era veramente dispiaciuto da ciò che aveva fatto. L’ultima sua ignobile corsa verso il denaro era causa della sua morte.<br />Quella Signora era molto bella, sorrideva dolcemente e rivolgendosi all’uomo disse:<br />“Barna, hai un desiderio da esprimere? Ricorda che stai morendo. Se lo dici puoi anche tornare a vivere”<br />e l’uomo rispose:<br />“O mia bella Signora, potrei anche tornare in vita, troppe malefatte ho commesso e proprio non me la sento di ricominciare. Non sono riuscito ad aprire il mio cuore ed esso si è ritirato sempre più facendomi diventare una persona arida. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei che tutti quei poveri pesciolini a cui ho rovinato l’esistenza tornassero ad essere liberi. Sì, ero invidioso della loro libertà e semplicità, cose che io non mi sono mai concesso ed è questo il vero motivo per cui li ho catturati, venduti, rendendoli schiavi. Tu che sei una fata, esaudisci questa mia preghiera, almeno ricorderò la sola buona azione di cui sono stato capace”. La buona Signora esaudì questo desiderio dettato dal cuore. Ma non a questo si limitò.<br />Il giorno di poi il corpo di Barna fu trovato senza vita. “Strano, quel vecchio zoticone ignorante, lo abbiamo trovato con un sorriso sulle labbra. E i suoi occhi, inespressivi in vita, hanno ora una dolcezza infinita.”<br />E tutto il paese parlò di Barna e non solo, ma anche della misteriosa scomparsa di tutti i pesciolini rossi dalle rispettive vaschette-prigioni.<br />La Bella Signora, che aveva letto nel più profondo di Barna, sapeva che lui sarebbe stato felice di essere un pesciolino che finalmente libero poteva nuotare nelle acque, e lo esaudì. Intanto qui era tornata la vita e la serenità. Placido e Lisa e gli altri erano tornati al loro abituale gioco con i loro cari amici e, tutti quanti festeggiarono il loro magico ed inaspettato ritorno, di cui nessuno riusciva a spiegarsi il motivo. Forse che i desideri si avverino?<br />Ora c’era un nuovo amico nella loro compagnia, venuto da molto lontano, Walter, il nome datogli dalla bella Signora, e tutti assieme festeggiarono il nuovo arrivato.<br /><br /><br />“Sii consapevole della tua mente delle sue avidità e della sua mancanza di fiducia.<br />Attraverso la consapevolezza giunge l’opportunità di trasformare l’avidità”<br />Osho Rajneesh<br /><br />“Sii pronto ad assumerti la responsabilità di aver creato la tua infelicità, la gioia, la negatività, la positività,<br />l’inferno e il paradiso, quando comprendi<br />questa responsabilità e l’accetti, le cose cominciano<br />a cambiare. Sii aperto a nuove possibilità”<br />Osho RajneeshDanilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com6tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-30149669637653998102011-06-08T09:51:00.003+02:002011-06-08T10:21:06.791+02:00Gustav<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/-aHXENCO0_fs/Te8q0_QI_qI/AAAAAAAAD5w/PG8SM_9ywjU/s1600/%2B100004"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 400px; height: 400px;" src="http://1.bp.blogspot.com/-aHXENCO0_fs/Te8q0_QI_qI/AAAAAAAAD5w/PG8SM_9ywjU/s400/%2B100004" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5615754350174994082" /></a><br /><br />Cara Marisa....finché abbiamo dei ricordi..... il passato dura... finché abbiamo delle speranze...il futuro ci attende....finché abbiamo degli amici....il presente vale la pena di essere vissuto.... <br /> <br /> Gustav era un uomo molto preoccupato, nella sua vita era riuscito ad inventare un congegno assai complicato che rendesse lo spazio e il tempo assai più da gestire ma nonostante tutto non era contento di questo. Azionando questo congegno riusciva a spostare il tempo a suo piacimento e spostandolo riusciva a ritrovare le cose, gli spazi come potevano essere stati nel passato e nel futuro e sistemarli come meglio voleva. Il presente si era modificato da questi suoi spostamenti nel passato e nel futuro al che riusciva poco ad apprezzarlo giacchè era un qualcosa che subiva variazioni rispetto agli altri due tempi e spazi. Lui stesso riusciva poco a riconoscersi nel presente, era scontento di questo e non sapeva come agire affinché il presente potesse essere autonomo e potesse svolgersi con l’imprevidibilità di qualcosa che accade che non è staccato da tutto ma ogni modo ha una sua autonomia e una sua accadibilità, che è frutto solo della vita che si esprime anche al di là delle logiche e delle conseguibilità. E’ si, era un uomo veramente interessante la sua vita si svolgeva nella ricerca di qualcosa di autentico e che sfuggisse a qualsiasi prevedibilità qualcosa che se anche avesse coinciso con una certa logica rimanesse imprevedibile per il fatto stesso che poteva succedere anche questo e ciò avrebbe reso anche questo un’ avvenimento imprevedibile. Nonostante avesse costruito il congegno sapeva che qualcosa avrebbe reso la sua scoperta e il suo uso completamente inutile era solo un divertissement, una ricerca che tendeva a penetrare apparentemente quello che per lui era l’impenetrabile e che per lui doveva essere solo esperienza da vivere. Concepiva la vita come un avvenimento solo vivibile un Esplorenziando dove accogliendo si viene accolti e dove il risolversi nel risolto è solo l’inizio di una nuova e continua evoluzione che non ha a che vedere con nessun teorema geometrico solo mentale ma che nella sua logica sfugge a qualsiasi logica. Quando pensava a tutto questo si sentiva rincuorato ricompattato in un qualcosa che apparteneva all’esterno. Sapeva che il presente così come gli si presentava era qualcosa veramente incerto e poco riconoscibile ma le sue convinzioni lo facevano sperare che tutto questo fosse solo apparenza, il suo congegno aveva potuto spostare il tempo e lo spazio e le cose ma la sua anima apparteneva alla vita profondamente e radicalmente. Questo congegno era solo uno dei tanti costruiti attraverso i quali Gustav si rendeva conto che si allontanava dalla vita per poterla avvicinare, un tentativo di riconoscere la Realtà offuscata dai condizionamenti di un vivere deviato, lo sapeva bene si sarebbe liberato del suo congegno appena possibile senza rancore. Era l’autenticità che lui cercava, prese il cappello e uscì di casa verso la vasca dei pesciolini rossi, si sentiva calmo gli aveva fatto bene pensare a tutto questo, camminò per strada con tutta la sua fragilità, con tutta la sua forza, con tutto il suo corpo con tutta la sua anima, con tutta la sua piccolezza e con tutta la sua grandezza, infondo si sentiva contento, si sentì rassicurato dalla sua precarietà e dalla sua eternità. Ad ogni passo che faceva si sentì, si riconobbe l’amore che viveva, un amore caldo permissivo che comprende, il leggero vento, il fogliame, si sentiva in sintonia, senz’altro avrebbe incontrato qualcuno con cui scambiare un accenno, uno sguardo, qualche parola. Arrivò pacato alla vasca dei pesciolini rossi, quando si fermò si accorse del vuoto che c’era stato fra il suo stato concettuale e il trovarsi vivo, un tempo e uno spazio che si poneva come rottura, Gustav si sentì improvvisamente scoraggiato, si accorse che non c’era stato passaggio, continuità nei suoi stati di essere, si sentì sperso di nuovo, fece qualche passo e si mise a sedere sulla panchina verde e si sentiva vivo ma dove? Quando? Eterno si, ma perso racchiuso nel suo essere, nel suo corpo adesso unico dove e quando immerso in un quando e in un dove nel quale lui non riusciva più a spandersi. Si sentì paralizzato, inerme, incomprensibile a se stesso e agli altri, non avrebbe potuto chiedere aiuto. La sua ricerca sarebbe continuata, tornò a casa, si tolse i vestiti piano piano, ricominciò ad essere in contatto con il mondo esterno, si sentì compatto e comunicante ed efficace. Si chiamava Gustav, era nato a Berlino nel 1940, era Professore di Diritto all’Università più famosa della città e aveva passioni di vario genere: il Teatro, la bella vita, il viaggiare, il conoscere nuove e interessanti persone, amava ed era amato da una donna stupenda, la quale professione era quella di concertista di violino e direttrice di una scuola di ballo, suonava stupendamente bene, era una donna che intuiva profondamente i disagi e gli umori di Gustav. Lo amava immensamente e devotamente, rispettava il suo dolore e la sua ricerca, lo amava teneramente e quando lui si distanziava da lei perché incapace di comunicare, lei se ne addolorava ma comprendeva. Gher era una donna che a differenza di Gustav era entrata nella vita da sempre e riusciva ad esprimersi ed essere in contatto con essa e con se stessa, anche lei era inquieta cercava il suo sogno forse un mondo ideale ma era una donna piena di entusiasmo, capace di sentire e vivere i propri impulsi, Gustav l’amava, amava questa forza di lei il suo essere nella vita, il suo essere viva con tante contraddizioni ma viva.<br />Gustav si accorgeva di aver creato un’altra dualità che non aveva possibilità di fondersi se non annullandosi vicendevolmente. E’ si Gustav apparteneva a quella razza di uomini, esseri umani la quale esistenza, l’essere consapevole di esistere e di godere di questo non era che frutto di una dura ricerca per uscire da tutte quelle forze contrarie che impediscono il fluire libero e compiacevole della vita. Si ritrò sulla vecchia e fedele poltrona, stanco e desolato, si sentiva sconfitto la sua volontà di vivere era ancora stata soffocata, ogni sua cellula pignolosamente messa a tacere. Avrebbe potuto urlare ma nessun elemento del suo corpo avrebbe potuto collaborare a questo impeto e quindi tacque, persino le sue estremità deluse si afflosciavano nelle vecchie pantofole rosse, una civetteria tutta privata che sfiorava e sforzava quegli attimi così incolori della sua vita. Nondimeno una specie di accettazione gli riempiva l’anima, non era colpa sua se la sua esistenza altalenava fra la vita e la dimenticanza di essa, accese una sigaretta e il sapore acre del tabacco gli ricordò la vita e la morte, il fuoco ardente della vita e il sapore acre della morte. Gher entrò nella stanza, era una donna molto bella, riccioli biondi incorniciavano il bel viso ben delineato, occhi grandi verdi, naso di una forma anonima anche come grandezza, ma le narici un po’ allargate davano l’impressione di sopportare la piega di un riso abbastanza costante, bocca generosa, denti squisitamente bianchi e di una grandezza media, collo moderatamente lungo, spalle poggiate sul dorso ma contemporaneamente abbastanza forti da credere che anche il suo torace equilibrato fosse rafforzato da esse. Il seno non era propenso all’esterno per la sua misura ma la sua forma faceva si che esso fosse decisamente qualcosa che apparteneva solo a lei e che lei esibiva al fuori con gran delicatezza e pudicizia, ventre convenientemente tondo senza esagerare, pareva dimostrare un mondo suo interno delicato e materno, fianchi ben distanziati l’uno dall’altro e rotondi dolci come lo era la sua anima, le gambe erano lunghe ma non sproporzionate esprimevano tutta la sua irruenza la sua poca adattabilità, la sua decisione alla vita comunque. Le braccia erano rotondeggianti poco equilibrate, poco armoniose, la pelle delicata, davano l’impressione tali braccia di poter sostenere pesi e di poter essere delicate concretamente rispetto alla vita che vive, le mani non tanto grandi davano la sicurezza di poter essere toccate realmente. Entrò nella stanza, vide Gustav sulla poltrona “Gustav quando sei rientrato dalla tua passeggiata?” –Da poco Gher, stavo appunto alzandomi per avvertirti del mio rientro-. Lei gli si avvicinò con amore e con amore riconoscente lo baciò sulle labbra –Dobbiamo uscire stasera Gustav, a teatro danno un lavoro assolutamente nuovo e si dice che sia geniale il suo testo e la sua realizzazione non voglio mancare a questa occasione , dobbiamo andare, sei d’accordo ? –Certo Gher che ci andremo ho bisogno proprio di distrarmi ho avuto una giornata un po’ faticosa- - Le tue passeggiate Gustav si fanno pesanti ? –A volte si mia cara, ma prepariamoci, andremo a cena in un ristorante italiano e poi a teatro. Tu hai passato una buona giornata Gher? – Si , certo gli allievi di questo corso sono veramente bravi, si muovono con molto ardore e hanno tutti un buonissimo rapporto con la musica, mi piace molto lavorare con loro. - Il teatro era affollatissimo e la gente che circolava era di un eleganza sobria c’era una bella atmosfera quella sera, gruppi di giovani un po’ rumorosi, ma deliziosi nel loro ardore giovanile educato probabilmente ad una buona cultura. Gustav era imponente nel suo abito scuro, camicia bianca e cravattino, tutta la sua serietà gli si leggeva in volto, occhi buoni profondi scuri, naso possente ma non troppo grande e una barba grigia che contornava una bocca troppo carnosa forse per essere quella di un uomo, ma egli l’atteggiava in una chiusura che la rendeva meno espansiva si che il risultato fosse meno carnale, i capelli folti grigi seguivano una corporatura anonima confusa dal grasso in eccesso, le sue mani grosse e grassocce ma visibilmente troppo morbide tradivano un mondo ricco ed inquieto dentro di lui. Aveva l’aria imponente e seriosa, Gustav però si aveva l’impressione che questo stato dell’anima rappresentato così bene dalla sua figura non fosse radicato in lui, si aspettava guardandolo che potesse, scoppiare in una risata gioiosa, si vedeva, s’intravedeva soprattutto agli angoli della sua bocca così ben trattenuta la voglia di gioia, la sua trattenuta esuberanza anche il suo corpo se pur ben camuffato dal grasso un po’ in eccesso comunicava una giovinezza e un gioioso entusiasmo comunicativo; questo poteva intuire un qualsiasi buon osservatore che si aggirasse discreto nel teatro quella sera. Gustav era infatti molto eccitato, interiormente, il teatro gli piaceva molto si aspettava di assistere per di più ad uno spettacolo di tipo nuovo, si sentiva la vita scorrere in ogni parte del corpo. Il teatro per lui era un avvenimento e tutto iniziava prima dello spettacolo, le persone che rappresentavano il pubblico si miravano a vicenda discretamente e con quei suoni intrecciati occhiate discrete costruivano riti fatti di comunicazione che di per sé stesse facevano parte di un avvenimento con il contributo di tutti anche di chi qua e la non sentendosi in comunione con gli altri con gli occhi sgranati in un angolo del teatro al riparo del parapetto vedeva svolgersi e accadere tutto questo. Gher indossava un vestito verde, un colore poco adatto per una soirée in teatro ma lei lo portava stupendamente, la sua indipendenza con il verde tenero era veramente una presenza dolce e splendidamente vivente e luminosa. Gustav e Gher si accomodarono sulle poltrone di mezzo tutto ad un tratto le luci si spensero un coro di spss si sollevò da tutte le parti del teatro che consacrò l’attimo prima dell’inizio dello spettacolo. Uno scenario tetro si aprì allo sguardo di tutti i presenti, il nero era il colore predominante, vecchie poltrone di rosso bordoux sparse in maniera assimetrica nel palco sgualcite e logore davano un senso di disfatta sentimentale, drappi neri irregolari erano sparsi qua e là, un tavolino quadrato che dava l’idea di una durezza poco sostenibile era posto da una parte con qualche bottiglia semivuota di un liquido giallastro poco riconducibile a qualcosa che potesse essere bevuto un suono tenebroso e opprimente sembrava riempire il palcoscenico rendendo tutto oltremodo spiacevole. Gustav che prima dell’inizio si trovava in uno stato di grazia vibrante acceso ebbe un impatto veramente considerevole vedendo la scena sul palco. Tutte le sue vibrazioni vitali si bloccarono all’istante e una forte nausea gli salì alla gola, il suono era penetrante, anche il resto del pubblico si trovava in forte disagio, si sentiva scorrere fra le file della platea e dei palchi un innocente stupore e una paura contratta in ogni presente, che però varcava la propria soglia per incontrare quella del vicino continuando il suo percorso comunicativo. Gustav, stava male si ricordò delle sue pantofole rosse, quelle che aveva vissuto fino allora un segreto e un privato avvicinamento alla vita, si vergognò di questa sua ingenuità quel rosso bordoux sembrava più il ricordo di una vita passata che dava testimonianza di quello che era stato e che adesso non era più. Capì che il suo modo di vivere segretamente i suoi sentimenti di vita avevano in sé del patetico, gli sembravano adesso briciole di vita rubati ad un più grande assetto vivente. Le sue pantofole non erano rosse bordoux ma di rosso arancio. Quelle poltrone sulla scena però gli avevano riportato alla mente tutto questo. Gher sembrava infastidita da questa scenografia, tutto ad un tratto la musica si trasformò in una frizzante melodia e una ballerina vestita di bianco attraversò il triste salotto rappresentato nel palcoscenico. Gustav lasciò cadere la tensione e la nausea si attenuò di colpo. La ballerina teneva un piccolo cesto di un materiale duro color rosa e via via mentre danzava buttava sulle cose polvere argentata. Come per magia le poltrone cominciarono a muoversi ad allungarsi, tutti si accorsero che altro non erano che attori che interpretavano il ruolo di poltrone che fino ad allora erano riusciti a stare ben fermi. Da ogni poltrona piano piano dopo allungamenti bene interpretati né uscì un uomo ed una donna vestiti in maniera molto attillata ed un colore da apparire quasi trasparente, la musica era cambiata adesso c’era una melodia più pacata. La ballerina continuava a danzare e adesso tracciava con i suoi percorsi linee invisibili tra i personaggi che erano scaturiti dalle poltrone. I piedi di Gustav incominciarono a muoversi ritmando la musica, adesso Gustav sentiva la vita tornargli dentro e tanto era allegra che gli venne l’immagine di lui che danzerellava nelle sue pantofole rosse. Un’aria sottile volteggiò per tutto il teatro, si poteva sentire realmente da tante cose che adesso tutti i presenti avevano lasciato andare qualcosa che pochi attimi prima avevano trattenuto. Gher si compiacque di questo, cercò la mano di Gustav. Sapeva che avrebbe trovato il suo calore la sua sottintesa vita un amore così rotondo e accogliente, Gustav fece scorrere dentro la sua mano una tenue ed innocente energia e con quella ricambiò il contatto con Gher. Tutto ad un tratto una musica assordante soffocò l’altra che era tenue, il salotto con tutti gli astanti sul palcoscenico fu inghiottito dal basso e pochi attimi dopo ne uscirono dal pavimento del palcoscenico strisce rosse arancio e viola che si muovevano freneticamente fiamme di fuoco e fumo rappresentato nella nebbia, stridori metallici oltre che la musica assordante sembravano che raschiassero l’aria e l’anima, ne uscirono poi dal pavimento diavoli corredati di coda e corna che saltellando freneticamente ridevano di risa sarcastiche. La giovane ballerina con il vestito bianco era stata l’unica che era riuscita a rimanere sul palco di tutta la scena precedente, adesso distesa a terra respirava piano in maniera impercettibile. I diavoli si erano messi a ballare. Tutto ad un tratto ogni suono e musica fu interrotto e nonostante i diavoli continuassero a ballare nessun rumore si udiva nel teatro. Era il silenzio, piano piano si incominciò a percepire un fievole respiro sul palco. Si aveva l’impressione adesso che l’attenzione uditiva del pubblico fosse quasi al massimo. Via via il suono del respiro fu alzato in maniera impercettibile. Il teatro era stato adattato a questo tipo di spettacolo erano stati messi degli amplificatori in ogni poltrona che furono accesi in quella occasione, il respiro così si sentiva lì dove ogni persona del pubblico sedeva, ci fu chi sentì il suono della persona che gli era accanto, c’è chi sentì il respiro provenire dalla propria poltrona, il risultato generale è che si sentiva il suono del respiro sia dal palcoscenico e tanti dal resto del teatro che si fondevano in un unico suono di respiro. Gher e Gustav riuscirono a sentire il proprio respiro e quello dell’uno e dell’altra, udirono poi il suono totale quello del palcoscenico staccato da quello del resto del teatro. Gher e Gustav riuscirono a stare a tutto questo accettando ogn’uno di loro l’imprevidibilità di questo spettacolo. Ci fu anche chi fra il pubblico si alzò minacciando il rimborso del biglietto. Sul dèpliant dello spettacolo era stato chiarito che esso si sarebbe basato su schemi assolutamente nuovi. La ballerina dal vestito bianco cominciò in maniera impercettibile ad assumere una posizione più sostenuta seppure ancora adagiata sul pavimento del palcoscenico, intanto l’audio delle poltrone del pubblico era stato spento, adesso il suono del respiro si udiva solo proveniente dal palcoscenico. Gustav sensibile com’era ai mutamenti che avvenivano intorno a lui si sentì subito derubato di qualcosa alla quale si era già abituato, respirò profondamente dentro di sé e cercò il proprio respiro, lo trovò ed inspirò. Gher prese la sua mano e la baciò teneramente lui rassicurato si riappropriò del suo respiro lasciando che la tensione piano piano se ne andasse. Gher si sentiva eccitata l’aveva elettrizzata questa esperienza e aveva voglia di gioia, l’atmosfera , l’energia del teatro era fra il sospeso e il realizzato, c’era chi fra il pubblico come al solito risolse tutto tossendo. La ballerina vestita di bianco acquistava adesso sempre più solidità e più forza fino che, dopo un lieve irrigidimento del corpo, dopo aver dato la possibilità alle energie ritrovate di fluire nel proprio corpo con dolcezza sollevando il piccolo torace s’incurvò sulle gambe e magicamente si alzò. Ancora diavoli e fiamme riempivano il palcoscenico ma lei come se non sentisse quella musica stridente ma una melodia paragonabile ad un’alba volteggiò fra i diavoli e fiamme creando vortici di luce. Dopo questa danza la ballerina si trovò da un lato della scena e in quel momento i diavoli cominciarono a perdere i vestiti pesanti, le code, le corna, il fumo cominciò ad assottigliarsi, le fiamme persero energia fino a che sulla scena rimasero delle figure scarne che sembravano che andassero liquefacendosi; scenicamente questo fu risolto facendo adagiare gli attori sul palco, fumo e fiamme svanite e adesso in assenza di musica calò il sipario. <br />Un applauso scrosciante da parte del pubblico, l’inferno si era liquefatto. Gustav adesso si sentiva esausto, sentiva la durezza di tutto questo spettacolo, si sentiva ombroso, inquieto, adirato,pensava che ogn’uno ha il suo inferno, bastava quello perché rappresentarlo anche in uno spettacolo teatrale e poi quella ballerina che rappresentava sicuramente la vita era pressante così poco educata, così invadente, ogn’uno ha la sua vita perché quella doveva appartenere a tutti non trovava più niente di privato in sé adesso, le sue amate pantofole rosse così gelosamente vissute, tutto il suo mondo, i suoi tesori erano unici si lo erano davvero, sentiva la sua profondità ribellarsi la sua vita aveva spessore, aveva qualità e si intrecciava si con il tutto quando di questo lui si rendeva consapevole ed era la rivelazione essenziale il poter scegliere di esistere o di parcheggiare nella vita, il suo atto di esistenza era individuale, si sentiva confuso adesso come se con quello spettacolo gli fosse stato tolto il libero arbitrio. Si era sentito colpito nelle viscere, Gher lo guardò – Sei contrariato Gustav ?- -Si molto Gher trovo che questo spettacolo varchi confini intimi e non sono d’accordo- - Lo trovo uno spettacolo forte e anche violento ,- ma è senz’altro lodevole per quanto riguarda l’efficacia di quello che vuole trasmettere, Gustav, anch’io mi sento un po’ scossa, vogliamo andare al bar a bere qualcosa? Non ce ne andremo vero Gustav? vorrei finire di vederlo, se però tu non vuoi proprio ce ne possiamo andare- Il sipario si alzò di nuovo, metà del pubblico non fece ritorno alle proprie poltrone. Gustav decise di rimanere anche perché pensò che il peggio della rappresentazione fosse passato. Quando il sipario si alzò la scena era campestre ci si trovava all’aperto, alberi qua e là sfoggiavano le loro chiome, paesaggi lontani, colline. Un uomo vestito attillato con calzamaglia marrone e maglia verde cominciò a parlare. –E’ una storia già strana quella che vi voglio raccontare, nacqui da una delusione sentimentale , crebbi dentro inferni eppure son qui verde come una tenera foglia di primavera marrone come il giovane arbusto che la sostiene, e voi direte è una storia privata perché raccontarla, non so forse perché sono un attore ed è questo il testo che ho scelto di recitare o che il caso, la vita mi ha proposto, mi sento giovane, vibrante pieno di vita, non me ne volete, dicevo che questo è lo spazio di una verde campagna popolata di insetti, uccelli e fiori e più in la le case, i miei paesani, non siamo propriamente colti ma ci siamo costruiti una vita, a proposito io mi chiamo Geppo, cioè recito Geppo e costruisco violini per i musicisti più famosi d’Europa sono molto bravo nel mio mestiere così dicono, io ritengo di avere una certa esperienza amore e dedizione per il mio lavoro esso mi porta nei boschi a scegliere legni che io ritengo adatti, ho un piccolo fondo là, fresco d’estate e ben riscaldato d’inverno. Ho un amore che si chiama Lucia a volte vado in città, ho molti amici: Giovanni, Andrea, Luigi, Mandorla,Lea, Cristina, Roberto, Marco. Via via che l’attore pronunciava i nomi giungevano da più parti uomini e donne, il piccolo Marco, un bimbo dell’età di sette anni, magrolino, il mio cane Stops arrivò in platea un bel cane di media taglia a pelo lungo marrone e bianco. Noi ce ne andiamo adesso è l’imbrunire le luci sul palcoscenico si abbassarono. –Buonasera a tutti e grazie di essere intervenuti qui a vederci ed ad ascoltarci. – Lo spettacolo finì gli applausi furono pochi. Gustav si sentì quasi inerme difronte a questa conclusione, questa normalità campestre aveva l’aria di cancellare o appiattire quello che era stato rappresentato prima. Decise di staccarsi da tutto si rivolse a Gher e le disse tutto di un fiato – Non mi è piaciuto- Gustav e Gher presero un taxi per tornare a casa era notte fonda e una luna luminosa splendeva in cielo. Gher si rivolse a Gustav –Mi è piaciuto questo spettacolo mi ha dato delle sensazioni vere- Gustav l’interruppe – Gher il lato concettuale è stato praticamente annullato, la vita che entra nell’inferno è l’unico concetto significativo, la vita e il resto sono stati giochi di artificio, la vita che liquefa l’inferno con la sua danza e il poter respirare in uno spazio che sembra rarefatto, la vita…. il respiro, si forse hai ragione Gher c’era del buono in quello spettacolo-. Gher sorrise aveva voglia di amare Gustav, di unirsi a lui , il suo caro Gustav così inerme di fronte ai grossi temi della vita così palpitante, così capace di muoversi in spazi ampi, profondi per poi arrivare a sciogliersi a volte su cose così semplici, riusciva ad essere emergendo dalle profondità in cui si trovava, a volte riusciva a portare alla superficie queste profondità e tutto era così stupendo e si poteva trovare in lui consapevolezza, comunicazione, amore e senso di appartenenza con tutti gli esseri umani. Arrivarono a casa Gher si avvicinò a Gustav nel salotto, lui dette uno sguardo alle sue pantofole rosse e alla poltrona poi guardò Gher era bella e presente le accarezzò il volto e tutti e due si baciarono, ciascuno di loro diventò anche spazio per l’altro, Gustav sentì tutti i suoi dubbi svanire, raramente si concedeva a Gher e riusciva fondersi con lei proprio per la sua poca capacità ad essere più naturale nella vita, a lasciarsi andare, ma quella sera fu felice di trovare Gher e se stesso in lei di occupare uno spazio che fosse solo loro dopo quell’atroce spettacolo. La mattina Gustav si svegliò di buonissimo umore, si sentiva apposto , libero , frizzante. Gher era una donna meravigliosa per lui e dopo quella nottata d’amore con lei dove il cuore la sua esistenza avevano avuto un posto senza che la sua mente intervenisse, dove aveva potuto accogliere Gher totalmente senza paura l’aveva rigenerato totalmente e adesso si sentiva nuovo. Allungò la mano sul comodino e senza far rumore per non svegliare Gher che dormiva beatamente guardò l’ora dopo aver preso il suo orologio, erano le sei del mattino, presto, prestissimo ma aveva voglia di alzarsi di annusare l’aria di sentire il fresco sulla pelle. Uscì dal letto, era nudo e la sua nudità lo stupì non si ricordava di esserlo si compiacque, si sentì così curiosamente innocente, osservando il suo corpo mantenendo la sua maturità di adulto. Si accarezzò il torace è si era veramente bello vivere. Una doccia frizzante svegliò del tutto Gustav i pori della sua pelle sembravano che saltellassero tanto rispondevano all’acqua che scendeva dall’alto, un accappatoio morbido e profumato accolse il corpo vibrante di Gustav in un abbraccio avvolgente che mantenne tutto il suo calore. Gustav si diresse in cucina e con passione si preparò un buon caffè profumato, lo bevve con tutta l’anima e con tutto il corpo poi uscì in giardino, il loro giardino. Foglie piccolissime e di un verde tenero e delicato spuntavano dagli alberi da frutta, dalla terra spuntava qua e là qualche filo d’erba ancora incerto, il dondolo se ne stava fermo e aveva l’aria di ascoltare quello che gli accadeva intorno. Le foglie dei rosi erano si tenere e sembravano in attesa di un impegno che l’avrebbe coinvolte più tardi con l’arrivo dei bocci e poi delle rose. I pomi dell’amore scarfugliati avevano l’aria di chi si aspetta una grande rivoluzione , le vecchie foglie che avevano passato l’inverno avrebbero dovuto lasciare il posto alle nuove, le bacche ormai giunte al termine sarebbero cadute e sarebbero spuntati piccoli fiori bianchi con pistilli allungati arancioni che dopo essere stati impollinati sarebbero caduti romanticamente in abbandono totale, pur rimanendo se stessi fino alla loro trasformazione in qualcos’altro non sarebbero caduti in nessun abisso senza fondo sembravano che sapessero di sicuro che sotto di loro ci sarebbe stata la terra. Gustav seguendo il corso delle sue sensazioni sentì la terra sotto i suoi piedi. E si su questo poteva contare era vero esisteva veramente, qualcosa di solido e di concreto, la terra c’era davvero non era invezione o un ipotesi ed era lì per Grazia di Dio, un qualcosa che non aveva bisogno di essere costruita, trovata conquistata, era semplicemente presente alla portata di tutti ed era un qualcosa che sorreggeva tutti, si sentì stranamente eretto come non gli era mai capitato, la sua corporatura grassoccia non di meno la sua sensazione fu di allungamento. Non sapeva se muoversi, sembrava che quella scoperta avvenuta in un istante avesse sancito quel patto fra sé e la terra solo dove si trovava in quel momento, non sapeva Gustav se facendo un passo e spostandosi, la terra l’avrebbe sostenuto adesso che aveva scoperto di essere su qualcosa. Se ne restò così fermo. Passarono alcuni attimi dove Gustav fu tentato di guardare il cielo e levarsi da quell’impiccio ma qualcosa dentro di sé glielo impedì voleva stare bene piantato sulla terra ferma, ora che aveva fatto questa sorprendente scoperta guardava i suoi piedi poggiati su quei dieci centimetri di terra e ciò gli sembrò strabiliante. Cominciò dopo poco a sentirsi a disagio per il fatto di stare lì immobile però non si risolveva a muoversi. Allora venne in suo soccorso la ragione e si disse che era un uomo maturo e senz’altro in tutto quell’arco di tempo doveva aver camminato poggiando i piedi su qualcosa di solido e non volato visto che era sprovvisto di ali, si rispose di si, sicuramente aveva camminato molto e come aveva fatto fino a quel momento poteva farlo ancora, era tutto vero di cambiato c’era che mai si era accorto di camminare sulla terra e non si era mai accorto veramente della sua esistenza. Aveva camminato senza rendersi conto, sarebbe cambiato tutto? La terra l’avrebbe sorretto come aveva fatto sinora? Si ci voleva solo coraggio di avere dei piedi, delle gambe, un cuore, un cervello di essere Gustav per poterlo fare. La terra era lì da sempre solida , tenera, accogliente, spaziale e sosteneva il Mondo intero, lì solo in attesa che la si scoprisse, che si scoprisse la sua esistenza. Riguardò i piccoli arbusti dei pomi dell’amore, dopo che i fiori sarebbero caduti, sarebbero spuntate bacche rotonde verdi con un po’ di scuro da confondersi con il colore delle foglie nuove già mature, poi piano piano le bacche rotonde sarebbero cresciute fino a raggiungere la loro massima espansione, dopo sarebbe venuta con il calore e il sole dell’estate la loro completa maturazione, prima diventando di un arancio pallido fino a diventare di un arancio acceso da assomigliare in lontananza quasi ad un rosso, avrebbero passato l’inverno fino alla prossima primavera. Solo una stagione ma c’era in tutto questo, sentiva e pensava Gustav, un atto di completezza che l’affascinava, si disse che il pomo dell’amore anche se solo per una stagione riusciva ad esprimersi così pienamente attraverso questi mutamenti, avrebbe potuto farlo anche lui, allungò una gamba e poggiò il suo piede sinistro sulla terra che era lì davanti a sé ne sentì tutta la sua vibrazione e la sua solidità, in un impeto di felicità fece un giro su se stesso, salterellò – Caro vecchio Gustav altro che pantofole rosse, si disse questa si che è vita nessuno al Mondo avrebbe potuto distoglierlo da quella felicità e dire che tutto era stato lì eternamente e immancabilmente lì e lui era lì immancabilmente lì con la sua barba un po’ nera e un po’ bianca con i suoi occhi scuri dall’espressione buona e profonda, quel corpo arrotondato e i folti capelli e i piedi e le gambe e le braccia possenti con le quali aveva stretto a sé quella notte Gher, sentiva il cuore battere dentro e fuori, le orecchie tamburellavano era emozionato veramente emozionato sentì che un cambiamento profondo stava avvenendo in lui talmente radicale che si sarebbe riconosciuto comunque in quello che era stato sempre e che ora sarebbe stato, dentro di sé riconobbe anche la paura, si accorse che essa era viva in lui insieme anche alla sua contentezza, non era più paralizzato ma vivevano in lui e con lui e riuscivano a mischiarsi a tutte le altre emozioni che fluivano liberamente in Gustav. Un angoscia profonda l’assalì all’improvviso come una saetta in pieno petto, vivo adesso era vivo in questo presente oltremodo totale di spazio e di tempo nessuna cosa al mondo avrebbe potuto distoglierlo o fargli più paura, la morte non aveva più significato se si poteva morire con la certezza di essere vivi, il senso del pericolo era totalmente dissolto ma la non-vita di Gustav era stata sempre lì in agguato si era fatta in disparte solo per un po’, colpì Gustav in pieno petto riportandolo in un dolore atroce. Gustav sentì la terra scivolargli da sotto i piedi, il cielo sembrò incurvarsi e scendere, i pomi dell’amore s’innalzarono, gli sembrò che il sotto e il sopra invertissero le loro naturali posizioni e Gustav fece una fatica tremenda per non trovarsi a testa in giù e a gambe in su. Si appoggiò all’albero di albicocche in questo sconvolgimento sentiva che l’equilibrio gli veniva a mancare, il cuore gli batteva forte e affannava paurosamente. Le poche lacrime che erano intrappolate negli occhi di Gustav rendevano ancora più vivida la sua espressione spaventata e dolorosa, neppure scuotendolo sarebbe uscita una lacrima da quegli occhi fissati nel terrore e nello sbigottimento. C’era qualcosa di profondamente ingenuo nel volto di Gustav la meraviglia al dolore, alla crudeltà che in un attimo può sovvertire l’equilibrio naturale delle cose come un terremoto che spacca in un istante la terra e il cielo che cade su di essa, Gustav stringeva forte il tronco dell’albero dell’albicocche, riavutosi un po’ravvisò il bisogno di rientrare in casa, precisamente nel suo salotto dove la luce non fosse così chiara ma attenuata dall’ombra dei mobili, dallo spazio occupato dal soffitto, dalle tende marroni mezze tirate che coprivano parte della grande finestra, si sarebbe seduto sulla sua poltrona ottima per mettere a riposo la sua faticosa non-vita, un posto, una posizione tranquilla dove la vita non sarebbe mai arrivata non avrebbe mai potuto farlo in quel salotto c’era la sua rappresentazione e il vero e il falso non si incontrano mai sullo stesso significato. Avrebbe recitato la vita Gustav come aveva sempre fatto, uscendo ogni tanto allo scoperto per rassicurare se stesso e gli altri che lui era sempre vivo, che non importava chiamare nessun medico per verificare se fosse vivo o morto. Caro vecchio Gustav così delicato, così fragile nella sua ricerca, così commovente. Gustav pensò alla sua poltrona come un naufrago in un mare in tempesta pensa a qualcosa che galleggia a cui aggrapparsi. Gustav era stordito avrebbe potuto lasciare la presa e con fatica raggiungere il salotto e la sua poltrona, le sue pantofole rosse sarebbero state lì davanti come sempre al loro posto. Preferì cadere come un sacco svuotato ai piedi dell’albicocco, preferì così non per risparmiare le poche energie che gli erano rimaste ma perché sentì che se pur sarebbe rimasto un uomo commovente per sé e per gli altri lo sarebbe stato così seduto sulla terra, caduto in giardino in mezzo ad una luce chiara e un cielo azzurro, evidente a sé e agli altri, nessuna rappresentazione della vita dunque ma un incapacità di lui a vivere la vita reggendosi in equilibrio nell’Universo grande e la non –vita l’avrebbe preso qui dove esisteva la vita e lui sarebbe stato il solo incidente in quel giardino; era terrorizzato anche da questa sua ultima decisione, che avrebbe detto a Gher e ai suoi amici? L’avrebbero preso certo per pazzo se avesse detto loro che non voleva più muoversi di lì, finchè lui non fosse cambiato, forse spiegando Gher avrebbe capito, ma come giustificare quella posizione che poteva sembrare così ridicola? Un uomo maturo seduto sulla terra, come avrebbe potuto giustificarsi? Un passerotto durante il suo tragitto occupato com’era a becchettare l’invisibile pasto qua e là, si avvicinò a Gustav non si era accorto di lui tanto egli ormai era diventato immobile e compenetrato nel tutto di quel giardino. Passato circa un quarto d’ora Gustav si calmò ritrovò in se stesso il suo rifugio e si convinse che non sarebbe servito a nulla restare in quella scomoda e assurda posizione come sarebbe stato assurdo pensare di poter tornare a sedere sulla sua poltrona come prima, era solo la sua vecchia e fedele poltrona e non l’avrebbe certo rinnegata per questo. Tutta colpa di quello spettacolo teatrale se aveva assaggiato la vita, ma ne era contento e adesso che avrebbe fatto? Quello che sempre aveva fatto cercare di esistere, adesso ne era ancora più convinto si guardò le mani erano delle belle mani, si poteva aver fiducia in lui, erano delle mani vere fornite di tutto e si notava in loro una grande sensibilità. Si alzò da terra, il suo viso era di un colore pallido, un colore bluastro gli contornava gli occhi che adesso avevano un’espressione stanca, ogni tanto lo scuoteva un fremito, si diresse verso casa e attraversata la prima stanza luminosissima raggiunse il salotto prese una sigaretta dalla scatola d’argento con i risvolti laterali eseguiti a mano, accese la sigaretta e si diresse alla finestra che dava sul giardino chissà a cosa stava pensando pensò Gustav, chi sa in quale Mondo o spazio adesso si trovava. Quello che avvenne nell’arco di un giorno non ve lo posso raccontare fu qualcosa di talmente autentico e prezioso che Gustav mi pregò di non trascriverlo, posso dirvi questo che Gustav trovò una risposta alla sua domanda seppe sicuramente in quale Mondo in quale Spazio fosse. Con un sorriso che gli si apriva dentro l’anima con una puntina di soddisfazione e di emozione che bene non seppe decifrare, sentì chiaramente un pensiero che si trasformò in parole dentro di sé<br />-Sono tornato, sono tornato sulla Terra.<br /> MarisaDanilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-76842548099813822712011-06-08T09:37:00.003+02:002011-06-08T09:51:01.023+02:00"Natura Naturans": arte in difesa dell’ambiente<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://3.bp.blogspot.com/-bICpEjWhtC4/Te8o7MyNmJI/AAAAAAAAD5o/O2p_m-kjr7U/s1600/resize.php.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 338px; height: 191px;" src="http://3.bp.blogspot.com/-bICpEjWhtC4/Te8o7MyNmJI/AAAAAAAAD5o/O2p_m-kjr7U/s400/resize.php.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5615752257863522450" /></a><br /> <br /><br />Dall’8 al 20 giugno, la mostra "Natura Naturans" presso la sede del Corpo Forestale dello Stato di Via Salandra<br /><br />di Stefania Valente<br /><br />I primi a scendere in campo per difendere la natura, nell’Ottocento, furono proprio gli artisti. Alcuni giovani pittori francesi, molti dei quali ruotarono attorno al gruppo degli Impressionisti, dedicarono le loro opere all’ambiente naturale con l’intento di proteggerlo. Tra l’altro già da allora si parlava di preservare l’acqua, come bene universale. Già si temeva che, con l’avanzare dell’industrializzazione, progressivamente, si sarebbe giunti a distruggere irrimediabilmente l’ambiente. <br /><br />A molti anni di distanza da quel periodo, con l’ecologia che ha fatto passi da giganti, diventata poi un movimento di protesta tout court (contro l’inquinamento, le guerre, il traffico automobilistico…) anche un artista contemporaneo ha scelto, come i suoi predecessori francesi, di mobilitarsi per riportare l’uomo vicino alla natura, attraverso l’arte. <br /><br />Questo pittore ecologista è Marco Calì Zucconi, singolare per il suo modo di dipingere: utilizza l’acqua e il fuoco per costruire la forma. La sua è una maniera come un’altra per stabilire un rapporto diretto con la natura. Nelle sue opere questo dialogo viene simboleggiato spesso da immagini arboree e dalle rappresentazioni dello stato acquoso, entrambi determinanti per l’origine della vita.<br /><br />I suoi lavori, dall’8 giugno al 20 giugno, si possono vedere, nell’ambito di Natura Naturans - mostra curata da Simona Brunetti - in uno spazio del Corpo Forestale dello Stato, ente sostenitore dell’evento.<br /><br />L’iniziativa si pone di mostrare un esempio di agire umano responsabile, nel rispetto dell’ambiente, come spiega direttamente l’artista, Marco Calì Zucconi: «La natura è organismo vivente in grado di auto-rigenerare la sua stessa realtà, e di accompagnare costantemente il divenire culturale umano, sin dall’apparire delle prime civiltà. Secondo il pensiero del filosofo Spinoza sosteneva che la Natura ha le stesse caratteristiche di Dio, quindi Dio è nel mondo e il mondo è in Dio, gettando, in questo modo, le basi per quella che oggi è denominata “etica ecologica».<br /><br />Opere che descrivono diversi stati della Natura, partendo dall’immagine arborea. «Nelle mie opere rappresento la capacità delle specie arboree di comunicare tra di loro. Infatti, gli studi scientifici del Prof. Stefano Mancuso dell’Università di Firenze, dimostrano che i vegetali sono provvisti di sensori intelligenti capaci di selezionare l’orientamento dei radicali in funzione della presenza di sostanze nutritive nel terreno, e permettono anche di scambiare informazioni utili alla sopravvivenza o di allarme per un pericolo». <br /><br />Oltre a testimoniare, con le sue opere, che anche i vegetali comunicano tra di loro, rappresenta il “divenire della natura” sotto molteplici aspetti. «Altri miei lavori rimandano al concetto filosofico dell’energia cosmica che collega la terra al cielo, come l’opera “Asse Cosmico”, ossia la condizione di crescita spirituale che caratterizza la verticalità psico-fisica dell’essere umano, così vicina alla realtà verticale dell’albero».<br /><br />La mostra, nata in occasione dell’Anno delle Foreste, indetto dall’ONU, viene introdotta, l’8 giugno, da una tavola rotonda a cui partecipano - oltre alla curatrice e all’artista stesso - Betty Lo Sciuto coreografa, Adriano Madonna giornalista subacqueo, Angelo Sagnelli poeta. Tema dell’incontro: il concetto di autorigenerazione della “Natura”, in quanto organismo vivente, in grado di produrre le necessità auto-riparatorie dell’ambiente.<br /><br />INFO<br />NATURA NATURANS, personale di Marco Calì Zucconi<br />Corpo Forestale dello Stato<br />Via Salandra, 44 <br />8 giugno – 20 giugno 2011<br /><br />Nella foto: dettaglio di "Sorgente", 2008Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-56019024239943831522010-06-29T11:02:00.004+02:002010-06-29T11:09:56.523+02:00La tecnica creativa artistica dell’acqua e del fuoco<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/TCm4B6qBmdI/AAAAAAAAD5M/9Kf0c51n_WM/s1600/acf+114+_SORGENTE_2008_acqua-fuoco.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 285px; height: 400px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/TCm4B6qBmdI/AAAAAAAAD5M/9Kf0c51n_WM/s400/acf+114+_SORGENTE_2008_acqua-fuoco.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5488119963992562130" /></a><br /> IL PROCESSO ARTISTICO DELL’ACQUA E DEL FUOCO <br />NELL’ATTO CREATIVO<br /><br /><br />a cura di Marco Calì <br />Artista-pittore, Artcounselor<br />Psicologia in Movimento – Bistrò …Punti di Vista<br />Via Giovanni Pittaluga, 22 - Roma<br />Domenica 21 gennaio 2007, ore 20.00<br /><br /><br />La tecnica creativa artistica dell’acqua e del fuoco procura dei passaggi tonali e cromatici, molto graduali e molto morbidi tra la figura e lo sfondo. Questa modalità creativa permette alle figure che appaiono all’interno della composizione artistica, che chiameremo “soggetto”, di essere in stretto legame con lo “sfondo” della composizione stessa. Esse sono in stretto rapporto così da indurre la sensazione che l’uno appartiene a l’altro, in modo tale che il “soggetto” è il prolungamento dello “sfondo”. Allo stesso tempo lo “sfondo” acquisisce valore grazie al ruolo svolto dal “soggetto” stesso. La tecnica dello sfumare i contorni innesca un movimento in avanti, durante il quale le figure pittoriche si rivelano allo spettatore, emergendo progressivamente dallo “sfondo” verso un piano visivo successivo.<br />Il “soggetto”, quindi, appare dallo “sfondo”, per poi scomparire in un secondo momento e lasciare spazio all’apparizione di una figura successiva. Attraverso una paziente osservazione la mente riesce a riconoscere gli elementi creativi. Talvolta è lo “sfondo” che prevale sulle figure “soggetto”. Talvolta, invece, è il “soggetto” che emerge dallo “sfondo”. Tutto questo varia a seconda degli spostamenti dello sguardo del fruitore, dal suo stato d’animo, e a seconda di come le sue esperienze sensoriali possono evolvere durante l’esperienza fruitiva.<br />La tecnica dello sfumare i contorni produce una connessione tra il comportamento del “soggetto”, cioè la figura, e lo “sfondo”, così come “Il corpo”, secondo Perls, ”è anche lo sfondo particolare a contrasto del quale è organizzata e compresa la figura del comportamento” di una persona.<br />Tutto ciò non sarebbe possibile quando le figure creative dipinte sono ben delineate da un contorno, che delimita in modo irreversibile qualsiasi possibilità relazionale tra il “soggetto” creativo e lo “sfondo” creativo.<br />L’acqua e il fuoco, sono elementi primordiali, e come tali in natura sono contrapposti. Il fuoco è rapido, irruente, è l’elemento dell’attimo impercettibile che non si può trattenere. Esso non esiste nel “prima” e neanche nel “dopo”. Così come, secondo Bachelard “ l’essere umano non è mai fisso, non è mai in un luogo, non vive mai nel tempo in cui gli altri vedono vivere, dove egli stesso dice agli altri di vivere.” Al contrario l’elemento “acqua” è fluido, può arrivare ovunque, e può penetrare la materia più dura come la roccia. Nel testo del Tao-Te-Ching l’acqua viene paragonata a “La bontà suprema ... La bontà dell’acqua consiste nel fatto che essa reca profitto ai diecimila esseri senza lottare. Buon per il cuore, la profondità; buona per i rapporti sociali, l’umanità; buono per il governo, l’ordine.” <br />Nel corso dell’atto creativo l’elemento “acqua” non ha più il ruolo di liquido inteso come “medium pittorico” per diluire il pigmento, ma diventa essa stessa soggetto creativo, che, insieme all’elemento “fuoco”, risulta essenziale per il concepimento del contenuto artistico, il quale non può sussistere senza contaminazione attiva tra i due elementi. Il gioco consapevole della relazione tra acqua e fuoco permette la manifestazione dell’ “imaginatio”, così importante nella messa in opera dell’energia trasformatrice che è quella della vita.<br />L’atto creativo è un processo lungo e complesso, che si basa sull’accettazione dei vissuti a livelli diversi dell’esperienza artistica. Esso matura nel tempo la consapevolezza artistica, attraverso una confluenza di esperienze a diversi livelli, in quanto, come sostiene il critico Achille Bonito Oliva: “l’arte diventa il luogo dove l’artista, attraverso il fare, realizza una conoscenza del mondo, grazie a una identità di pensiero e azione. Ora non è importante il risultato, l’opera compiuta, ma il processo atto a promuoverla”.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-75512753567256037062010-06-09T10:58:00.005+02:002010-06-09T11:12:24.098+02:00Una volta i colori del mondo<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/TA9aTIrAwlI/AAAAAAAAD5E/55ftEbVW80g/s1600/images-1.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 61px; height: 96px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/TA9aTIrAwlI/AAAAAAAAD5E/55ftEbVW80g/s400/images-1.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5480698556325085778" /></a>A cura di danilo picchiotti<br /> <br /><br />Una volta i colori del mondo cominciarono a litigare: tutti reclamavano di essere il migliore, l'indispensabile, il preferito.<br />Il Verde disse: "E' chiaro che io sono il più importante. Sono l'emblema della vita e della speranza. Sono stato scelto per l'erba, le foglie, gli alberi, senza di me gli animali morirebbero. "<br />Il Blu lo interruppe: "Pensi solo alla terra, ma considera il cielo e il mare. L'acqua è la fonte della vita. Senza la mia pace, ognuno di voi sarebbe nulla."<br />Il Giallo rideva sotto i baffi: "Siete tutti così seri! Io porto il sorriso, la felicità e il calore nel mondo. Il sole, la luna e le stelle sono gialle. Senza di me non ci si divertirebbe."<br />L'Arancione cominciò a cantare le proprie lodi: "Io sono il colore della salute e della forza. Porto le più importanti vitamine. Pensate alle carote, alle zucche, alle arance, ai mango. Non vado in giro a bighellonare tutto il giorno, ma quando riempio il cielo all'alba o al tramonto, la mia bellezza è così folgorante che nessuno rivolge più il pensiero a qualcuno di voi."<br />Il Rosso non sopportò più a lungo e gridò: "Io sono il vostro sovrano, sono il sangue della vita! Sono il colore del pericolo e del coraggio. Metto il fuoco nelle vene. Senza di me la terra sarebbe vuota come la luna. Sono il colore della passione e dell'amore."<br />Il Viola andò su tutte le furie. Era molto alto e parlò con grande superbia: "Io sono il colore della regalità e del potere. Re, capi e vescovi hanno sempre scelto me come segno d'autorità e saggezza. La gente non discute quello che dico, ascolta e obbedisce."<br />E infine parlò l'Indaco, molto più calmo degli altri ma con ancor maggiore determinazione: "Pensate a me. Sono il colore del silenzio. Mi si nota appena, ma senza di me diventereste tutti superficiali. Io rappresento il pensiero e la riflessione, il crepuscolo e l'acqua profonda. Avete bisogno di me come contrappeso, per la preghiera e per la pace interiore."<br />Così i colori continuarono a vantarsi, ciascuno convinto della propria superiorità. I loro contrasti divennero sempre più forti. Poi ci fu un lampo, e un tuono rombò. La pioggia cominciò a cadere implacabilmente. I colori cominciarono a temere il peggio e si stringevano fra loro per farsi coraggio. Nel bel mezzo della tempesta, la pioggia cominciò a parlare: "Pazzi, che lottate fra di voi cercando di dominarvi l'un l'altro! Non sapete che siete stati creati ciascuno per una ragione diversa, unica e particolare? Unite le mani e venite con me." Facendo com'era stato richiesto loro, i colori si diedero le mani. La pioggia continuò: "D'ora in poi, quando pioverà, ognuno di voi attraverserà il cielo in un grande arco, per ricordarsi che potete vivere in pace. Che l'arcobaleno sia il segno della speranza nel futuro."E così, ogni volta che un buon acquazzone lava il mondo e l'arcobaleno appare in cielo, abbiamo una buona occasione per ricordare di rispettarci l'un l'altro.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-29090949612897655622010-01-31T18:26:00.003+01:002010-01-31T18:31:00.634+01:00La storia di Edward Hopper<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/S2W9xs_OsrI/AAAAAAAAD48/gvCI8u2OG60/s1600-h/1256286008120_G3_01.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 399px; height: 195px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/S2W9xs_OsrI/AAAAAAAAD48/gvCI8u2OG60/s400/1256286008120_G3_01.jpg" border="0" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5432957187079975602" /></a>A CURA DI DANILO PICCIOTTI<br /><p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"><br /></p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana">La storia di Edward Hopper è indissolubilmente legata al Whitney Museum of American Art che ospitò varie mostre dell’artista, dalla prima nel 1920 al Whitney Studio Club a quelle memorabili nel museo, del 1960, 1964 e 1980. Dal 1968, grazie al lascito della vedova Josephine, il Whitney ospita tutta l’eredità dell’artista: oltre 3000 opere tra dipinti, disegni e incisioni.</p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"> A cura di Carter Foster, conservatore del Whitney Museum che ha concesso per l’occasione il nucleo più consistente di opere, la rassegna, realizzata con il coordinamento scientifico di Carol Troyen, vanta tuttavia altri importanti prestiti dal Brooklyn Museum of Art di New York, dal Terra Foundation for American Art di Chicago e dal Columbus Museum of Art. </p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"> Suddivisa in sette sezioni, seguendo un ordine tematico e cronologico, l’esposizione italiana ripercorre tutta la produzione di Hopper, dalla formazione accademica agli anni in cui studiava a Parigi, fino al periodo “classico” e più noto degli anni ‘30, ‘40 e ’50, per concludere con le grandi e intense immagini degli ultimi anni. Il percorso prende in esame tutte le tecniche predilette dall’artista: l’olio, l’acquerello e l’incisione, con particolare attenzione all’affascinante rapporto che lega i disegni preparatori ai dipinti: un aspetto fondamentale della sua produzione fino ad ora ancora poco considerato nelle rassegne a lui dedicate.</p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"> Le prime sezioni “Autoritratti”, “Formazione e prime opere. Hopper illustratore” e “Hopper a Parigi” illustrano un gruppo di promettenti autoritratti, le opere del periodo accademico e quindi gli schizzi inondati di luce e le opere del periodo parigino, come il noto dipinto Soir Bleu (1914). La sala dedicata a “La definizione dell’immagine: Hopper incisore”, con capolavori fra cui Night Shadows (1921) e Evening Wind (1921), mette in evidenza la sua tecnica elegante e quel “senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana” che riscuote grande successo e che segna l’inizio di una felice carriera. </p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"> Nella sezione titolata “L’elaborazione di Hopper: dal disegno alla tela”, che celebra la straordinaria mano di Hopper disegnatore e il suo metodo di lavoro, viene presentato un gruppo significativo di disegni preparatori per esempio per Morning Sun (1952) e per il precedente New York Movie (1939), nei cui bozzetti si può vedere chiaramente come prenda forma la figura femminile: all’inizio è quasi un ritratto della moglie Jo (sua unica modella) per poi giungere alla “maschera” del cinema - uno dei temi prediletti dall’artista - assorta nei suoi pensieri e bella come una diva. Questa sezione svela quanto il “realismo hopperiano” sia spesso il frutto di una sintesi di più immagini e situazioni colte in tempi e luoghi diversi e non una semplice riproduzione dal vero. In mostra eccezionalmente anche uno dei suoi i famosi taccuini, l’Artist’s Ledger Book III, che riempiva insieme alla moglie, dove si vedono abbozzati molti dei suoi dipinti a olio. </p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"> Nelle sale dedicate a “L’erotismo di Hopper” la mostra riunisce invece alcune delle più significative immagini di donne in stati contemplativi, perlopiù nude o semi svestite, da sole e in interni, che insieme alle opere della sezione "L’essenza dell’artista. Tempo, luogo e memoria" illustrano al meglio la poetica dell’artista, il suo discreto realismo e soprattutto l’abilità nel rivelare la bellezza nei soggetti più comuni, usando spesso un taglio cinematografico, molto apprezzato dalla critica. </p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana">Hopper è stato per lungo tempo associato a suggestive immagini di edifici urbani e alle persone che vi abitavano, ma più che i grattacieli – emblemi delle aspirazioni dell’età del jazz – egli preferiva le fatiscenti facciate rosse di negozi anonimi e i ponti meno conosciuti. Tra i suoi soggetti favoriti vi sono scorci di vita nei tranquilli appartamenti della middle class, spesso intravisti dietro le finestre da un treno in corsa, immagini di tavole calde, sale di cinema, divenute delle vere e proprie icone, come testimoniano alcuni celebri capolavori esposti: Cape Cod Sunset (1934), Second Story Sunlight (1960) e A Woman in the Sun (1961). Hopper realizza anche notevoli acquerelli, durante le estati trascorse a Gloucester (Massachusetts), nel Maine, e a partire dal 1930, a Truro (Cape Cod). Difficile vedere il mare in quelle opere che raffigurano piuttosto dune di sabbia arse dal sole, fari e modesti cottage, animati da sensuosi contrasti di luce e ombra. Dipinti che evocano sempre delle storie pur lasciando irrisolte le motivazioni dei personaggi.</p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"><br /></p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 10.0px Verdana; min-height: 12.0px"><br /></p>Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-68134500073604059802010-01-01T14:32:00.000+01:002010-01-08T14:34:51.475+01:00"La pittura dell'acqua e del fuoco 2006" Di Marco Cali<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/Sz4JVZ4rbyI/AAAAAAAAD4s/_yoP0ATGfNo/s1600-h/OFELIA_acf+53_1999_Acqua-Fuoco.jpg"><img style="margin: 0pt 10px 10px 0pt; float: left; cursor: pointer; width: 300px; height: 400px;" src="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/Sz4JVZ4rbyI/AAAAAAAAD4s/_yoP0ATGfNo/s400/OFELIA_acf+53_1999_Acqua-Fuoco.jpg" alt="" id="BLOGGER_PHOTO_ID_5421781264731172642" border="0" /></a><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br /><br />A cura di Picchiotti Danilo<br /><br />Vorrei riproporre all'inizio del 2010 questo bellissimo articolo di MARCO CALI " gia' pubblicato sul sito: WWW.associazioneilcuore.it (link) www.associazioneilcuore.it/articoli/acqua e fuoco.pdf- Sul processo artistico dell'acqua e del fuoco nell'atto creativo". Anticamente arte era intesa come capacità, talento, ingegnosità. “Il termine “arte” dal latino ars-artis, ha il significato di “abilità di fare”. Un’atteggiamento artistico preannuncia un prodotto creativo, il quale, come sosteneva Kandjnsky, “è determinato dalla necessità interiore”, che risulta strettamente collegato a “leggi” che regolano e armonizzano i vissuti personali. Spesso il fare arte partorisce prodotti ricchi di contenuti socio-culturali e spirituali che determinano una spinta innovativa rispetto ai riferimenti culturali già affermati all’interno di una società. “L’artista” come lo definisce Joseph Beuys, “è il catalizzatore della creatività degli individui.” Ben altra cosa è il desiderio di esprimersi creativamente, che è alla portata di tutti. Ogni essere umano porta dentro di sé le informazioni necessarie per essere in grado di tracciare una forma o un colore, poiché, come disse l’artista Dubuffet (1946), "il bisogno d’arte è per l’uomo un bisogno primordiale". In altre parole l’atto creativo è la manifestazione pura del semplice fatto di esistere al mondo. La pratica creativa restituisce, all’adulto come al bambino, una dimensione armoniosa. Lo psichiatra Carl Gustav Jung, riprendendo il pensiero di Kandjnsky sopra citato, ci dice che “l’atto creativo” è un mezzo attraverso il quale la persona può entrare in contatto con i contenuti interni e dargli così voce. Proprio per questo motivo la pratica dell’espressione creativa, di tipo grafico-pittorico e plastico-manuale, affiancata da una consapevolezza scientifica, è funzionale in ambito della salutogenesi per ottimizzare le personali condizioni di vita in caso di difficoltà. Attraverso la pratica della creatività, il professor Edoardo Giusti e la dottoressa Isabella Piombo (2003), sostengono che “la persona vede ciò che produce come qualcosa di profondamente suo, d’interiore, che lo aiuta ad entrare in relazione con l’esterno, come una finestra sul mondo. Tutto ciò non sarebbe esistito senza le conquiste dell’arte moderna, che ha introdotto un nuovo rapporto con l’opera e ha rivalutato l’arte infantile, come linguaggio spontaneo, portatore di messaggi profondi.” Joseph Campbell scrive “L’arte è l’esperienza che trasforma” capace di concepire la bellezza che è nello stato delle cose, la cui forma manifesta è modellata dal bisogno dei contenuti latenti, a prescindere se sono negativi o positivi. Tutto ciò assume una risonanza particolare quando gli strumenti creativi utilizzati non sono i pennelli o le matite, ma viene fatto uso di elementi naturali primordiali come il liquido dell’acqua, che non ha più il ruolo di diluente pittorico, ma diventa essa stessa soggetto creativo, che insieme alla fiamma del fuoco, risulta essenziale per il concepimento del contenuto creativo. L’elemento “acqua” si identifica simbolicamente con il personaggio femminile shakespeariana di Ofelia, meglio identificata nel significato del “Risveglio” (Marco Calì 1999), e l’elemento “fuoco”, “l’ultra-vivente” come lo definisce il filosofo Bachelard, l’elemento maschile della conoscenza che Prometeo ruba agli dei per donarlo agli umani. Il gioco consapevole della relazione tra acqua e fuoco permette la manifestazione dell’“imaginatio”, così importante nella messa in opera dell’energia trasformatrice che dà forma al “sogno” vitale, in cui, l’elemento “acqua” sostiene la “bambina” interiore senza affogarla, così l’elemento “fuoco” riscalda il “bambino” interiore senza bruciarlo.<br />DI MARCO CALI'Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-61411788885604717432009-12-10T06:36:00.002+01:002009-12-10T06:41:45.528+01:00l'arte degli Stati Uniti agli esordi costituì essenzialmente un trapianto provinciale delle tradizioni europee.<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://3.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SyCKAln2MnI/AAAAAAAAD4k/yAxDIomHIvk/s1600-h/images.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 118px; height: 89px;" src="http://3.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SyCKAln2MnI/AAAAAAAAD4k/yAxDIomHIvk/s400/images.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5413478494803210866" /></a><br /> . A cura di Picchiotti Danilo<br /> <br />La colonizzazione spagnola<br />Il più antico insediamento urbano di origine europea è St Augustine in Florida, fondato dagli spagnoli nel 1565, con tipiche architetture spagnole (case a due piani, coperture a terrazza, portici, orti sul retro). La colonizzazione spagnola lungo le coste del golfo del Messico e nei territori del sud-ovest (S. Fe, 1610; S. Antonio, 1718) portò al sorgere di una cultura architettonica legata prevalentemente a insediamenti militari e religiosi, con impianto urbanistico regolare a scacchiera e piazza centrale circondata da portici, nelle cui chiese e palazzi di governatori ai motivi del barocco coloniale si uniscono altri (tecnici e stilistici) derivati dalle culture indigene.<br /> <br />La colonizzazione inglese<br />Nei secc. XVII e XVIII si andò configurando uno stile coloniale, che si suole suddividere in due periodi: Early Colonial (fino al 1700 ca) e Georgian o Late Colonial (fino al 1780 ca), i cui caratteri stilistici rivelano ancora la subordinazione culturale alla madrepatria. Nel primo periodo coloniale prevalsero al nord le case contadine in legno, a due piani di due stanze ciascuno con camino centrale, di grande semplicità strutturale e formale, e gli edifici pubblici (come le Meeting Houses anglicane, di cui è un tipico esempio la Old Ship di Hingham, Massachusetts), per lo più di forma quadrata, con tetto a capriata , struttura in legno, alto soffitto gotico. Diverse invece le case delle colonie del sud (Maryland, Virginia, Carolina ecc.), dette Plantation Houses, assai più vaste e complesse, costruite spesso in mattoni, con maggiori pretese di signorilità (colonnati in facciata, logge , balconi). Nel sec. XVIII si costruirono edifici più grandiosi e solenni; lo stile Georgian Colonial costituì infatti una variante vernacola del georgiano inglese. Ovunque il legno incominciò a essere soppiantato dal mattone, dal laterizio o dalla pietra. I maggiori edifici pubblici di questo periodo (Town House a Boston, Old Colony House a Newport, Independence Hall a Filadelfia), come pure quelli religiosi (Christ Church a Filadelfia e a Boston, St. Paul's Chapel a New York), sorsero sul modello delle realizzazioni londinesi di Christopher Wren; sensibile fu anche l'influsso del palladianesimo inglese (Inigo Jones) e, nella seconda metà del secolo, dell'architettura dei fratelli Adam, mentre non mancarono anche esempi di derivazione francese, soprattutto negli Stati del sud. Il primo vero architetto americano è considerato Peter Harrison , cui si deve la Classical Redwood Library di Newport.<br /> <br />L'affermazione del neoclassicismo<br />Dopo la guerra di indipendenza americana, si affermò il neoclassicismo per l'influsso della cultura francese e per l'ideale collegamento con la Grecia democratica e la Roma repubblicana. Il gusto neoclassico è rilevabile, oltre che nelle opere di ispirazione romaneggiante di Thomas Jefferson (il Campidoglio di Richmond, la casa di Monticello in Virginia, l'università di Charlottesville), in quelle di ispirazione ellenizzante dell'inglese John Benjamin Latrobe e nel piano urbanistico di Washington (1790), tracciato con criteri simmetrici dall'architetto francese Pierre-Charles L'Enfant. Tra i principali architetti di questo periodo, oltre al Latrobe, sono da ricordare il francese E.-S. Hallet, l'irlandese J. Hoban e gli statunitensi Robert Mills, William Strickland, Th.U. Walter, Charles Bulfinch.<br /> <br />L'architettura dell'Ottocento<br />All'inizio dell'Ottocento ebbero grande fortuna negli Stati Uniti i movimenti del greek revival e del gothic revival, che costituirono, nel loro ritorno al passato, un aspetto del movimento romantico. In particolare il neogotico (i cui principali esponenti furono Richard Upjohn, J. Renwick e A.J. Downing) finì per influenzare tutta l'architettura americana, sia domestica, sia religiosa (Trinity Church e St Patrick a New York), mescolandosi poi al risorgere di stili vari, dall'egizio al romanico al neorinascimentale, secondo un eclettismo che dominò per tutto il secolo. Il primo interprete della reazione all'eclettismo di importazione europea fu Henry Hobson Richardson, che vide nell'essenzialità e solidità del romanico il mezzo più adatto all'espressione dei caratteri della civiltà americana. Un altro grande interprete della rinnovata stagione architettonica statunitense fu Louis Henry Sullivan, ancor più avanzato nella ricerca di strutture funzionali, al quale si devono sia la qualificazione espressiva di quella costruzione tipicamente americana che è il grattacielo, sia l'avvio della scuola di Chicago, che fu un grande vivaio di personalità innovatrici (William Le Baron Jenney, Daniel Hudson Burnham, Martin Roche, William Holabird, John Wellborn Root), alle quali si deve tra l'altro la ricostruzione del centro di Chicago dopo l'incendio del 1871. Le esigenze di funzionalità di questa scuola furono poi riprese e continuate nell'ovest dalla scuola californiana.<br /> <br />L'architettura del Novecento<br />Nel sec. XX la ricerca architettonica ha continuato a essere determinata dai complessi problemi relativi all'espansione dei centri industrializzati. Figura di primissimo piano è quella di Franck Lloyd Wright, allievo di Sullivan, assimilatore della tradizione autoctona americana e assertore di un'architettura "organica", integrata con l'ambiente, umanamente qualificata, realizzata con materiali naturali. Il polo dialetticamente opposto all'idea wrightiana è costituito dal razionalismo europeo, affermatosi negli Stati Uniti per opera degli architetti europei emigrati in America: Richard Neutra, Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe, Eero Saarinen, dai quali derivarono in gran parte gli sviluppi più notevoli dell'odierna civiltà architettonica americana. Dopo la II guerra mondiale lurbana, caratterizzata dal grattacielo, ha trovato un suo linguaggio definitivo nei volumi equilibrati, nelle superfici levigate, nell'impiego del vetro e dell'acciaio che alleggeriscono la massa enorme. Accanto al grattacielo si sono anche sviluppate forme rivoluzionarie, per l'impiego di nuovi materiali e di un'avanzata tecnologia, in edifici quali fabbriche, dighe, ponti, silos, aeroporti (palazzo delle Nazioni Unite di Le Corbusier e Oscar Niemeyer; Lever House di Louis Skidmore, Nathaniel Owings e John Merrill; Seagram Building di Ludwig Mies van der Rohe; terminal della TWA, di Eero Saarinen, tutti a New York; officine Olivetti di Louis Isadore Kahn, a Harrisburg).<br /> <br />La pittura e la scultura dal XVII al XVIII secolo<br />Nel primo periodo coloniale (sec. XVII) la pittura si espresse quasi esclusivamente nella ritrattistica. Solo nel secondo periodo coloniale si affermò un gruppo di professionisti, spesso richiamati dall'Europa per soddisfare le esigenze dei coloni che avevano raggiunto un'elevata posizione sociale. Nel campo della ritrattistica emerge il nome di J. Smilbert, attivo a Boston dal 1729, mentre iniziatori della pittura di storia possono essere considerati John Singleton Copley e Benjamin West . Durante il sec. XVIII la scultura si limitò a copiare i capolavori dell'arte classica, dei quali venivano importati dall'Europa copie o calchi di gesso. La personalità di maggior rilievo fu quella di W. Rush, autore di un famoso busto di Lafayette.<br /> <br />La pittura e la scultura dell'Ottocento<br />Nella prima metà dell'Ottocento il passaggio dal neoclassicismo al romanticismo fu caratterizzato dall'affermazione della pittura di paesaggio, che trovò la sua migliore espressione nella Hudson River School. Tra i principali esponenti del gruppo sono Thomas Cole, che dipinse grandiose foreste caratterizzate da una visione quasi apocalittica, A.B. Durand e J. Inmann, volti a ritrarre invece immagini più serene degli sconfinati paesaggi del Nuovo Mondo. Vanno ricordati anche Winslow Homer e G. Catlin, quest'ultimo illustratore della vita degli Indiani delle praterie. Il passaggio all'impressionismo è segnato dalle personalità di James Abbott MacNeill Whistler, Mary Cassat, John Singer Sargent e T. Robinson; la loro esperienza però si svolse in gran parte nell'ambito europeo. L'opera di Albert Pinkham Ryder costituì nel suo empito visionario un singolare precedente del surrealismo. La scultura fu dominata per tutto l'Ottocento dagli influssi neoclassici, ma con esiti modesti; l'unica personalità dotata di una certa autonomia espressiva fu quella di Augustus Saint-Gaudens.<br /> <br />Le correnti moderne<br />Il gruppo degli Otto, formatosi agli inizi del Novecento sulla scia del postimpressionismo europeo, costituì un significativo avvicinamento della pittura americana alle più avanzate esperienze internazionali. Nel 1913 si tenne a New York la celebre mostra dell'Armory Show (così chiamata perché allestita in una caserma) che, presentando opere di Henri-Emile Matisse, Pablo Picasso, Georges Braque, Constantin Brancusi, aprì la cultura figurativa statunitense alla rivoluzione delle avanguardie europee e fu determinante per la formazione di un originale linguaggio artistico. Tra gli artisti più rappresentativi del nuovo clima culturale del primo ventennio del Novecento vanno ricordati John Marin, interprete di modi fauves e cubisti, Stanton MacDonald Wright e Morgan Russell, il cui nome è legato alla corrente del sincromismo, Joseph Stella, futurista, Lyonel Feininger, Man Ray, Georgia O'Keeffe, Stuart Davis, variamente legati a esperienze cubiste, espressioniste o astratte. Fu proprio negli Stati Uniti che Marcel Duchamp, Francis Picabia e Man Ray dettero vita alla prima rivista dada, "291", nel 1918.<br /> <br />L'arte tra le due guerre<br />Dopo la I guerra mondiale si verificò col gruppo degli Immacolati un ritorno a rappresentazioni figurative che, attraverso l'estrema semplificazione oggettuale, volevano riprodurre i caratteri della civiltà americana. Una tendenza figurativo-realistica, dovuta anche alla reazione contro l'invadenza culturale europea, prevalse anche negli anni della crisi e del New Deal, trovando l'adesione sia degli artisti dell'American Scene (tradizionalisti e sciovinisti), sia di quelli socialmente impegnati (Edward Hopper , Jack Levine, Ben Shahn, W. Gropper). La dittatura nazista in Germania e gli eventi della II guerra mondiale produssero l'esodo negli Stati Uniti di alcuni dei più importanti artisti europei, da Josef Albers a Làszlò Moholy-Nagy, da Max Beckmann a Fernand Léger a Piet Mondrian. Questo fu fondamentale per l'affermazione dell'astrattismo in America, dove già nel 1936 fu costituita la società degli American Abstract Artists e fu creato il Museo Solomon R. Guggenheim per l'arte non-figurativa.<br /> <br />Il secondo dopoguerra<br />Ma è soprattutto nel secondo dopoguerra che le arti figurative americane hanno raggiunto esiti di grandissima originalità: artisti come Arshile Gorky, Mark Tobey, Jackson Paul Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Alexander Calder, assimilate le avanguardie europee dall'espressionismo al surrealismo, hanno dato a loro volta apporti fondamentali alla cultura internazionale, influenzandola a loro volta.<br /> <br />Gli anni Cinquanta e Sessanta<br />Intorno agli anni Cinquanta ha dominato la corrente dell'action painting, rappresentata da Jackson Paul Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline, Robert Motherwell, William Baziotes, mentre la personalità di Mark Rothko ha centrato la sua ricerca sul colore e sulla luce. Negli anni Sessanta, esauritasi la stagione dell'action painting, due tendenze sono emerse polarizzando attorno a sé le migliori espressioni artistiche: la Nuova astrazione (Kenneth Noland, Frank Stella, Robert Ryman), da cui hanno preso le mosse la minimal art (Robert Morris, Donald Judd, A. Smith) e la pop art (Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Jim Dine, Andy Warhol, George Segal, James Rosenquist ).<br /> <br />L'arte contemporanea<br />La risonanza mondiale della pop art ha conferito agli Stati Uniti grande prestigio culturale e un ruolo di primo piano negli sviluppi dell'arte contemporanea. Deriva dalla pop art, almeno per ciò che riguarda la tematica, la recente corrente dell'iperrealismo (Richard Estes, D. Eddy, D. Hanson, J. de Andrea). Nell'ambito della scultura vanno ricordati alcuni artisti, appartenenti alle più svariate tendenze astratto-costruttive o informali, quali David Smith, Seymour Lipton, Theodore Roszac, Louise Nevelson, John Chamberlain e soprattutto Alexander Calder . Importante infine il contributo statunitense alla definizione della cosiddetta arte concettuale, nel cui ambito di particolare interesse sono la body art (arte del corpo; J. Jonas, G. Pane) e la land art, o earth art (arte del territorio).Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-5902046012613640562009-12-10T06:27:00.001+01:002009-12-10T06:33:19.286+01:00l mito a Venezia: pittura e produzione a stampa fra Quattrocento e Cinquecento<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://3.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SyCH3UZbNTI/AAAAAAAAD4c/Nk8abor3OCg/s1600-h/images-1.jpeg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 109px; height: 144px;" src="http://3.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SyCH3UZbNTI/AAAAAAAAD4c/Nk8abor3OCg/s400/images-1.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5413476136537240882" /></a><br /> A cura di Picchiotti Danilo<br /><br />A Venezia non è la corte il luogo dove si produce la cultura, sono piuttosto i circoli di studiosi, più spesso vicini ai primi editori, che già all’inizio del secolo portano avanti una ricerca di alto livello; così anche nell’ambito della cultura artistica si verifica una sorta di sperimentazione intellettuale che convive con una produzione artigianale meno elevata e più divulgativa e disimpegnata, che troverà espressione sia nelle illustrazioni dei testi a stampa sia nelle incisioni sia nella produzione e nella decorazione di oggetti d’uso, dai mobili ai manufatti del corredo domestico. Tale dialettica attraversa tutto il secolo implicando sia l’attività artistica di grossi personaggi come Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, con la realizzazione di capolavori indiscutibili, documenti di una complessa problematica culturale, sia quella produzione spesso ancora artigianale, sicuramente più semplificata nei contenuti come nelle soluzioni formali, affidata ad artisti meno impegnati o alle maestranze di bottega, che sta a testimoniare una tendenza culturale di più ampia e facile fruizione.<br />La diffusione delle immagini mitologiche, a partire dall’edizione illustrata dell’Ovidio volgare nel 1497 , determina emblematicamente la divaricazione della produzione artistica a soggetto profano e segnatamente mitologico in due livelli: il primo continua anche attraverso le altre edizioni ovidiane e la produzione incisoria il nucleo illustrativo e divulgativo della favola mitologica narrata attraverso le varie fasi delle singole storie. Il secondo filone vede nella mitologia classica il tramite di determinati contenuti simbolici ricavabili dall’analisi delle fonti letterarie, alla luce della speculazione filosofica del tempo.<br />A Firenze alla corte di Lorenzo il Magnifico la mitologia era stata allegorizzata attraverso la filosofia platonica nell’interpretazione che ne aveva dato Marsilio Ficino a capo dell’Accademia di Careggi. La diffusione delle concezioni neoplatoniche, veicolate dalla mitologia in ambito veneto, viene recepita in termini diversi rispetto all’ermetico simbolismo fiorentino; negli Asolani di Pietro Bembo (stampato nel 1505), nel Libro de Natura de Amore di Mario Equicola (1525) come nei Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo i miti legati all’amore, alla bellezza, alla musica e alla poesia rivestiranno concetti complessi e profondi resi più facilmente comprensibili dalla lingua volgare adottata dai tre autori. In volgare viene anche stampato da Aldo Manuzio, a soli due anni di distanza dalle Metamorfosi di Ovidio, il romanzo di Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia, Poliphili; al testo e alle illustrazioni dell’opera farà riferimento negli anni seguenti la cultura figurativa veneta.<br />Alle favole mitologiche Giorgione da Castelfranco, la cui identità biografica ed artistica rimane ancora avvolta dalle tenebre, dedicherà poca attenzione, più attratto dalle elaborazioni filosofiche nei suoi dipinti soggetti alle più complesse interpretazioni; ma al suo nome resta legata una produzione di facile consumo dove il mito viene semplicemente raccontato o illustrato a fini decorativi o per committenti interessati a quelle storie immerse nella natura umbratile resa attraverso quel colorismo che caratterizzerà le ricerche pittoriche degli artisti veneziani nel XVI secolo.<br />Il genere deputato a tale produzione artistica è per lo più la pittura di cassone per committenti privati che restano nell’anonimato come anche spesso gli stessi pittori. L’andamento narrativo di queste rappresentazioni è ispirato per la gran parte alle Metamorfosi di Ovidio sul modello delle illustrazioni xilografiche dell’edizione in volgare del poema augusteo. Fra queste i pannelli dei musei civici di Padova con la Leda e il cigno o il cosiddetto Idillio campestre, che sembra riproporre a livello compositivo la tematica della Tempesta dell’Accademia, restano in un totale anonimato anche per la fattura poco definita sebbene siano molto caratterizzate le ambientazioni naturalistiche e gli sfondi di città. Di discussa attribuzione invece sono i pannelli con la Nascita e la Morte di Adone nei Musei civici di Bergamo o quello con la storia di Apollo e Dafne del seminario patriarcale di Venezia, fedelmente mutuata dalla xilografia del poema ovidiano nella sequenza degli episodi: dall’uccisione del serpente Pitone per mano di Apollo, all’inseguimento della ninfa da parte della divinità solare che determinerà la metamorfosi in alloro; per questi i nomi di Tiziano giovane, Giorgione e Paris Bordon, per il pannello veneziano, continuano ad essere riproposti senza un approfondimento di questo tipo di produzione - che invece si registra in parte per l’area toscana - e dunque del lavoro di bottega da una parte e dello status dell’artista dall’altro in ambiente veneto all’inizio del Cinquecento. Più definiti, in termini stilistici, appaiono i tondi con il mito di Endimione e il Giudizio di Mida della Galleria Nazionale di Parma assegnati a Cima da Conegliano, al quale pure sono riferiti il Bacco e Arianna del Museo Poldi Pezzoli di Milano e i due frammenti con Sileno e tre Satiri e Fauno della Johnson Collection di Philadelphia e il Giudizio di Mida di Copenhagen. Più innovativa rispetto ai modelli illustrativi è la composizione del pannello dell’Accademia Carrara di Bergamo dove Euridice, morsa dal dragone, corre verso l’esterno del pannello, mentre al centro in secondo piano le fiamme dell’Inferno fanno da sfondo al momento cruciale del mito in cui Orfeo girandosi a guardare Euridice la perderà per sempre.<br />Ancora nell’ambito di questa produzione si pongono una serie di rappresentazioni dedicate a Venere o alla ninfa scoperta dal satiro, soggetti a sfondo ora erotico ora filosofico che caratterizzano la cultura veneta e nord-europea del primo Cinquecento. La matrice è forse da rintracciare nel romanzo di Francesco Colonna e nella xilografia che illustra appunto una ninfa scoperta da un satiro affiancata da due amorini che versano dell’acqua. Si tratta di una figurazione ecfrastica che decora la fontana della vita, come indica l’iscrizione dedicatoria P A N T W N T O K A D I , vale a dire "alla madre di tutte le cose ", dove Polifilo andrà a dissetarsi durante il suo lungo percorso iniziato alla ricerca dellla sapienza. Dalla Venere di Dresda alla Ninfa alla fonte di Lucas Cranach a Lipsia, alla Venere di Urbino il tema dell’amore viene assunto e finalizzato per contenuti ora matrimoniali ora erotici ora filosofici.<br />In questi dipinti si verifica un netto scarto dalla composizione narrativa a quella allegorica che caratterizza le opere attribuite a Giorgione, come già notava Giorgio Vasari nel ricordo dell’impressione avuta dei dipinti dell’artista in occasione del suo viaggio a Venezia: «Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l’arte; poiché nel vero non si ritrovan storie che abbi ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona né antica o moderna».<br />Mentre gli Asolani di Pietro Bembo, nel recepire la tradizione platonica fiorentina, costituiscono la fonte primaria di quella produzione a soggetto amoroso e cortese, i Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo, scritti probabilmente fra il 1502 e il 1506 ma pubblicati solo nel 1535, si fanno interpreti di quella componente ermetica del neoplatonismo rinascimentale che è alla base di molte opere di paternità giorgionesca e di Tiziano giovane.<br />Il Concerto campestre del Louvre insieme all’Amor sacro e Amor profano della Borghese interpretano questa complessa problematica artistica tematica e culturale. La inusuale rappresentazione del dipinto parigino, dove figure nude e figure diversamente vestite creano un’atmosfera di intesa e di sospensione temporale, rivela la sua valenza allegorica in termini di allegoria musicale. Per la nuda alla fonte bisogna ricorrere all’immagine della poesia nella serie dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna, dove una figura femminile posta sul Parnaso si appresta a compiere un rito di purificazione lustrare. Così la contaminazione della nuda del dipinto del Louvre con la personificazione della Temperanza contribuisce, anche attraverso la dimensione temporale, a conferire al dipinto un significato filosofico musicale.<br />Un dipinto di quotidianità matrimoniale e di allegoria filosofica invece è stato da ultimo definito l’Amor sacro e profano ; il dipinto tizianesco, eseguito fra il 1514 e il 1515 in occasione del matrimonio fra Nicolò Aurelio e Laura Bagarotto, come rivelano gli stemmi dipinti nel quadro, verte sul tema dell’amore in antitesi ma in inevitabile dialogo con la morte. Così l’amore umano, rigenerazionale e matrimoniale convive e si contrappone all’amore sublimato, all’amore divino, spogliato di ogni ornamento, assimilabile anche a Psiche, all’anima, mentre l’elemento dell’acqua, assume un significato simbolico come nel romanzo d’amore di Francesco Colonna e nel Concerto campestre in quanto si fa tramite fra gli opposti e medium nell’azione del temperare da parte di Cupido.<br />Dopo la precoce morte di Giorgione la sopravvivenza della mitologia nella cultura artistica veneta del Rinascimento resta affidata essenzialmente a Tiziano e solo in parte ad altri artisti come Sebastiano del Piombo, autore della splendida Morte di Adone agli Uffizi , replicata da Baldassarre Peruzzi negli affreschi della sala delle Prospettive nella villa di Agostino Chigi a Paris Bordon e a Palma il Vecchio e solo più tardi a Tintoretto, seguito dalle solari composizioni di Veronese.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-9116731173553233552009-12-10T06:19:00.002+01:002009-12-10T06:26:30.905+01:00Centri culturali e movimenti"Il panorama culturale europeo nel XIII secolo"<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SyCGIebN-rI/AAAAAAAAD4U/m0g5DRpKo4c/s1600-h/images.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 99px; height: 73px;" src="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SyCGIebN-rI/AAAAAAAAD4U/m0g5DRpKo4c/s400/images.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5413474232263637682" /></a><br /> A cura di Picchiotti Danilo<br />Il panorama culturale europeo nel XIII secolo è convulso, proprio di regioni che attraversano processi di espansione e riaccumulazione della ricchezza. La persecuzione degli Albigesi (1209\1229) e la nascita dell'Inquisizione (1233) segnarono la fine, nel sangue e nel genocidio, della produzione provenzale. Da allora, l'avvento della Francia settentrionale; mentre i trobadori sfuggiti alla guerra si disseminano nelle regioni limitrofe ovunque ispirando il sorgere di produzioni poetiche locali. In campo religioso riveste importanza, anche dal punto di vista dei risultati poetici, il movimento francescano. E' il momento in cui la chiesa cattolica raggiunge con Innocenzo III il massimo della potenza economica e politica. Sono attive le universitates, e alcuni centri culturali politici come la corte di Federico II e quella di Alfonso X a Toledo. In Italia proliferano realtà politiche e culturali indipendenti come i Comuni. E' una proliferazione che rende conto dell'estrema vivacità culturale ed economica di questa regione, che continuerà fino al XVI secolo. Nel XIII secolo centri trainanti sono Asti Milano Verona Venezia Genova Pisa Firenze Siena, ma molti altri dimostrano un attivismo e una intraprendenza notevoli. Manca un centro politico unitario, ma si afferma l'attività di una classe, quella mercantile borghese, e con essa una mentalità e una cultura.<br /><br /> Corti cavalleresche<br />Tra il 1170 e il 1250 la società feudale raggiunse il più alto grado di sviluppo. Ai valori della tradizione cristiana si affiancarono quelli dell'etica cavalleresca: la lealtà , la fedeltà al proprio signore e alla donna amata, la dedizione agli ideali religiosi e ai compiti sociali dell'aristocrazia. <br />Centri della vita letteraria diventarono le corti e i castelli, dove i sovrani e i grandi feudatari si atteggiavano a protettori di poeti e artisti. In tale cornice la poesia fu intesa essenzialmente come raffinato involucro formale di affascinanti storie d'amore e di cavalleria.<br /><br /> La Francia settentrionale<br />Nella Francia settentrionale, la lingua d'oil è usata anche in campo storiografico: efficace il resoconto degli eventi vissuti da Robert de Clari e Geoffroi de Villehardouin, combattenti e cronisti della quarta crociata; più tardi è Jean de Joinville.<br />In campo teatrale continuano le sacre rappresentazioni del secolo precedente; e ad Arras nel 1200 si rappresenta Il jeu di san Nicolas (Le jeu de saint Nicolas) di Jean Bodel, la più antica rappresentazione di "miracolo": i "miracoli" hanno come fonte la vita dei santi e saranno numerose per tutto il secolo. Dagli intermezzi profani del dramma sacro si sviluppa verso la metà del XIII secolo un teatro comico. Capostipite ne è Adam de la Halle; di queste rappresentazioni buffonesche è rimasto poco.<br />In campo poetico, dopo Chrétien de Troyes la tradizione cortese si afferma con i trovieri, spesso signori e cavalieri: Gace Bruléé, Conon de Béthune, Thibaut de Champagne.<br /><br />Non appartiene a queste classi Colin Muset, autore di componimenti di gusto giullaresco e a volte con intenzioni ironiche nei confronti della tradizione cortese. Le convenzioni cortese sono del tutto superate nel maggiore poeta in lingua oïl della seconda metà del XIII secolo, Rutebeuf che per temperamento polemico e ispirazione realistica precorre Villon.<br /><br />Tra le cose più importanti dal punto di vista letterario prodotte in questo secolo in territorio e ambiente culturale francesi, è il Roman della rosa, che ebbe una influenza determinante nei due secoli successivi in europa.<br />Una raccolta di racconti storici è I fatti dei romani (Li fait des Romains), composta da anonimo tra il 1213 e il 1214.<br /><br /> Il ciclo arturiano francese<br />Probabilmente nella Champagne, nel 1220-1235 fu costituita la trilogia in prosa relativa al ciclo arturiano, formato da "Lancelot", "Ricerca del graal" (Queste du Graal), e "Artu morto" (Mort Artu).<br /><br /> Movimenti religiosi<br />Il secolo si apre con l'espansione del movimento cristiano dei francescani, a cui sono legati alcuni dei vertici della lirica religiosa cristiana: il Cantico di Francesco da Assisi, il Dies irae attribuito a Tommaso da Celano, lo Stabat mater di Iacopone da Todi. <br />Si tratta di una produzione lirico-religiosa che ha molto a che fare con il sorgere e proliferare della civiltà comunale italica, che costituisce la faccia religiosa di un ambiente che produsse anche in campo laico. E se i maggiori risultati in campo laico sembrano prodursi in Toscana, in campo religioso le cose migliori provengono, nell'ambito della penisola italica, dall'Umbria. Intorno al 1260 si sviluppa una copiosa lirica religiosa in lingua locale postlatina, in connessione con il sorgere di compagnie di Disciplinati a Perugia. La produzione di laudi, in gran parte anonima, si diffonde dall'Umbria alle regioni vicine e in Italia settentrionale, raggiungendo dimensioni enormi nei due secoli successivi, evolvendosi anche nelle forme di laudi drammatiche. <br />A questo secolo appartiene il laudario, ad uso non di confraternita ma personale conventuale, di Iacopone da Todi. Il laudario urbinate segue la scuola iacoponiana.<br />Nella penisola iberica, in castigliano scrive Gonzalo da Berceo (morto verso il 1268), un prete autore di vite di santi e soprattutto dei Miracoli di nostra signora, in cui sono raccolte 25 narrazioni, semplici e appassionate, di prodigi compiuti da Maria. Si tratta del primo autore della futura letteratura spagnola-castigliana, di cui conosciamo il nome. Gonzalo usa quartine monorime, composte di versi simili agli alessandrini epici francesi, con una sillaba in più sulla cesura. E' una forma metrica diffusissima nella letteratura castigliana delle origini ("cuaderna vìa" o "mester de clerecìa"), in contrapposizione alle forme irregolari dell'epopea popolare, e con influenze latine e francesi. Le sue opere sono coeve ad altri testi di autori anonimi (Il libro di Apollonio, Il libro di Alessandro, Il poema di Fernàn Gonzalez ecc.). In campo teatrale è l'anonimo Auto dei re Magi (Auto de los Reyes Magos, c.1200), primo testo in versi della drammaturgia liturgica spagnolo-castigliana. Dal punto di vista contenutistico e macrostrutturale, l'auto non differisce molto dai contemporanei misteri e sacre rappresentazioni del resto dell'europa. Il breve frammento dell'"Auto dei re Magi" è l'unico superstite di questo periodo.<br />In tutta l'europa latina si producono omelie, artes praedicandi, raccolte di "miracula" e di "exempla". Alla metà del XIII secolo risale la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, un domenicano; si tratta di una raccolta in latino di 182 vite di santi composta negli anni 1255-1266, e che ebbe una diffusione vastissima fino al XVIII secolo, un vero e proprio best seller, fu tradotta e volgarizzata, esercitando un notevole influsso sulla letteratura religiosa italica ed europea. Attraverso i racconti su Gesù e Maria e soprattutto i ritratti di eroi e eroine cristiane dei primi secoli, sviluppa una sequenza narrativa che si gradua attraverso il sogno, l'estasi, il realismo, il truculento e il macabro, il terrificante e il ridente. Una specie di 'Mille e una notte' dell'exemplum, tra spregio e curiosa attrazione per il peccato, con indicativi glissamenti su particolari "scabrosi", e con l'uso dell'io narrante che uniformizza stilisticamente i racconti all'interno di una succinta cornice (si veda il racconto della vita di santa Maria Egiziaca).<br />Tipico della cultura del tempo è un racconto edificante degli inizi del XIII secolo, cui si è dato il titolo convenzionale de Il cavaliere e l'eremita. In essa tutti i lavori profani del cavaliere (la forza, il lignaggio, il riso, la carne, la compagnia dei vassalli) entrano in contrasto con quelli dell'eremita che consuma le sue speranze nel recinto sacro della foresta, nell'interiorità , nella solitudine della preghiera. Operina minorissima, ma estremamente indicativa delle coordinate etiche che in certi ambienti culturali (tradizionalisti) si voleva presentare lo scontro tra cultura ascetica e cultura cittadina/cavalleresca.<br /><br />Negli anni tra il 1220 e il 1240 scrive le sue Lettere, Poesie, Visioni una mistica come Hadewijch. Lei è la testimone di un ambiente, quello dei beghinaggi renano-fiamminghi fiorente nel XIII e nel XIV secolo.<br />In europa non esistono solo i cristiani cattolici. Anche la chiesa cristiana orientale ortodossa esprime mistici e autori degni di rispetto. Un caso particolare è il gruppo presente sul monte Athos. Era stato Kostantinos Monomaco nel 1060 che aveva autorizzato questa zona sacra come zona protetta, con il divieto d'accesso a donne, bambini, effeminati e eunuchi e «a tutte le facce lisce». Nel XIII secolo dai santuari del monte Athos provengono alcuni mistici dalla forte carica poetica. Si pensi a Teolepto di Filadelfia, che scrive ispirato sulle particolari virtù che il mistico raggiunge in quei luoghi dove «la ragione colpita dalla lancia del divino amore zampilla pensieri vivificanti e luminosi. L'amore, invece di una dolce conversazione, produce profondo silenzio e incanta la ragione con la variegata lucentezza dei pensieri». Ma si pensi anche allo Pseudo-Simone che nei suoi "Versi della santa e divina preghiera", che afferma come «in tutto ciò ha come inizio e fine il capo di tutte le virtù , la carità ». I mistici del monte Athos elaborano una religiosità monastica basata sul valore dell'hesychía, il silenzio e la solitudine. Attraverso l'esicasmo, sfuggire ai mali: golosità (gastrimaghia), avarizia (philarguria), fornicazione (porneia), collera (horghè), tristezza (lupè), disperazione (akedia), vanagloria (xenodoxia), orgoglio (huperefania).<br /><br /> Produzione letteraria germanica<br />Epica cortese<br />Anche in Germania, su modello francese, si ebbero romanzi in versi dell'epica cortese, ispirati al mondo classico e alle leggende bretoni così come le aveva elaborate Chrétien de Troyes. Spiccano i poemi di Hartmann von Aue, Tristan e Isotta di Gottfried von Strassburg, e soprattutto il Parzival di Wolfram von Eschenbach in cui sono maggiormente sottolineati i motivi etico-didascalici, rispetto ai modelli francesi. Egli attinge da Chrétien de Troyes, ma trasformando la vicenda romanzesca in una storia di purificazione e di elevazione spirituale.<br /><br /> Epica anonima<br />L'epica popolare, non soggetta a influssi esterni, si basa su una ripresa di antichi temi germanici: i testi maggiori sono dati dal Cantare dei Nibelunghi (inizi del XIII secolo), e da Kudrun (c.1230). Nel primo prevale una cupa drammaticità , nell'altro il gusto per l'avventura e la partecipazione agli affanni amorosi.<br /><br /> Minnesang<br />Concepito e teorizzato come la più nobile espressione umana, l'amore diventa il tema della contemporanea lirica cortese dei minnesänger. Il termine di minnesang deriva dalla combinazione dei due termini tedeschi: "sang" (canto) e "minne" (amore). La tradizione dei trovatori provenzali si associa a spunti locali di poesia erotica spontanea e popolareggiante. Questa del minnesang non fu un vero movimento, ma una tradizione sviluppatasi a partire dal XII secolo (fino al XIV) nella regione austro-bavarese. I minnesänger appartenevano spesso al ceto nobile, recitavano i loro componimenti davanti a un pubblico raffinato che frequentava le corti feudali, accompagnandosi a strumenti a corda: così come avveniva per i trovadori provenzali. Anche qui il tema principale, quello dell'amore, è concepito come rapporto spirituale che nobilita. Si esaltarono le virtù della vita cavalleresca e della società cortigiana, la lealtà , la fedeltà , la costanza, il coraggio. La donna venne idealizzata fino a diventare modello di perfezione, ma senza essere investita di significati mistici (come sarà nello stilnovismo). Nei più tardi minnesänger si accenteranno gli elementi sensuali e i vagheggiamenti sentimentali. L'amore però non era il tema esclusivo: si scrivevano anche componimenti politici, invettive e satire contro i potenti, canti religiosi e morali. In genere la scelta di un determinato argomento implicava l'adozione di un dato schema metrico e musicale:<br /> • il lied (pl. lieder) era una canzone a più strofe, d'argomento in genere amoroso;<br /> • il leich (pl. leiche) era una poesia bistrofica, amorosa e conviviale, o religiosa;<br /> • lo spruch (pl. sprüche) era una poesia monostrofica, spesso sentenziosa e politica.<br />Legato a rigide strutture formali, il minnesang finì per cristallizzarsi.<br />Tra i minnesänger si affermò , al di fuori degli schemi, nel corso del XIII secolo, la personalità poetica di Walther von der Vogelweide cantore di amori giovanili sullo sfondo di teneri paesaggi stilizzati. Egli è veemente polemista politico e moralista; riporta il minnesang nella dimensione della realtà , piegandolo a nuovi e originali modi di espressione. Tra gli altri minnesänger contemporanei da non dimenticare Wolfram von Eschenbach , sensibile all'ispirazione morale. Già nel realismo satirico delle canzoni di Neidhart von Reuental , scritte nel 1210-1240, è avvertibile tuttavia la decadenza dei valori etici. I suoi versi descrivono sensuali amori campestri del poeta che "si reca presso i contadini". Siamo nel clima dei poeti dell'ultimo periodo del minnesang, in cui i vari autori, influenzati dalla produzione giullaresca, tracciano spigliate e salaci rappresentazioni dell'ambiente contadino: si tratta di toni e motivi sempre più estranei ai caratteri originari del minnesang, e preludono alla poesia borghese dei "maestri cantori".<br /><br /> Nel campo della prosa, documenti dell'evoluzione linguistica oltre che dell'organizzazione politico-sociale del mondo feudale sono lo Specchio dei sassoni (Sachsenspiegel, 1221-4) la più vasta e autorevole raccolta giuridica oltre che delle consuetudini sociali dell'area sassone, e la Cronaca universale sassone (Sächsische Weltchronik, c.1230) vasta compilazione storica che va dalle origini del mondo agli eventi della Germania del suo tempo, dovute a Eike von Repgow (c.1190\1233). Eike era un nobile sassone, originario della regione di Dessau: con queste due opere a lui attribuite creò la prosa letteraria tedesca, mentre con la "Cronaca" diede la prima importante opera della storiografia tedesca.<br /><br /> La Germania borghese<br />Nella seconda metà del XIII secolo si accentuò la potenza della borghesia cittadina, rivaleggiante con l'aristocrazia dei castelli. Mercanti e banchieri sviluppano nuove forme di produzione e distribuzione della ricchezza, mentre gli artigiani, riuniti in potenti corporazioni, sopravanzano i ceti legati all'agricoltura. Cominciarono così a declinare i miti della società cortese. <br />L'ambiente rustico è scelto da Wernher der Gartenaere per ambientare la sua novella in versi, Il massaro Helmbrecht (Meier Helmbrecht, c.1270), in cui domina l'esigenza di documentare l'apporto di tutte le classi, anche delle più umili, all'edificazione di una perfetta società . La novella è il più antico poema d'ambiente rurale in lingua tedesca che si possegga. Si tratta di un'opera di grande originalità e vigore. Nato in un'epoca in cui la cavalleria era degenerata nei misfatti dei "cavalieri predoni", Wernher non condanna direttamente i cavalieri decaduti ma i contadini traviati dal loro esempio: narra così la storia tragica di un contadino che rifiuta la propria condizione e, sotto il miraggio di diventare cavaliere, compie una serie di atroci misfatti. Alla fine, la terribile punizione. L'opera è simile a una ballata popolare, in gran parte occupata dai dialoghi tra i personaggi: il protagonista, il padre inflessibile nella condanna del figlio che rifiuta la propria condizione, la sorella, le vittime delle sue violenze che alla fine lo riconoscono e lo puniscono. Si tratta di personaggi complessi e psicologicamente molto elaborati. E' una parodia dei poemi cavallereschi, ma anche il poema che decreta la fine di quel genere, nel naufragio di quel mondo nella violenza. <br />La realtà sociale interessa ancora soprattutto per i suoi aspetti comici e grotteschi. Il mondo pittoresco dei poveri, lo spettacolo della stoltezza e dell'astuzia umana, sono materia letteraria per Stricker, ma anche per un poeta come Konrad von Würzburg (era nato a Würzburg nel 1220-30, morì a Basilea nel 1287) che, pur di estrazione borghese, risulta legato nelle sue novelle in versi alla tradizione cavalleresca, impegnato a realizzare uno stile "fiorito" decorativo e rarefatto quanto quello dell'arte gotica allora imperante. Konrad è l'ultimo esponente della letteratura tedesca cavalleresca. Riprende lo stile raffinato e dotto di Gottfried von Strassburg. La sua vasta opera comprende poemi cavallereschi (Engelhart), novelle (Heinrich von Kempten), vite di santi (Silvester, Pantaleon), liriche e poesie gnomiche. Il suo nome è rimasto famoso per il poema Il cavaliere del cigno (Der Schwanritter), sulla leggenda di Lohengrin, il cavaliere del santo graal, da cui Wagner ricavò un dramma musicale. <br /><br /> Anche nel teatro troviamo questo mutamento verso forme più realistiche. Ai drammi religiosi in latino del secolo precedente succedono sacre rappresentazioni in lingua locale, dedicate ai momenti principali dell'anno liturgico (Passionsspiele, Weihnachtsspiel). Ma mentre prima tali rappresentazioni posseggono situazioni e caratteri molto stilizzati, con l'avvento della nuova cultura borghese prevalgono, sui contenuti religiosi, l'interesse per l'ambientazione storica o pseudo-storica (Mistero della papessa Giovanna). <br />Nelle fastnachtsspiele, farse carnevalesche eseguite nelle piazze, il teatro indulge nei modi dell'umorismo più facile. <br />Intanto esiste uno sforzo per rinnovare il sistema ideologico laico, come si avverte nella poesia di contenuto gnomico e morale. Nella prima metà del secolo Freidank, nella raccolta poetica Saggezza (Bescheidenheit) detta precetti che dovrebbero servire non solo per la salvezza eterna ma anche per rapporti sociali più armoniosi. <br />La scuola dei "maestri cantori" (meistergesang), appoggiata dalle corporazioni artigianali, nella sua ampia parabola produttiva (dal '200 al '500), riafferma i princì pi di un'etica borghese idealizzata: l'equilibrio, il senso della misura, lo spirito d'adattamento, la laboriosità, la tenacia. Sono valori esaltati anche dalla grande letteratura religiosa del tempo, in cui si affermano le possibilità espressive della prosa tedesca: dalle prediche del francescano Berthold von Regensburg (c.1210\1272) ai successivi teologi Meister Eckhart, Taulero e Suso.<br /><br /> Altri centri: Inghilterra, Irlanda, Fiandre, Islanda, Finlandia, Serbia, Kijev<br />In middle-english circolano poemi del ciclo arturiano (nel c.1205 Layamon scrive il Brut, proprio in middle-english), mentre meno rilevanti risultano i contributi provenienti dai popolari cicli carolingio e classico, rispetto alle opere indipendenti come il Sir Orfeo e ai romanzi del ciclo isolano. A radici popolari, più che a moduli cortesi, risale la splendida lirica del Manoscritto Harley.<br /><br /> Menzione a parte merita la poesia irlandese che, con le sue formule magiche e incantatorie derivate dagli antichi sacerdoti druidi. Siamo qui alla preistoria della tradizione satirica britannica.<br /><br /> Nelle Fiandre la produzione letteraria subisce influssi soprattutto dalla Francia. Nella mistica si distingue la monaca Hadewijch. Sono diffuse canzoni di gesta e romanzi cortesi, ma quasi essenzialmente nelle province del sud che appartengono in quest'epoca alla Francia. Il genere cavalleresco non attecchisce nel contesto fiammingo, essenzialmente borghese. Grande successo ottengono un rimaneggiamento di alcune parti del Roman di Renard e l'opera di Jakob van Maerlant. In gran numero sono le canzoni e i racconti popolari in versi, spesso d'argomento didascalico. Grande ruolo acquista, a partire dal 1250 la prosa sacra, sia per la profondità espressiva che per il suo rilievo linguistico.<br /><br /> Mentre il Finlandia continua la tradizione orale dei canti (runi) recitati al suono del kantele (un tipo di cetra), in Norvegia si ha un modesto processo di recupero di materiali nordici autoctoni, con una forte assimilazione di testi religiosi e profani (agiografie, moralità , poemi cortesi e cavallereschi) di provenienza continentale. Degni di nota il Konûngs skuggsja (o Speculum regale), un trattato sull'educazione degli aristocratici. Nel campo della produzione latina è l'Historia de antiquitate regum norvagiensium del monaco Thoudricus. Rilevante, tra XIII e XIV secolo, la produzione di ballate epico-liriche, su modello provenienti dalla Francia attraverso Germania e Danimarca.<br /><br /> Intorno al XIII secolo è in Islanda la massima fioritura della tradizione degli scaldi, i poeti epico-encomiastici che operavano presso le corti feudali e che dall'isola emigrarono nelle altre aree scandinave. Nella prima metà del secolo, alla vigilia della dominazione danese, è un periodo di vita culturale eccezionalmente intenso. Nasce la letteratura in prosa, con le saghe, narrazioni che erano fatte risalire a veri fatto storici. In quegli anni è l'attività del massimo erudito islandese antico, Snorri Sturluson.<br /><br /> Dal principato kijeviano, prezioso documento del sostrato popolare che sottende la letteratura erudito-ecclesiastica, manifestandosi per lo più con particolari clausole ritmiche, è la Supplica risalente attorno alla metà del XIII secolo, che un ignoto Daniil detto "Zatocnik" (il prigioniero), rivolge al principe della sua città affinché lo accolga a corte e gli dia una libera occupazione. Nel 1240, travolta dai mongoli dell'Orda d'oro, cade Kijev. I prìncipi russi sono ridotti a vassalli. Per la letteratura comincia un periodo di decadenza in cui i vecchi generi ereditati da Bisanzio sopravvivono in forme irrigidite attraverso degli epigoni. La tolleranza religiosa dei tatari (dopo il primo impatto devastante) però , lasciò intatte le basi della cultura slavo-ortodossa e permise il perpetuarsi di una tradizione che conoscerà una nuova fase di sviluppo alla fine del XIV secolo.<br /><br />Nel XIII secolo inizia un processo di germanizzazione dei popoli baltici, che impedisce l'evolversi delle culture di quei popoli verso una autonoma produzione scritta.<br /><br /> In Serbia la produzione letteraria ha inizio per influsso dell'attività di Cirillo e Metodio; a differenza delle regioni croate, nelle regioni serbe lo slavo ecclesiastico mantenne prerogative di lingua letteraria oltre che liturgica, fino al XVIII secolo. Favorita dall'ascesa dello stato serbo, la letteratura ebbe vigoroso sviluppo proprio a partire dal XIII secolo, pervenendo a un alto grado di maturità continuato per due secoli. Essa ebbe i suoi centri nei monasteri, fondati fuori del territorio che sarà nazionale - celeberrimo quello di Hilandar - nei quali gli stessi sovrani si rifugiavano negli ultimi anni di vita. Il modello rimase a lungo la letteratura bizantina, dalla quale si assimilavano con fervore spiriti e forme. Il genere più fortunato fu quello agiografico e biografico, in cui venivano consacrati i regnanti fondatori di monasteri. Iniziatore ne fu Sava (1169\1236) figlio del primo re serbo, da lui celebrato in una pregevole Vita di san Simeone. Sul suo esempio, suo fratello, il re Stefano (1165\1227) scrisse una più ampia biografia del genitore. Alla metà del XIII secolo i monaci Domenziano (1210\1264) e Teodosio (seconda metà del XIII secolo) scrissero una Vita di san Sava.<br /><br /> La cultura ebraica<br />In Spagna continua la fioritura ebraica. Accanto alla produzione delle scuole filosofiche, si ha una ripresa della mistica con Mosheh de León (c.1240\c.1305), l'autore più probabile de Lo splendore (Sèfer Zohar, Libro dello splendore), che ebbe una grande influenza nella mistica ebraica successiva. Secondo la tradizione, lo "Zohar" fu attribuita a Shim'on bar Jochaj, erudito palestinese del II secolo (+). Sulla base di un'accurata indagine critica storico-religiosa, si ritiene invece che sia stato scritto almeno in gran parte da Mosheh de León. Lo "Zohar" è un midrash omiletico al Pentateuco e ad altre parti della Bibbia. E' scritto in un aramaico artificiale. Comprende 21 trattati, in cui si sviluppano le dottrine caballistiche su dio, i suoi nomi, la cosmologia, la mistica dei numeri e delle lettere dell'alfabeto ecc. La forma usata è spesso quella delle rivelazioni fatte da Shim'on bar Jochaj. Considerato un libro sacro dai caballisti, ebbe un'influenza anche sui "caballisti cristiani" nel XV-XVII secolo. <br />Figura importante nella mistica è quella di Abraham Abulafia. <br />Accanto a questi, a fare da sottofondo, il lavoro di tutta una serie di autori minori e minimi, e soprattutto di eruditi, cui si deve un lavoro notevole di accumulo di informazioni e materiali: di cultura. Tra questi eruditi minori è Shem Tob ibn Falaquera, poligrafo, si occupò di poesia di corte, di studi medici, di psicologia (scrisse un "sefer ha-nefesh" cioè un "libro dell'anima"), scrisse un glossario filosofico a introduzione di un florilegio di "Opinioni dei filosofi" (Deot ha-filosofim), una specie di enciclopedia di 600 pagine manoscritte, in ebraico.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-67646139690638001282009-11-10T07:10:00.003+01:002009-11-10T07:17:15.223+01:00Una risposta nella mostra sui cento capolavori dell'Ermitage.<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SvkFUq7PqRI/AAAAAAAAD4M/Pehmjo6_i4I/s1600-h/images-1.jpeg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 150px; height: 100px;" src="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SvkFUq7PqRI/AAAAAAAAD4M/Pehmjo6_i4I/s400/images-1.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5402355080685922578" /></a><br /> <br /><br /> Chiedere a un matematico di commentare dei quadri è come chiedere a un pittore di dipingere dei numeri: un evento a prima vista piuttosto improbabile, che a uno sguardo approfondito risulta però possibile. Anzi, tanto possibile da essersi già verificato più volte. Basta ricordare l'esoterica Malinconia di Albrecht Dürer (1514), in cui di numeri ne compaiono addirittura sedici, disposti in forma di quadrato magico: un'opera sulla quale il professor Nanni Moretti espresse tutta la sua sorpresa in un'imbarazzante lezione del film Bianca (1976). Altri esempi sono i telescopici Numeri innamorati di Giacomo Balla (1925), in cui vengono raffigurati i primi termini della misteriosa successione di Fibonacci che descrive le simmetrie della natura, e il Cinque dorato di Charles Demuth (1949), che rappresenta appunto ciò che dichiara: un enorme e luccicante cinque. Quest'ultimo fu tanto influente da essere stato ripetutamente citato e ripreso, per esempio nel Cinque di Demuth di Robert Indiana (1963): un artista che deve la sua fama al celeberrimo Love (1967), di cui si appropriarono i Beatles per la copertina di un loro disco. Per quanto riguarda noi e oggi, basta citare Ugo Nespolo, che ha fatto dei numeri il soggetto preferito della propria ispirazione e dei propri acrilici su legno. Se i pittori si permettono di dipingere numeri, i matematici potranno dunque ben azzardarsi a commentare quadri. Avviamoci quindi a curiosare insieme nella mostra dei cento capolavori dell'Ermitage, alla ricerca di elementi di riflessione scientifica più che artistica. Il gioco è difficile, perché i quadri in esibizione alle Scuderie Papali del Quirinale appartengono a un periodo e a pittori non particolarmente sensibili al razionalismo matematizzante che ci interessa in questa sede. Poiché però i giochi facili divertono poco, di questo saremo più felici che preoccupati. Quasi all'inizio della mostra, il primo dipinto ad attirare la nostra attenzione è il numero 23: La Chiesa di Santa Maria degli Angeli di Henry Edmond Cross (1909), un tipico esempio di "puntillismo". Questa tecnica, scoperta o inventata da Georges Seurat nel corso dei suoi studi sui colori e da lui chiamata "divisionismo", rappresentò una vera e propria rivoluzione euclidea nell'arte: il riconoscimento, cioè, che come lo spazio geometrico è costituito di punti immateriali e senza dimensione, così lo spazio pittorico si compone di punti colorati ai quali è possibile ridurre ogni figura. Oggi siamo tutti puntillisti senza neppure accorgercene, perché sappiamo benissimo che le immagini degli schermi televisivi o informatici sono appunto composte di cosiddetti pixel colorati: più grande è il numero dei pixel usati, maggiore è la risoluzione dello schermo e delle relative immagini. I puntillisti non erano invece interessati alla risoluzione, ma al suo esatto contrario: il loro obiettivo non era nascondere la natura atomica dello spazio visivo, ma esibirla. Proprio negli stessi anni in cui gli artisti decostruivano le immagini pittoriche in punti colorati, i matematici e i fisici decostruivano le curve geometriche in funzioni sinusoidali e gli atomi materiali in particelle elementari. In tutti i casi si trattò di una medesima riduzione della realtà a fenomeni ondulatori (ottici, trigonometrici o quantistici) rimasti fino ad allora nascosti: come disse Einstein, si era finalmente "sollevato un lembo del grande velo" che cela la dinamica essenza del divenire dietro la statica apparenza dell'essere. La parte centrale della mostra riguarda artisti, da Gauguin a Matisse, alla cui opera poco si addice un'analisi matematica. La cosa cambia invece quando ci imbattiamo, verso la fine, in una serie di quadri cubisti di Pablo Picasso (1907-1917). Se il puntillismo atomizzava le figure in singoli punti, il cubismo decompone i contorni in tratti rettilinei e gli interni in tasselli triangolari, che nella geometria euclidea sono rispettivamente determinati da coppie o terne di punti. Si tratta di un duplice processo di approssimazione, di curve mediante segmenti e di superfici mediante triangoli, che ammette illustri precursori matematici. Già i Greci sapevano infatti che un cerchio si può approssimare a piacere con poligoni regolari, e ne La dotta ignoranza (1440) il cardinal Cusano arrivò all'ardita concezione del cerchio come poligono a infiniti lati di lunghezza infinitesima. Quanto alla possibilità di approssimare superfici curve mediante poligoni, l'architettura moderna ci ha assuefatti all'idea mediante le famose cupole geodesiche di Buckminster Fuller, e il pallone da calcio ci ricorda che una sfera non è troppo diversa da una combinazione di dodici pentagoni e venti esagoni. I due esempi convergono nel cosiddetto buckminsterfullerene, un composto superstabile le cui molecole sono appunto costituite da sessanta atomi di carbonio disposti nei vertici dei poligoni che formano il pallone da calcio. Per tornare all'arte, puntillismo e cubismo effettuarono una rivoluzione linguistica della pittura, ma non ne mutarono il soggetto: i dipinti di Cross e di Picasso in esibizione rappresentano ancora i soliti paesaggi e personaggi, sia pure raffigurati con una tecnica diversa. E questo destino accomuna non solo l'arte, ma anche la letteratura, la filosofia, la scienza e la matematica. Anzi, è proprio perché ogni epoca narra spesso le stesse storie, sia pure raccontandole con un suo linguaggio diverso, che noi possiamo continuare a godere anche oggi delle opere del passato. A ricordarci che a volte però le cose cambiano non solo nella forma ma anche nella sostanza, è il dipinto numero 99 al termine della mostra: il Violino e chitarra di Ferdinand Léger (1924). Nonostante il titolo, di violini e chitarra qui non c'è l'ombra. O meglio, rimane soltanto una letterale ombra, cioè un'astrazione: sulla tela non si vedono infatti altro che figure geometriche, ossia le forme astratte degli oggetti concreti. Il quadro di Léger non è certo rappresentativo né dell'artista, né della mostra, e all'interno della collezione dei capolavori dell'Ermitage è forse uno dei meno interessanti. Svolge però il ruolo essenziale di puntatore verso l'esterno, verso quella forma intellettuale e sofisticata dell'arte moderna che è l'astrattismo di gruppi quali il Bauhaus o il De Stijl, e di artisti quali Mondrian o Kandinskij. Siamo qui finalmente approdati a ciò che i Greci chiamavano "idee", e che noi faremmo meglio a tradurre con "forme". La teoria platonica delle idee, sfrondata della metafisica di cui si è ammantata nei secoli, si riduce infatti alla constatazione che la vera essenza di questo imperfetto mondo è la perfetta geometria. E l'arte moderna, nel suo percorso alla ricerca della forma pura ed essenziale, non poteva che approdare alla stessa conclusione e diventare matematica. Scopriamo dunque che le attività del matematico e dell'artista non sono poi così diverse, perché comuni sono gli oggetti delle loro ricerche, e le forme delle loro rappresentazioni: la prossima volta si potrà allora chiedere a un artista di commentare delle formule. Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-70148554459886999602009-11-10T07:04:00.002+01:002009-11-10T07:08:31.994+01:00SCI - L'uso degli sci sembra sia stato il più antico mezzo di locomozione inventato dall'uomo,<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SvkDQiRoUMI/AAAAAAAAD4E/-Qn58rD2svg/s1600-h/47.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 98px; height: 129px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SvkDQiRoUMI/AAAAAAAAD4E/-Qn58rD2svg/s400/47.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5402352810621161666" /></a><br /> <br /><br />> SCI - L'uso degli sci sembra sia stato il più antico mezzo di locomozione inventato dall'uomo, prima ancora della ruota. Un'incisione rupestre all'isola di Rodoy in Norvegia databile nel 3000 a.C. raffigura uomini che hanno ai piedi degli sci. A confermare questa scoperta, in una torbiera di Hoting in Svezia, ne sono stati rinvenuti un paio in ottime condizioni di conservazione databili 2500 a.C.Ma sembra che l'invenzione dello sci e insieme della slitta, affonda nella preistoria e che perfino la prima e originaria colonizzazione dell'America sia avvenuta proprio con gli sci ai piedi. Alcuni grandi esploratori e storici (Luther, Nansen) studiando le origini degli sci, fanno risalire questa invenzione nella zona della Siberia e della Mongolia. Precisamente nella zona degli Altai. Fu qui che si formarono - prima della fine dell'ultima era glaciale - due correnti migratorie: una verso la Manciuria e proseguendo attraverso lo stretto di Bering ghiacciato entrarono nell'Alaska poi in Canadà colonizzando il continente; mentre l'altra dirigendosi a ovest attraverso la Siberia sarebbe pervenuta nei paesi scandinavi sul Baltico. (Non dimentichiamo che si possono percorrere con gli sci ai piedi dai 300 ai 400 chilometri al giorno. Il record é del finlandese Rantenen con 401,28 km. Quello femminile detenuto da Kainulaisen é invece di 330 chilometri. Poi non dimentichiamo l'impresa dello stesso Nansen (direttore del museo di Bergen) che nel 1888 in 39 giorni raggiunse la Groenlandia, la attraversò interamente e raggiunse la baia di Baffin (America). La teoria di Luther e di Nansen è avvalorata dal rinvenimento di questi attrezzi (sci e racchette) nelle tribù athabasca del Canadà che hanno una straordinaria somiglianza a quelle in uso nelle popolazioni arcaiche in Islanda, in Finlandia, in Lapponia ed infine dopo aver fatto mezzo giro del mondo rinvenute proprio nel nord-est asiatico in Manciuria e nella punta estrema della Siberia.Una saga norvegese narra che il paese venne occupato circa 8000 anni fa da un popolo di sciatori venuti dal nord-est. Mentre una cronaca della Cina Manciù, nella regione di Mukden (nello Shen-Yang) narra l'incontro di un gruppo di cacciatori con delle assicelle di legno con la punta ricurva fissate ai piedi con dei lacciuoli, che scivolavano velocissimi sulla neve aiutandosi con due bastoncini. Luther ha pure scoperto nell'arcaico alfabeto cinese un ideogramma che significa e indica un preciso attrezzo: la "tavoletta per scivolare". Veri specialisti degli sci (dato l'ambiente) furono però i Lapponi; circa 2000 anni fa calzavano uno sci lungo e sottile, quasi come quello attuale nel piede destro, mentre nel sinistro ne calzavano un altro più corto con sotto una pelle di foca, usato per appoggiarsi e darsi la spinta. Questo particolare mezzo di locomozione era ancora in uso in Lapponia fino all'inizio del nostro secolo. Una cronaca Norvegese ancora del 1200 narra che in una famosa battaglia (quella di Isen) i soldati calzarono gli sci. Ma é tre secoli dopo che in Svezia inizia la vera leggenda dello sci. Re Gustavo I di Vasa, convinto di aver perso la guerra contro i Danesi fuggì verso la Norvegia, mentre i suoi sudditi ritornati alla riscossa avevano ripreso in mano la situazione nel paese. Due di loro per dargli la bella notizia e farlo tornare indietro, per raggiungerlo percorsero senza mai fermarsi 89 chilometri. (In memoria della leggendaria "galoppata" nel 1923 é stata istituita la famosa Vasa-loppet).Il primo manuale-trattato di sci che si conosca (come si fabbricano e come si usano; insegnandolo perfino con delle illustrazioni) è quello di un vescovo svedese Olaus Magnus, che però rientrando in Italia dai Paesi nordici pubblica il volume a Roma nel 1555. Quel trattato rimase nell'Urbe una bizzarria e nulla più.Una prima mostra di sci lapponi si svolse in una Fiera Commerciale nel 1636 a Worms, ma anche qui molti dei visitatori presero quelle assicelle come una stramberia degli uomini delle nevi, attrezzi adatti ai primitivi del nord. Nelle valli alpine italiane gli sci invece arrivarono con moltissimo ritardo, ma non in una zona molto limitata della Carnia per una singolare circostanza: nella Guerra dei trentanni partecipò un gruppo di soldati scandinavi, che alla pace di Westfalia del 1648 rimasero in Carnia (Cortina e dintorni) trapiantandovi così questo costume che non fece molta presa sui nativi, anche perchè grandi distese di terreno piano innevato come nei paesi nordici non ce ne sono, ci sono valli e montagne; i valligiani indigeni alla prima discesa ruzzolavano, e sappiamo tutti, quanto bisogna insistere senza scoraggiarsi per stare in piedi con gli sci. I montanari rinunciarono subito a imparare pensando che quelli erano "diavoli", già nati con gli sci ai piedi, quindi inutile insistere a volerli imitare. Anche se col tempo i "Cortinesi" diventarono poi dei grandi campioni. Il resto d'Italia dovrà aspettare più di due secoli, e per merito di un altro "diavolo", "el diau". L'ing. Adolf Kind (Coira 1848 - Bernina 1907) Svizzero, di antica origine Walser, arrivò a Torino nel 1890. Vi aprì una fabbrica di lucignoli incurante della diffusione delle lampadine alimentate dalle centrali idroelettriche che Giovanni Giolitti disseminava in tutto il Piemonte.Ma Adolf Kind ci interessa per la sua intraprendenza, non tanto industriale quanto sportiva. Di ritorno da uno dei suoi viaggi, un giorno del 1897, portò infatti con sé dalla Svizzera (qui esistevano artigiani che già firmavano i propri sci) ) un paio di ski di frassino marca JAKOBER , il cui uso Kind illustrò nel salotto di casa agli sbigottiti amici, poi cominciò a portarli a Bardonecchia, e lui che era già partico esibendosi con grande abilità nei pendii insegnò loro i primi rudimenti. Facciamo notare che aveva già 50 anni! Si dice che i montanari che per primi videro quell'uomo scendere leggero dai pendii, skivolando sulla neve, rosso in viso e con una fluente barba bianca, scapparono gridando spaventati: "el diau, el diau". Un buon diavolo però, la cui passione per la montagna fece nascere in breve tempo vari Ski Club in ItaliaDanilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-24990803708790918272009-11-10T06:29:00.006+01:002009-11-10T07:04:41.736+01:00<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SvkCTqNuEhI/AAAAAAAAD38/wWsP3bQsrGg/s1600-h/sca-arco78_s.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 233px; height: 180px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SvkCTqNuEhI/AAAAAAAAD38/wWsP3bQsrGg/s400/sca-arco78_s.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5402351764780225042" /></a><br /> <br />Nell’Europa del secondo dopoguerra, crollata la tirannia nazifascista, l’unico principio è: rinascere. La ricostruzione ed il rilancio economico del vecchio Continente, raso al suolo dai bombardamenti, sono sostenuti dalla cultura, dall’arte, dalla moda, dal design, dalla tecnologia e dalla scienza; questi e altri fattori contribuiscono a formare la nuova mentalità dell’uomo europeo, dei sopravvissuti ancora in crisi di coscienza per il trauma subito. Dopo l’espressionismo astratto americano, l’informale europeo è il nuovo linguaggio artistico in opposizione al realismo più o meno “socialista”. L’informale, nel periodo della ricostruzione, riflette un momento di transizione e di profonda crisi e critica alla civiltà contemporanea, rispondendo anche alle necessità evolutive di una pittura figurativa che ormai ha fatto il suo tempo, puntando sul gesto pittorico, sullo spazio e sui materiali industriali. Nel 1947 dall’America, con gli aiuti finanziari del piano Marshall, arriva il “dripping”(il termine significa “gocciolare” o “sgocciolare”): una tecnica rivoluzionaria caratterizzata dal gesto di lasciare cadere il colore acrilico sulla tela (“action painting”) elaborata da Jackson Pollock (1912-1956), anche se già anticipata dal surrealista Max Ernst e Hans Hoffmann. E’ evidente che la scrittura automatica dei surrealisti, il dripping americano e la pittura informale europea, nomadica e soggettivista, sono accomunati dalla dissoluzione della figura e dalla tensione d’infrangere gli schemi figurativi, geometrici, prospettici delle composizioni tradizionali, enfatizzando l’esplosione segnica, all’insegna di un neo-espressionismo materico-cromatico o spazialista, originale anche per stridenti contrasti cromatici e per le stratificazioni di colore, dagli esiti suggestivi per gli effetti tattili autoreferenziali. Dal 1951, Michel Tapié definisce informale (dal francese “informel”) questo nuovo linguaggio non figurativo, liberatorio, spontaneo e casuale che sviluppa tracce, segni ed esplosioni di colore come espressioni di stadi emotivi, di pulsioni secondo la soggettività dell’autore. La pittura informale non corrisponde a un modello unitario prestabilito, ma segue le potenzialità espressive dell’artista sempre più distaccato dalla realtà, deluso da una civiltà che ha prodotto guerre incomprensibili. In Francia, tra i protagonisti dell’informale più originali, si distingue Jean Fautrier (1898-1964), che già dagli anni Trenta aveva anticipato un linguaggio di tipo - appunto - informale, elaborato con la drammatica serie degli “Otages” (Ostaggi). Si deduce che i suoi ostaggi sono le vittime del nazismo, dipinti tra il 1943-1945: impronte indelebili nella memoria collettiva di uno sterminio di massa avvenuto nel silenzio. Queste opere sono esempi originalissimi di un “materismo” pittorico che ha spianato la strada a informalismi successivi, fino agli aniconici contemporanei. In generale, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i linguaggi informali sostenuti da ideologie anarchiche e individualiste si diffondono rapidamente in Europa come negli Stati Uniti. Tra i primi ad aprire nuove vie espressive è Lucio Fontana (1899-1968), con cinque manifesti “spazialisti”: manifesti teorici in riferimento all’era spaziale che all’epoca sta dischiudendo orizzonti ermeneutici rivoluzionari. A Milano Fontana fonda il “movimento spaziale”, unendo i percorsi di scienza e di arte e sviluppando un linguaggio gestuale e sperimentale basato su una spazialità tridimensionale riformulata in termini fisici. Da questi ed altri fatti si evince che nel dopoguerra è molto difficile parlare di gruppi unitari riconoscibili; anche la pratica del manifesto è sostituita dalle riviste fondate da intellettuali e artisti sperimentali. Con lo sbarco degli alleati nella vecchia Europa, si affermano nuovi modelli di vita e linguaggi rivoluzionari, che si consolideranno negli anni Sessanta (pop art e arte concettuale). Tornando all’informale europeo, si ricordano per originalità Wols, Soulanges, Mathieu, De Stael, Hartung, Jorn, Appel, Burri, Vedova, Crippa, Dova, Peverelli, Borlotti, Birolli, Chighine, Leoncillo: ognuno di loro presenta diversi codici e morfologie visive differenziate da immaginari e linguaggi sensibili ed evocativi, mai accademici. Alcuni artisti “informali” si rivelano più gestuali o materici, più vicini a Pollock o Sam Francis, mentre altri seguono una via più lirica ed emozionale, basata su tracce di figurazioni non definite, come per esempio fanno i sostenitori dell’“art brut”, teorizzata da Jean Dubuffet. In questo clima post-atomico di prevaricazione di segni, gesti, colature e macchie di colore, alla ricerca di nuova espressività, fioriscono diverse tendenze informali che si realizzano anche nella contrapposizione di materiali. In Giappone, grazie all’attività degli artisti Gutai, si sviluppano linguaggi originalissimi che puntano sul gesto e sul colore e danno il via a performance innovative, anticipando gli happening degli anni Sessanta. A Parigi, dal 1948 nasce dalle file del surrealismo olandese, danese e belga il movimento COBRA (da COpenaghen, BRuxelles, Amsterdam), caratterizzato da un linguaggio sperimentale e dall’atteggiamento nomadico degli artisti, sempre in movimento da una città all’altra d’Europa, più vicini alla tradizioni popolari, etniche, primitive e in contrapposizione ai linguaggi astrattisti, geometrici o formalisti, e con molti punti in comune all’art brut. Le ricerche del gruppo si esauriscono nel 1951, ma resta il loro linguaggio caratterizzato da una pittura con pennellate incisive, violente, spesse, contro la tecnologia e il progresso. Negli anni Sessanta la poetica gestuale ed emotiva dell’informale entra in crisi, anche se oggi l’aniconismo, o la non figurazione, che dir si voglia, continua ad essere praticato da molti artisti che esordirono negli anni Cinquanta e da altri più giovani, senza alcun riferimento al movimento storico descritto in questo articolo. Nel presente gli aniconici propongono linguaggi puramente emozionali; sono di cultura internazionale e seguono vie autonome, liriche e soggettive. E’ il caso ad esempio di Iachetti, Raciti, Olivieri, Monrad, Pierfranceschi, Coda Zabetta, Frangi, Spampinato, Spadari, fino al gruppo “Alterazioni Video”: sette giovanissimi artisti che utilizzando la tecnologia traducono i suoni e i fotoni della luce in esplosioni e vibrazioni cromatiche suggestive, oniriche e destabilizzanti allo stesso tempo. Autore: Jacqueline CeresoliDanilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-28320444574773556732009-09-08T18:50:00.003+02:002009-09-08T19:02:58.470+02:00INCONSCIO: Considerazioni di Sigmund Freud<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SqaOIkCxy1I/AAAAAAAAD30/7y3_3sjCDA8/s1600-h/inconscio.gif"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 315px; height: 367px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SqaOIkCxy1I/AAAAAAAAD30/7y3_3sjCDA8/s400/inconscio.gif" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5379143082706062162" /></a> A CURA DI DANILO PICCHIOTTI<br />Con il termine inconscio Freud intendeva un complesso di processi, contenuti ed impulsi che non affiorano alla coscienza del soggetto e non sono quindi controllabili razionalmente. Egli riferì il termine dapprima ad una parte della mente in cui si trovano i contenuti psichici rimossi, per poi passare ad indicare i contenuti stessi che possono riaffiorare nei sogni in forma simbolica, o manifestarsi come atti mancati, come i lapsus e le distrazioni. In sintesi nella nostra psiche esiste una dimensione incoscia e irrazionale, in cui si annidano una serie di istinti e desideri il cui contenuto non si manifesta a livello cosciente, ma la cui soddisfazione è necessaria, pena il manifestarsi di disturbi del comportamento più o meno gravi. Il fatto che ritenesse i contenuti inconsci per lo più di natura sessuale va collegato alla morale dell'epoca e delle precedenti, e particolarmente alla repressione della sessualità, essendo oggi dimostrata la validità dell'intuizione generale: l'inconscio è sede di ogni processo psichico che debba restare inaccessibile al pensiero cosciente e comprende una parte di quelli attinenti alla sfera sessuale.<br />L'interiorità umana, quella che tradizionalmente era definita anima o psiche ed era ritenuta indistintamente la sede della razionalità, della volontà e delle emozioni, venne perciò indagata come un complesso di luoghi diversi, ciascuno dotato di una sua forza e di una sua autonomia. Era così possibile conoscere particolari aspetti della personalità soltanto percorrendo vie molto tortuose. Poteva essere quindi necessario analizzare i sogni dei pazienti o le loro manifestazioni di ansia, oppure prestare attenzione ad alcuni gesti quotidiani, od a espressioni e modi di dire apparentemente insignificanti. L'inconscio in sostanza era una ragione, che trascendeva quella dell'Io, e che comunicava attraverso le sintomatologie la verità non consapevole. L'ottimismo terapeutico di Sigmund Freud fece dell'inconscio un luogo dotato di senso, che richiedeva un'ermeneutica, una capacità interpretativa specifica.<br />Più avanti, Sigmund Freud nell'illustrare il nuovo statuto dell'Io, introdusse la nuova istanza dell'Es, che descrisse riportando le parole di Georg Groddeck come "la forza ignota e incontrollabile da cui veniamo vissuti". Al di là della collocazione topica delle nuove istanze, il padre della psicoanalisi invitò a non considerarle quali entità separate, mettendo in guardia dal sostanzializzarle. Su queste considerazioni psicoanalisti post-freudiani si basarono per ipotizzare la possibilità di un'ereditarietà stessa dell'Es. Benché Sigmund Freud non abbia potuto scrivere nulla di assoluto in merito, è bene comunque ricordare che nelle frammentarie annotazioni che questi prese nell'estate del ’38, quindi poco prima di morire, contenute sulle due facciate di un foglio considerato il suo testamento programmatico, scrisse di possibili mutamenti sull'ipotetica vestigia ereditaria dell'inconscio, e ciò indicherebbe la mancanza di uno statuto d'attinenza definitiva della psicoanalisi.<br />Freud riteneva che il sogno fosse una manifestazione psichica, onirica, mirata alla realizzazione di un desiderio pulsionale non realizzato nella realtà, che attingeva i propri contenuti latenti dall'inconscio. I lapsus, le forme d'amnesia momentanea ed i falsi ricordi non sono casuali. Con la "strutturazione" Sigmund Freud ci indica che la psiche è strutturata in: Io - Es - Super-io. L'Es rappresenta l'istinto, la pulsione, completamente mutuate dall'inconscio. Il Super-Io è il "precipitato" degli insegnamenti morali, sociali ed educativi, ed esita tra contenuti consci e inconsci. L'Io è il mediatore tra l'Es ed il Superio (tra istanze pulsionali e morali). <br /> Inconscio collettivo.<br />Carl Gustav Jung ha fortemente contribuito a fare chiarezza sul concetto e sulle definizioni del termine inconscio. Nei suoi studi ha distinto l'inconscio personale dall'inconscio collettivo. Con questo termine egli indica l'insieme dei contenuti psichici universali preesistenti all'individuo e legati al complessivo patrimonio della civiltà, e, propriamente, gli archetipi.<br />L'inconscio collettivo, secondo lo psicologo svizzero, si manifesta attraverso archetipi che trovano il loro riferimento nel patrimonio storico-culturale di un vasto gruppo o dell'intera umanità e si presentano nei simboli onirici e nelle allucinazioni, ma anche nelle visioni dei mistici, nei riti religiosi e nelle opere d'arte. La scoperta dell'inconscio e le elaborazioni della psicoanalisi hanno avuto, dopo una prima forte resistenza, un grande impatto sulla nostra civiltà: non a caso il sostantivo inconscio è diventato parte del vocabolario comune, superando i limiti della terminologia tecnica della medicina. Non possono essere poi dimenticate le intuizioni pre-psicoanalitiche di Friedrich Nietzsche che, in seguito, avrebbero destato un certo interesse in ambienti psicoanalitici e che ebbero notevole influenza, in particolare, sul pensiero di Jung. Nietzsche riconosce nelle norme morali una funzione di censura degli impulsi e degli istinti vitali dell’uomo, di cui inibiscono la libera espressione. Chiama questa funzione inibitrice, con suggestiva espressione: “Spirito di gravità”. In tal modo – secondo il filosofo tedesco – l’uomo diviene inconsapevole di ciò che realmente è e gli viene preclusa una piena integrazione della personalità. In molti passi della più celebre opera nietzschiana “Così parlò Zarathustra” vi è un chiaro riferimento a forze inconsce che nell’uomo reclamano espressione: “Tutto ciò che uno possiede è per lui che lo possiede ben nascosto: e di tutte le miniere preziose la propria è l’ultima ad essere scavata – ed è opera dello spirito di gravità. Siamo ancora nella culla e già ci danno parole e valori pesanti: «bene» e «male» - così si chiama questo viatico”. “Soprattutto l’uomo forte, paziente, che ha in sé reverenza: troppe parole e valori estranei carica su di sé – così la vita gli appare un deserto!” “Molta bontà e forza nascoste non vengono scorte; i più saporiti bocconi non trovano buongustai!” (“Così parlò Zarathustra”,Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-68937043181309307092009-09-08T18:39:00.003+02:002009-09-08T18:50:03.151+02:00Arte: ARTE E PSICOANALISI-IL SURREALISMO<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SqaK8QYL4uI/AAAAAAAAD3s/itd3th-mf9Q/s1600-h/images.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 91px; height: 124px;" src="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SqaK8QYL4uI/AAAAAAAAD3s/itd3th-mf9Q/s400/images.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5379139572733829858" /></a> A CURA DI DANILO PICCHIOTTI<br /><br />Dopo il 1920, cioè dopo la prima guerra mondiale, in Europa, si manifestò, in concomitanza con la diffusione della psicoanalisi di Freud, un movimento artistico che si chiamò SURREALISMO, da sur-realtà, realtà ‘altra’, sovrastante o sottostante, ma comunque a un livello diverso rispetto alla coscienza. <br />Freud e Jung avevano ipotizzato una nuova categoria cognitiva: l’inconscio, ovvero la parte ignota di ognuno, il luogo misterioso della psiche che preordina e suscita il comportamento non cosciente, la realtà non immediatamente visibile o livello più profondo dell’essere.<br /><br />Partendo dalle associazioni automatiche che Freud aveva usato in analisi per interpretare i sogni, si cercò di liberare l’inconscio attraverso l’automatismo nell’arte. I surrealisti tentavano di contattare l’inconscio e di farlo esprimere direttamente, senza l’intermediazione delle categorie culturali, estetiche, sociali, morali convenzionali. Si voleva che l’inconscio si rendesse visibile realizzando la sua trascrizione immediata. Così si alterarono i canoni stessi della produzione artistica o le sue condizioni, componendo o dipingendo ciò che era emerso nel sogno o ciò che poteva affiorare in stato ipnotico, automatico, di trance o comunque in stato alterato di coscienza, escludendo qualunque forma logica, grammaticale, metrica o procedurale consueta, ma anzi forzando il mezzo stesso con procedimenti casuali e innovativi e con l’accettazione di contenuti nuovi e rivoluzionari.<br />L’inconscio doveva parlare direttamente col suo linguaggio, il suo codice simbolico, le sue associazioni, le analogie, le correlazioni… Sul tavolo della visione potevano stare insieme, come diceva Comte de Lautreamont, come su un tavolo operatorio, una macchina da cucire e un ombrello.<br />Gli interni metafisici di de Chirico precedettero il surrealismo senza farne parte ma contribuendo alla sua atmosfera sognante.<br />L’inconscio è, per eccellenza, la sorgente delle visione, in obbedienza a un principio non di realtà, cioè asservito alla logica consueta, ma di surrealtà, cioè volto all’evocazione di un significato ‘altro’. Il significato è l’allargamento del quadro della realtà ordinaria attraverso lo spaesamento che spezza le barriere claustrofobiche dell'io.<br />L’inconscio è l’altro linguaggio, l’altra realtà, dove questo mondo contingente e visibile si deforma o si congiunge in modi estranianti o anche vale solo in quanto simbolo. La realtà visibile diventa indicatore di una realtà invisibile. Vivo qui, ma sono altrove. Mi esprimo a questo livello ma attraverso me parla un altro livello.<br />Più tardi, con l’astrattismo e l’arte informale, la figurazione sarà totalmente abbandonata per il colore puro o il segno non più portatore di oggettualità ma di energia, allora i guizzi primari del dinamismo esploderanno come i colori di Mirò o l’astrattismo di Kandinskij ed ecco che inconscio, psicoanalisi e surrealismo detteranno l’evoluzione dell’arte moderna. Ma di per sé il surrealismo non è espressionista, né astratto né informale, parte ancora dalle figure riconoscibili della realtà visibile, ma estraniandole in un diverso contesto, deformandole o usandole in modo simbolico.<br />Dall’inconscio si trae uno dei suoi prodotti primari: il sogno. Molti quadri o poesie sono composti come tracce di sogno o come si facessero sognando. La mente umana ha questa capacità di agire l’emisfero destro o dell’intuizione, come se dormisse da sveglia. E’ lo stesso modo di attivare la magia o il paranormale.<br />Ogni artista sognò a suo modo: Chagall usò potentemente un simbolismo onirico sacro; Magritte accostamenti giocosi, ludici; Ernst incubi distorsivi. Ma tutti pescarono contenuti e forme dal sogno.<br />Un altro punto di connessione fra gli artisti fu il marxismo. Quasi tutti i surrealisti vi aderirono. L’obiettivo politico era simile a quello artistico: cambiare la coscienza (psicoanalisi) e cambiare la società (lotta politica), per questo molti surrealisti si iscrissero alla Terza Internazionale Socialista e per questo la loro rivista fu titolata ‘Il surrealismo al servizio della rivoluzione’. In ambedue i casi (politica o arte) il loro lavoro era contro la società borghese che controllava le leve del potere economico, politico e culturale (non Dali’ che fu un reazionario).<br />L’inconscio è la struttura base della psiche, così come l’economia è la struttura base della società. Freud rompeva i tabù della morale vittoriana e faceva risorgere l’io dai suoi condizionamenti, portando alla luce i contenuti rimossi, così come Marx rompeva i tabù della società borghese e portava avanti la lotta della classi represse. Il periodo storico era quello della rivoluzione marxista, della riappropriazione del proprio potenziale, di classe come della psiche. Surrealisti e marxisti erano spinti dallo stesso anelito di liberazione da sovrastrutture alienanti.<br />Ovviamente all’interno del movimento artistico si distinsero componenti più ideologizzate e altre, come Eluard, più morbide. Potremmo anche dire che arte e ideologia non si legano bene. Ogni volta che l’ideologia ha prevalso sull’arte, come nell’estetica sovietica, nazista o fascista, i risultati sono stati deprimenti.<br />L’arte è per antonomasia libertà; l’ideologia è, per sua natura, conformazione.<br />Ma anche guardando al riferimento psicoanalitico, è chiaro che la preferenza per Freud o per Jung dette luogo a estetiche diverse. Non ha importanza che l’artista li conosca o no, è il modo con cui si riferisce al proprio inconscio che crea mondi diversi. Non a caso il programmatico e lineare Freud è sempre piaciuto ai razionalisti, siano essi marxisti o positivisti in genere; in questo caso si parla si sogno, di inconscio, di associazioni automatiche e di simbolo con accezioni molto ristrette e quasi meccaniche. Chi invece vive le complessità oniriche e coscienziali al modo di Jung (sia che conosca o meno lo psichiatra svizzero), vive il proprio inconscio e lo manifesta con una ricchezza di simboli e di tonalità molto diversa. E’ proprio una questione di prevalenza dell’uno o dell’altro emisfero cerebrale a creare una differenza di vissuto e di interpretazione.<br />Freud è materialista, Jung spiritualista. Quindi dove c’è materialismo troviamo Freud; dove c’è spiritualismo troviamo Jung. Non sono comparabili, come non sono comparabili i termini ‘inconscio’, ‘sogno’, ‘simbolo’ ecc. nelle loro accezioni. Per esempio un poeta come Eluard può anche dichiararsi marxista ma la sua sensibilità di tipo emozionale, sentimentale, femminile lo porta più verso Jung. Tuttavia anche per il dolce Eluard l’estetica surrealista rientrava nell’attacco alla ipocrisia borghese, perché ciò stava nel DNA della gioventù del tempo.<br />Ma Eluard era un sentimentale e dunque visse la rivoluzione come visse l’amore, con sentimento.<br />Ricordiamo anche che in questo periodo gli artisti europei cominciano a interessarsi delle creazioni dei bambini, dei malati di mente, dei primitivi, tutti più vicini all’inconscio dell’uomo civilizzato, dunque capaci di manifestarlo con maggiore immediatezza, senza le sovrastrutture alienanti della civilizzazione. Masson, per esempio, produsse dipinti sulla sabbia, dopo aver visto l’arte degli Indiani d’America e tentò di evocare i poteri magici delle ruote di medicina. I primitivi affascinarono Picasso come molti altri per l’elemento magico e la valenze misteriche dei loro prodotti artistici. <br />L’oggetto prevalente nei surrealisti fu il sogno. Il sogno non promana dall’emisfero razionale ma ha un proprio linguaggio evocativo che non è logico ma analogico, svincolato dalla normale concatenazione degli eventi o degli oggetti e tale da escludere anche le costrizioni lineari del tempo o le univocità dello spazio. Il sogno usa ampiamente il simbolo e la metafora. E’ un linguaggio visionario, nel doppio significato di parlare per immagini e di varcare le coordinate ordinarie della realtà.<br />Proprio perché è un linguaggio visionario e analogico, lega gli elementi della realtà così da trascenderla e fare di essi solo degli indicatori di qualcosa che sta oltre.<br />Il teorico del surrealismo fu nel ’21 lo scrittore André Breton, che produsse il Manifesto, partendo dalla ‘Interpretazione dei sogni’ di Freud. Breton parla di “automatismo psichico puro!”, che libera la mente dai freni inibitori e lascia vagare le immagini. Così facendo, si può sognare da svegli. Ma il surrealismo diventa l’equivalente, in arte, delle visualizzazioni junghiane più che delle meccaniche interpretazioni freudiane.<br />Fecero parte del movimento Marx Ernst, Juan Mirò, René Magritte, Salvator Dalì…<br />Invece De Chirico coi suoi interni metafisici, che può essere considerato una delle fonti, non ne fu protagonista. La poetica surrealista coinvolse inoltre Picasso e Klee. Il gruppo non fu affatto omogeneo né per personalità o stili o metodi. <br />Si inventarono tecniche: collage; frottage (Ernst), che consiste nello strofinare una matita su un foglio sovrapposto a una superficie ruvida, ottenendo impronte casuali; grattage in cui si raschiano i pigmenti dalla tela ottenendo linee intricate; decalcomania che consente di trasportare un disegno da un foglio opportunamente trattato su una superficie di vetro o metallo (Oskar Domiguez); pittura automatica (Masson, Mirò, Tanguy); quadri di sabbia (Masson); rayografia (Man Ray), applicando sul materiale fotosensibile in camera oscura delle mascherature opache o translucide, addirittura a volte degli oggetti, ottenendo immagini negative, senza l'ausilio della fotocamera; fumage (Wolfgang Paalen); fotomontaggi; doppia immagine, per cui disegnando un oggetto ne esce uno diverso; composizione tipografica ecc.. Hans Arp per esempio produce collage di spaghi cuciti, carte strappate, legni affastellati ecc.<br />Il surrealismo aprì all’astrattismo ma non fu astratto, conservò le forme, le figure, come il sogno conserva gli elementi figurativi della realtà, estrapolandole, facendole uscire dal contesto, combinandole in modi estranianti, per cui un oggetto poteva subire una metamorfosi, come la donna-albero di Delvaux o il corpo-paesaggio di Magritte. La metamorfosi squilibrava il senso usuale dell’oggetto trasponendolo nel simbolo attraverso l’evocazione di un altro senso, un altro ordine.<br />Il surrealismo annovera artisti molto diversi. Volendo, possiamo distinguere chi crea accostamenti inusuali come Magritte con effetto di non sense, o chi deforma gli oggetti come Ernst con le sue figure incubo o Tanguy con i suoi esserini lunari o Masson con le sue tele metamorfiche. Le parole o le immagini potevano avvicinarsi o sostituirsi per legge associativa (Freud) o simbolica (Jung); per esempio l’uso che dei simboli fa Chagall è prettamente junghiano: il viso delle persone amate è dipinto col verde che rappresenta il cuore saggio, il violinista sul tetto è l’arte vicina al cielo, le corna di toro sono l’elemento istintuale legato alla terra, il blu è l’amore spirituale ecc. Magritte crea accostamenti scherzosi per mettere il scacco la mente razionale; Dalì immagini rutilanti; Ernst incubi patologici… Tutte le forme del sogno sono attraversate, da quello bizzarro a quello giocoso, all’angosciato, all’infernale…<br />I surrealisti rifiutano l’arte per l’arte, intendono l’arte come espressione dell’inconscio. Per questo le loro vie risultano produttive in psicoanalisi, nei laboratori psicologici che nascono da Jung in poi e usano forme espressive in cui non si dà alcuna valutazione estetica all’opera o alcun controllo logico o formale o morale o di altro tipo convenzionale, ma solo si ascolta e si guarda e si partecipa. Lo scopo è manifestare gli stati psichici e, attraverso l’arte, liberarli e sanarli. Da un articolo di viviana vivarelliDanilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-49783272627485717632009-08-05T05:24:00.005+02:002009-08-05T05:34:27.545+02:00"HERMANN HESSE" BIOGRAFIA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/Snj9izuIEgI/AAAAAAAAD3k/T2YzurWk3bs/s1600-h/images-1.jpeg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 108px; height: 106px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/Snj9izuIEgI/AAAAAAAAD3k/T2YzurWk3bs/s400/images-1.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5366317730453000706" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI <br />La vita e l'opera di Hermann Hesse sono segnate sin dagli inizi dal contrasto fra tradizione famigliare e influenze dell'ambiente esterno. "Il 2 luglio 1877, un lunedì, al termine di una difficile giornata" annota la madre sul proprio diario "Dio nella sua grazia ci ha donato il bambino ardentemente desiderato, il nostro Hermann, bello e possente, che subito dopo il parto aveva fame e volgeva gli occhi chiari e azzurri e la testa verso la luce; un esemplare di bambino sano e robusto" (A.G., p. 195). La madre, Maria Gundert Hesse, vedova Isenberg, era nata nel 1842 a Talatscheri (India anteriore). Aveva trascorso l'infanzia in India. Aveva frequentato quindi l'istituto femminile a Korntal, dove i suoi interessi letterari non erano stati assecondati, al punto che in seguito, nonostante la sua abilità stilistica e la sua ricca fantasia, essi trovarono espressione soltanto in liriche d'ispirazione cristiana sul modello dei canti liturgici, trascritte sui diari di viaggio o contenute nelle lettere ad amici e persone vicine.<br />Curò per i lettori tedeschi la biografia in inglese di C.E. Dawson (1881), e così pure David Livingstone. L'amico dell'Africa (seconda edizione 1899). Dopo un anno di lavoro come donna di servizio a Corcelles, dove aveva imparato anche il francese (conosceva altre cinque lingue), la piccola Maria Gundert ritorna in India e fa esperienza, grazie alla confidenza con il missionario Hebich, di un cambiamento radicale avvenuto nella propria esistenza: decide di "dedicarsi, d'ora in avanti, alla realizzazione del regno di Dio sulla terra". A questa scelta è legato anche il matrimonio. Nel 1865 sposa il missionario Charles Isenberg (1840-70), originario di Londra, con il quale lavora presso la missione di Heiderebad. Deve però tornare improvvisamente in Europa, dove Isenberg muore. Da questo matrimonio nascono i due fratellastri di Hermann Hesse: Theodor e Karl Isenberg.<br />Quattro anni dopo la morte del primo marito Maria Gundert sposa Johannes Hesse, il padre di Hermann. Lo aveva conosciuto nella propria casa paterna a Calw, città natale di Hermann Hesse, il secondogenito di questo matrimonio. Johannes Hesse, un individuo erudito dalla personalità spiritualmente ricca, dall'aspetto ascetico e dal corrispondente stile di vita, era nato nel 1847 a Weissenstein (Estonia), quinto figlio del medico Carl Hermann Hesse e di Jenny Lass. Nel 1865 Johannes Hesse aveva inoltrato domanda per l'inserimento nell'istituzione missionaria di Basilea, poiché aspirava a una "comunità corporativa" nella quale "si stemperasse quella consapevolezza del proprio sé", che proprio il figlio cercò invece costantemente di perseguire. Dopo aver conseguito gli ordini a Heilbronn, Johannes Hesse si recò nel 1869 in India, diventò insegnante di lingua presso il seminario di Mangalore e si applicò allo studio della lingua canarese. Per ragioni di salute è costretto a rientrare in Europa e dal 1873, come aiutante del suocero, è responsabile all'interno della casa editrice per la conduzione della rivista missionaria. Dal 1881 al 1886 espletò l'incarico di insegnante di storia dell'evangelizzazione presso la scuola missionaria a Basilea, dove il giovane Hermann insieme al fratello e a due sorelle (due neonati erano morti immediatamente dopo il parto) trascorse l'infanzia. La famiglia ritorna quindi definitivamente a Calw. Qui il padre svolge la sua complessa attività missionaria e pubblicistica e dirige, dal 1893 al 1905, come successore di Hermann Gundert, la casa editrice. Morì nel 1916 a Korntal, la moglie nel 1902 a Calw.<br />Il figlio Hermann porta i nomi di entrambi i nonni. Pur non avendo conosciuto personalmente il nonno paterno (1802-96) cercò tuttavia di risvegliare i legami di sangue con l'Est (l'Estonia apparteneva dal 1721 alla Russia) attraverso un interesse coltivato nel corso della sua esistenza per la politica e la letteratura di quel paese. Carl Hermann Hesse, in qualità di medico dello stato russo, rimase da parte sua indifferente al pensiero positivistico-materialistico dominante a quel tempo. Organizzò regolarmente nella propria casa letture bibliche, nel 1833 fondò un orfanotrofio ed esercitò la propria attività fedelmente fino alla morte, rivelando un'etica professionale oggi difficilmente riscontrabile fra i medici. Con Hermann Gundert, il nonno materno (1814-93), il giovane Hesse ebbe probabilmente a Calw contatti più assidui. Era nato a Stoccarda e aveva frequentato il seminario di Maulbronn. Fornito di un talento poliedrico scrisse drammi (fra cui Pietro il Grande) e poesie, studiò teologia a Tubinga come seguace di David Friedrich Strauss conseguendo la laurea in filosofia. In seguito si allontanò radicalmente dal maestro, la cui opera fondamentale, Vita di Gesù, criticamente considerata, era apparsa nel 1835, e si oppose con numerose pubblicazioni e articoli nella sua rivista "Il foglio missionario cristiano" alle tendenze razionalistiche della teologia contemporanea. Tuttavia, indipendentemente dal nipote poeta, egli si fece un nome grazie al lavoro missionario svolto in India, nonché come linguista, studioso di sanscrito, indologo, lessicografo e traduttore.<br />Conosceva il tedesco, l'inglese, il francese e l'italiano e predicava correntemente in hindustàni, malese e bengàli. Allo stesso modo conosceva kannada, telugu e tàmil e disponeva di conoscenze relative a una dozzina di lingue e dialetti. "Egli non solo parlava sanscrito insieme ai bramini indiani" scrive Hesse nel 1960 al cugino Wilhelm Gundert, rinomato studioso della lingua giapponese, "ma conseguì anche un'intima e innamorata confidenza con il mondo variegato delle lingue indogermaniche, che gli si rivelò non solo nella grammatica e nel vocabolario ma anche nella sua pelle, nella sua attrattiva, nella sua musicalità" (B IV, p. 384). Fra le opere principali di Hermann Gundert sono da citare la grammatica malese e il dizionario indiano-inglese-malese, che apparve dopo venticinque anni di lavoro nel 1872 e che è rimasto un'opera fondamentale sino a oggi. Mentre in India, e in particolare a Kerala, già da tempo era conosciuto per il suo talento, in Germania soltanto oggi si acquista coscienza dell'importanza di questo linguista, indipendentemente dal suo legame di parentela con Hermann Hesse. Grazie a un paziente lavoro l'indologo e teologo Albrecht Frenz ha esemplarmente curato gli scritti postumi di Hermann Gundert: il Diario di Malabar 1837-59, scritti e resoconti da Malabar e il Diario di Calw 1859-93, pubblicandoli fra il 1983 e il 1986 presso l'editore Steinkopf di Stoccarda.<br />Questi scritti offrono, agli esperti come ai profani, uno sguardo d'insieme sulla vita e sul metodo di lavoro di questa personalità del diciannovesimo secolo, che varcò confini di nazioni e religioni. Hermann Gundert, nonostante la sua rigida devozione e il suo senso dell'obbedienza e dell'autorità, era uomo sensibile e di spirito, disposizioni che in lui si accompagnavano a una geniale vivacità giovanile e a una giocosa fantasia, a un profondo amore per la musica e a un umorismo creativo - caratteristiche, queste, ereditate in forma lievemente diversa anche da Hermann Hesse. Julie Dubois Gundert (1809-85), la nonna materna, nacque da una famiglia di viticoltori nei pressi di Neuchâtel. Con lei entrò nella famiglia un elemento svizzero-francese, che in Hesse si manifestò nella sua attrazione verso l'Europa occidentale e nell'interesse per la lingua e la letteratura francese, che si rifletté nel suo carteggio amichevole con Romain Rolland e André Gide. Julie Gundert era una rigida calvinista, anche lei impegnata in India come missionaria, dove periodicamente si occupava dell'"Istituto femminile" fondato dal marito. Fondamento esistenziale per i genitori e, prima di loro, per i nonni di Hesse era, quindi, il cristianesimo protestante di matrice pietista. L'educazione dei figli nell'osservanza di quei principi era, soprattutto allora, un'impresa ardua ma del tutto legittima. Tale educazione venne impartita anche alle due sorelle di Hesse, Adele la maggiore (1875-1949) e Marulla la più giovane (1880-1953), le quali conseguirono quell'atteggiamento religioso, cui si affidarono nel corso dell'intera esistenza, che è oggi spesso assente nell'ambito di rapporti famigliari più tranquilli.<br />Falliti i tentativi di intraprendere una carriera artistica, anche i suoi fratellastri si adattarono, il più anziano Karl come farmacista e il più giovane Theodor come filologo, a una normale esistenza borghese. Soltanto Hans (1882-1935), il fratello più giovane di Hesse, che per decisione famigliare aveva intrapreso l'attività di commerciante - in contrasto con la sua disposizione artistica e malgrado la grande comprensione dimostratagli dalla famiglia - non riuscì ad affermarsi pienamente nella vita. Anche la sua appartenenza attiva alla comunità cristiana, per lui soprattutto fonte di sicurezza, non poté trattenerlo dal suicidio. Il fratello Hermann rischiò più volte di soccombere al medesimo destino. Il fatto che Hesse sia riuscito, nonostante i ripetuti conflitti interiori e in contrasto con le decisioni famigliari, ad assecondare la propria volontà, non può essere spiegato soltanto con la caparbietà e la forte consapevolezza della propria missione. Già tredicenne "una cosa gli era chiara": diventare "poeta oppure niente". La sua disobbedienza verso la tradizione famigliare appare piuttosto profondamente legata alla conseguente rottura con le norme proprie di un secolo che sta volgendo alla sua fine, un salto verso il nuovo. Le parole di Arthur Rimbaud, secondo cui il poeta "dà voce all'ignoto", nella misura in cui "esso dà segni di sé nello spirito del proprio tempo", possono ben esprimere ciò che rappresentò Hermann Hesse, l'uomo e il poeta, il quale tuttavia si distingue dai suoi contemporanei rispetto a lui più radicali e più conservatori.<br />Hesse appartiene alla generazione di Thomas Mann, Rilke e Hofmannsthal. Alla sua nascita, si intrecciano all'interno della storia letteraria europea e tedesca differenti correnti letterarie. Con la morte di Eduard Mörike (1875) ebbe termine l'epoca tardoromantica, particolarmente vivace sul piano letterario grazie al circolo dei poeti svevi. Erano ancora in vita tuttavia Theodor Storm e lo svizzero Gottfried Keller, entrambi esponenti del "realismo romantico". Le Novelle zurighesi di Keller apparvero nell'anno in cui nacque Hesse, come la novella di Storm Il curatore Carsten e L'assomoir di Emile Zola, romanzo cui si deve la fama dell'autore come "naturalista" e la successiva influenza esercitata nell'ambito della letteratura europea. Nel 1877 fu pubblicato anche Le colonne della società di Henrik Ibsen, un dramma che cercava di svelare la fragile morale e le menzogne della società di allora. Dostoevskij viveva ancora. Il suo romanzo I fratelli Karamazov, che Hesse rilesse più volte nel corso degli anni successivi, apparve (in versione non definitiva) nel 1880. Si è voluto vedere in Dostoevskij un precursore della psicanalisi. Indubbiamente Hesse, al pari di altri importanti letterati, subì insieme al fascino per l'opera del grande romanziere russo l'influenza del pensiero di Freud, che interpretava la "bugia vitale" (Lebenslüge) di Ibsen come "rimozione" (Verdrängung). Inoltre Hesse era particolarmente predisposto all'introspezione e all'autoanalisi in ragione dell'educazione pietista ricevuta.<br />Altrettanto importanti, per quanto concerne la formazione filosofica e di filosofia della storia di Hesse, furono il pensiero di Jacob Burckhardt (1818-97) e di Friedrich Nietzsche (1844-1900): in misura maggiore forse quello di Nietzsche, il quale nelle sue Considerazioni inattuali aveva condannato la vittoria della Prussia nella guerra franco-tedesca del 1870-71, definendola "un'estirpazione dello spirito tedesco a favore del regno tedesco", contrapponendosi all'opinione pubblica dominante del tempo; come fece più tardi Hesse che, durante la Prima guerra mondiale, biasimò la mentalità nazionalistica dei suoi compatrioti. Considerare una vittoria come sconfitta e al contrario i periodi di profonda umiliazione come preparatori a un rinnovamento spirituale: questo pensiero dialettico, provenga esso dalla scuola di Platone, Hegel o Marx, dei saggi cinesi o dei pensatori religiosi indiani, attraversa come filo conduttore tutti gli scritti di Hesse, nella misura in cui egli non si prefigge solo di indicare posizioni fra loro inconciliabili, ma di considerarle come diversi aspetti di un medesimo fenomeno da portare a una sintesi. Della crescente espansione delle attività economiche, successiva alla costituzione del regno tedesco, non si parlava nella famiglia Hesse, fondamentalmente impegnata nella difesa e protezione dei valori religiosi e spirituali più che di quelli materiali. Anche in merito al rapido progresso nel campo delle scienze naturali e della tecnica, verificatosi in particolare nell'ultimo ventennio di fine secolo, Hesse si espresse, allora e più tardi, in termini piuttosto scettici, senza tuttavia condannarlo esplicitamente. (Che la condanna ci sia stata, seppur indiretta, è ciò su cui ci soffermeremo in seguito).<br />Pur cercando di favorire sul piano culturale e sociale la composizione dei conflitti, non considerava invece in modo favorevole - in questo, fu un tipico tedesco del sud - l'unificazione del regno tedesco sotto l'egemonia della Prussia. Non provò simpatia nei confronti di Bismarck e dell'imperatore e, intenzionalmente, non si recò mai a Berlino. Il Württemberg sotto Carlo I (1864-91) aveva combattuto nel 1866 contro i prussiani ed era entrato "volontariamente costretto" nel Reich. Circa vent'anni prima della nascita di Hesse la città di Calw contava 1483 abitanti, 1436 dei quali protestanti e 47 cattolici. La sua favorevole posizione geografica nella valle del fiume Nagold ai piedi di un "susseguirsi di colline di rara bellezza" della Foresta Nera, unitamente alla sua storia ricca di tradizioni e all'originalità degli abitanti, sono temi che ricorrono nelle poesie di Hesse. Fondata da una fra le più antiche famiglie nobili del ducato di Svevia nel dodicesimo secolo, Calw aveva già nella metà del tredicesimo un suo sistema giuridico ed era passata nel 1308 sotto la signoria dei conti di Württemberg. Le afflizioni causate dalla peste, i saccheggi e le distruzioni provocati dalle truppe imperiali nel corso della Guerra dei Trent'anni, fecero comporre a Johann Valentin Andreä (1586-1654) l'Elegia sulla città di Calw miseramente decaduta. Egli riorganizzò la chiesa del Württemberg, fu precursore del pietismo e decano nella città di Calw.<br />Nel XVII e XVIII secolo Calw fu centro commerciale e industriale del Württemberg e acquistò importanza sovraregionale e internazionale grazie alle attività finanziarie della cosiddetta "Calwer Compagnie": i banchieri dei duchi del Württemberg, come un tempo ad Augusta i Fugger e i Welser erano stati banchieri del Sacro Romano Impero. Si aggiungano anche una società per il commercio del legno e fabbriche tessili con concerie, che permangono sino al ventesimo secolo. Hesse definì la propria città natale "Gerbersau".1 Sia compito del lettore stabilire se egli assegnasse un significato ironico a tale appellativo, nell'aggiungere che a Calw egli stesso "era stato conciato ben bene". Tuttavia "là mi trovai a mio agio" scrisse Hesse nella Giovinezza di Peter Bastian (Peter Bastians Jugend, 1902) "poiché la gente di Calw aveva viaggiato ed era più varia e libera di quella della campagna" (PN, p. 57). Hesse era un bambino oltremodo sensibile e testardo, che creava ai genitori e agli educatori notevoli difficoltà. Già nel 1881 la madre intuì che il figlio sarebbe andato incontro a un futuro non ordinario. Nello stile di pensiero che le era consono informò il marito del proprio timore: "Prega insieme a me per il piccolo Hermann [...] Il bambino ha una vitalità e una forza di volontà così decisa e [...] un'intelligenza che sono sorprendenti per i suoi quattro anni. Che ne sarà di lui? [...] Dio deve impiegare questo senso orgoglioso, allora ne conseguirà qualcosa di nobile e proficuo, ma rabbrividisco solo al pensiero per ciò che una falsa e debole educazione potrebbe fare del piccolo Hermann" (A.G., p. 208).<br />Malgrado le migliori intenzioni, i metodi pedagogici dei genitori non ottennero di "addomesticare" il bambino così poco docile, pur tentando, conformemente ai principi del pietismo, di frenare già nei primi anni quell'ostinazione ribelle che gli era propria. Così Johannes Hesse decise, trovandosi con la famiglia a Basilea e non avendo altra soluzione, di lasciar educare il bambino irrequieto al di fuori della famiglia. Quando nel 1886 la famiglia si trasferì nuovamente a Calw, Hermann sembrava indubbiamente più docile. Nel 1888 entrò nel ginnasio di Calw, che frequentò controvoglia pur risultando fra i primi della classe. Nel frattempo prese lezioni private di violino, ripetizioni di latino e greco dal padre e si sottopose, da febbraio fino a luglio del 1890, sotto la guida del rettore Bauer (uno fra i pochi insegnanti che Hesse stimava) a un programma di studio finalizzato al superamento dell'esame regionale. Il futuro di Hesse appariva predeterminato. Avrebbe percorso una strada comune a molti figli di pastori in Svevia: attraverso l'esame regionale in seminario, quindi alla facoltà teologica-evangelica di Tubinga. Questa strada era stata percorsa anche da Eduard Mörike, ai tempi scolaro brillante quanto Hermann Hesse. Le cose tuttavia dovevano andare altrimenti. Hesse supera senza difficoltà l'esame a Stoccarda e accede nel settembre del 1891 al seminario di Maulbronn.<br />Era un istituto di formazione in cui convivevano cultura medievale cistercense, cultura classica e pietismo svevo. Tuttavia, sei mesi più tardi, senza apparente ragione, il ragazzo fugge dall'istituto. Viene ritrovato il giorno successivo da un cacciatore e riportato al seminario. I suoi insegnanti lo trattano con comprensione e lo sottopongono a sole otto ore di carcere "per aver lasciato senza autorizzazione l'istituto". Mentre i genitori di Hermann, profondamente colpiti per il comportamento del figlio, imploravano Dio e tutti gli angeli affinché si concludesse tutto per il meglio, il nonno Gundert al ritorno del nipote a Calw definiva la sua scappatella il "viaggetto di un genio". Nel frattempo gli insegnanti cominciano a preoccuparsi seriamente del seminarista Hesse, che dal suo ritorno soffre di stati depressivi. Si sentono sollevati pertanto quando i genitori decidono di riprendere il ragazzo e di inviarlo per una "cura", in realtà "per essere liberato dal diavolo", al pastore Christoph Blumhardt. La conseguenza: un tentativo di suicidio, che sarebbe riuscito se il revolver non si fosse inceppato. Hermann viene quindi ricoverato nella clinica per malati di nervi (leggi manicomio) a Stetten.<br />Sebbene i genitori gli assicurino, scrivendogli, la propria comprensione promettendo al "caro Hermann" di lasciarlo studiare in un comune ginnasio "non appena darà prova per alcuni mesi di autocontrollo e obbedienza", ottengono invece il 14 settembre 1892 dal quindicenne Hesse la seguente risposta indirizzata al padre: "Gentile Signore! Poiché Lei si mostra stranamente così pronto al sacrificio, mi è concesso forse di chiederle sette marchi ovvero un revolver. Dopo che Lei mi ha indotto alla disperazione, sarà sicuramente pronto a liberare me da questa e lei da me stesso. In realtà avrei dovuto crepare già a giugno" (KJ I, p. 268). Una rinnovata minaccia di suicidio. Fortunatamente i genitori gli concedono, dopo le sue insistenti preghiere, di ritornare a Calw, dove frequenterà dal novembre 1892 sino all'ottobre 1893 il ginnasio Canstatter. Non porterà a termine comunque l'intero ciclo di studi ginnasiali. All'esperienza scolastica seguirà un brevissimo apprendistato come libraio a Esslingen: dopo appena quattro giorni Hermann abbandona la libreria; viene ritrovato dal padre in giro per le strade di Stoccarda, quindi spedito in cura dal dottor Zeller a Winnenthal. Qui trascorre alcuni mesi dedicandosi al giardinaggio, finché ottiene il permesso di tornare in famiglia.<br />A Calw aiuta il padre nella casa editrice e sfoglia con avidità i libri dell'immensa biblioteca del nonno Gundert. Il padre, tuttavia, si oppone nuovamente alla richiesta del figlio diciassettenne di lasciare la casa paterna per potersi quindi preparare "in libertà" all'attività letteraria. Hermann è costretto a seguire un apprendistato presso l'officina di orologi da campanile di Heinrich Perrot a Calw. In questo periodo progetta di fuggire in Brasile. Un anno dopo abbandona l'officina e incomincia nell'ottobre 1895 un apprendistato come libraio presso Heckenhauer a Tubinga, che durerà tre anni. Questi gli avvenimenti più importanti dell'infanzia e del periodo critico dell'adolescenza di Hesse, che troviamo scrupolosamente documentati nella raccolta curata da Ninon Hesse Infanzia e adolescenza prima del nuovo secolo. Con l'apprendistato a Tubinga e il successivo trasferimento a Basilea, Hesse consegue la piena indipendenza.<br />Non mancheranno tuttavia in futuro crisi interiori ed esteriori, di natura esistenziale o provocate dal lavoro, così come falliranno anche i suoi tentativi di adeguarsi a un'esistenza dall'aspetto "borghese" o di condurre semplicemente un'esistenza normale. Gli eventi di quel periodo, che già appartiene alla storia, riportano Hesse da Tubinga per alcuni anni a Basilea (sempre come libraio si occuperà anche di libri d'antiquariato), quindi appena sposato (già libero scrittore) sulle rive del lago di Costanza a Gaienhofen, fino a che, al ritorno da un viaggio in India, si trasferirà definitivamente in Svizzera, prima a Berna, poi nel Canton Ticino. Nel 1924 ottiene nuovamente la cittadinanza svizzera che aveva perduto per sostenere l'esame regionale nel Württemberg. Divorzia sia dalla prima che dalla seconda moglie, entrambe svizzere. Dal primo matrimonio con Maria Bernoulli (1869-1963) nasceranno tre figli: Bruno (1905), Heiner (1909) e Martin (1911). Il secondo matrimonio con Ruth Wenger (1897), di lui più giovane di vent'anni, dura solo alcuni anni. Soltanto la sua terza moglie, Ninon Ausländer (1895-1965), divorziata Dolbin, una storica del'arte, austriaca e di origine ebraica, rimase vicina al poeta sino alla fine. Dopo i primi successi letterari Hesse trovò una schiera di lettori sempre crescente, innanzitutto nei paesi di lingua tedesca, poi, prima della Grande guerra, negli altri paesi europei e in Giappone, e dopo l'assegnazione del Nobel per la letteratura (1946) in tutto il mondo. Quando Hesse ricevette questo prestigioso riconoscimento la prima bomba atomica era esplosa e il mondo stava dividendosi in due settori contrapposti. Tuttavia si era fatto improvvisamente silenzio intorno a Hesse "per metà leggenda, per metà ridicola figura ai giovani" (come egli stesso si presenta nella poesia del vecchio suonatore di organo), quando il 9 agosto del 1962 a Montagnola moriva in seguito a una emorragia cerebrale.<br /> Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-14464220494010678762009-07-09T18:49:00.003+02:002009-07-09T19:40:43.767+02:00Aleksandr Nikolaevič Skrjabin (MUSICISTA)<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SlYrcWRqauI/AAAAAAAAD3c/fTBjSWJKtk8/s1600-h/Scriabin.gif"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 150px; height: 194px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SlYrcWRqauI/AAAAAAAAD3c/fTBjSWJKtk8/s400/Scriabin.gif" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5356516572819778274" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br /><br />Aleksandr Nikolaevič SkrjabinNato da una famiglia aristocratica, all'età di un anno perse la madre, una pianista, morta di tubercolosi.<br /> Iniziò lo studio del pianoforte in tenera età, prendendo lezioni da Nikolaj Zverev, insegnante severo, che nello stesso periodo fu anche il maestro di Sergej Rachmaninov. La casa di Zverev ospitava musicisti contemporanei del calibro di Čajkovskij, che spesso costituivano il pubblico delle esecuzioni delle proprie composizioni da parte dei giovani studenti. In seguito studiò composizione al Conservatorio di Mosca con Anton Arenskij, Sergej Taneev e Vasilij Il'ič Safonov.<br /> Nonostante le mani piuttosto piccole, con un'ampiezza di poco più di un'ottava, divenne un pianista affermato. Sentendosi in questo senso da meno di Rachmaninov, che aveva mani eccezionalmente grandi, ed entrato in competizione con un altro studente aspirante virtuoso del conservatorio, si danneggiò gravemente le articolazioni della mano destra in seguito ad un folle studio sulle 32 sonate di Beethoven (tutte contemporaneamente) e le straordinariamente difficili Islamey di Balakirev e Fantasia sul Don Giovanni di Liszt.<br /> Il suo medico decretò l'irreparabilità del danno, e in quell'occasione Skrjabin scrisse uno dei suoi capolavori: la sonata in Fa minore, come un "grido contro Dio, contro il fato", e successivamente con un gioiello come il Preludio e Notturno op.9 per mano sinistra sola. Insofferente al comporre, come richiesto, numerosi pezzi in forme che non lo interessavano, fu respinto all'esame di composizione e non si diplomò. Ironia della sorte, uno dei pezzi che completò, una fuga in Mi minore, divenne in seguito, per decenni, un brano di studio obbligatorio al Conservatorio. Dopo il diploma, Skrjabin sposò una pianista, Vera Ivanova Isakovič, ed ebbe numerosi figli, ma in seguito lasciò la moglie e la sua carriera di insegnante per una giovane studentessa, Tatjana Fëdorovna Schloeze, con la quale ebbe un figlio, Julian. Questi fu un bambino prodigio, e compose numerosi sofisticati pezzi prima di morire annegato in un incidente in barca, all'età di undici anni.<br /> Skrjabin, che era stato in precedenza influenzato dalle teorie superomistiche di Nietzsche, si interessò in seguito anche di teosofia, ed entrambe queste teorie influenzarono la sua musica. Il compositore e teosofista Dane Rudhyar scrisse che Skrjabin era «quel grande pioniere della nuova musica di una rinata civilizzazione Occidentale, il padre di ogni futuro musicista», nonché «l'antidoto ai reazionari Latini, al loro apostolo Stravinskij» e al gruppo dei devoti della musica di Schoenberg. Verso la fine della sua vita Skrjabin si avvicinò sempre di più al misticismo. Egli sosteneva infatti che un giorno il calore avrebbe distrutto la terra: una teoria sulla quale si basa Vers la flamme (appunto "verso la fiamma"), op. 72, composizione nella quale un calore sempre più spaventoso distrugge ogni sorta di riferimento armonico e tonale.<br /> Morì a Mosca di setticemia, non si sa se a seguito di un taglio procuratosi facendosi la barba o a causa di un foruncolo infettato. Poco tempo prima di morire aveva progettato un'opera multimediale che avrebbe dovuto essere eseguita sull'Himalaya, sul tema dell'armageddon, "una grandiosa sintesi religiosa di tutte le arti che avrebbe dovuto proclamare la nascita di un nuovo mondo" che avrebbe dovuto fondere tutte le seduzioni dei sensi (suoni, danze, luci e profumi) e da celebrare in un tempio emisferico.<br /> Questo pezzo, "Mysterium", non fu mai realizzato. Il teologo Pavel Nikolaevič Evdokimov sosteneva che il compositore, annunciando in quell'opera un cataclisma universale come portatore di un'elevazione spirituale dell'intera umanità, si consacrasse alla ricerca di suoni capaci di uccidere e di risuscitare, accomunandolo così ad alcuni peculiari aspetti dell'opera di Pavel Aleksandrovič Florenskij.<br /> Tra i pianisti che hanno prodotto eccellenti esecuzioni di Skrjabin, vi sono Vladimir Sofronitskij, Vladimir Horowitz, Svjatoslav Richter, Grigorij Sokolov, Mikhail Voskresenskj e Roberto Szidon. Horowitz ancora ragazzo eseguì le opere di Skrjabin a casa del compositore, e questi ne fu entusiasta, ma asserì che necessitava ancora di ulteriore pratica. Horowitz affermò, in tarda età, che Skrjabin era palesemente un folle, pieno di tic e incapace di stare fermo a sedere. Nonostante questa affermazione, e ad esempio il fatto che Skrjabin fosse un ipocondriaco, il compositore catturò l'attenzione del mondo musicale russo. La maggior parte delle opere di Skrjabin è stata scritta per pianoforte. Le prime composizioni risentono dell'influenza di Chopin e sono scritte in forme che Chopin stesso utilizzava, come lo studio, il preludio e la mazurka. La musica di Skrjabin si evolve gradualmente lungo tutta la sua esistenza, anche se, relativamente ad altri compositori, è stata rapida e lunga. Al di là della prima fase compositiva, le sue opere sono fortemente originali, e impiegano armonie e tessiture molto inusuali. L'evoluzione dello stile di Skrjabin può essere seguito attraverso le sue dieci sonate: le prime sono scritte in uno stile tipicamente tardo-romantico, e mostrano le influenze di Chopin, come già detto, e di Liszt, mentre le ultime testimoniano la ricerca di un nuovo linguaggio, tanto che le ultime cinque non mostrano indicazione della tonalità. Molti passaggi entro queste possono essere definiti atonali, sebbene nel periodo tra 1903 e 1908, "l'unità tonale viene sostituita quasi impercettibilmente dall'unità armonica." (Samson 1977).Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-43143346324941653572009-07-09T18:24:00.004+02:002009-07-09T18:46:23.680+02:00Sartre Filosofo e scrittore francese (Parigi, 1905 - idem, 1980).<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SlYewIhV-5I/AAAAAAAAD3M/ZZyoX8zcPM8/s1600-h/images-2.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 125px; height: 100px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SlYewIhV-5I/AAAAAAAAD3M/ZZyoX8zcPM8/s400/images-2.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5356502619073674130" /></a><br /> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br /><br />Filosofo, romanziere, drammaturgo, critico letterario e giornalista, impegnato nella maggior parte delle lotte politiche del suo tempo, Sartre appare come un uomo catturato dallo spirito di libertà ed intensamente presente sulla scena del mondo. A coloro che volevano impedire allo scrittore di protestare contro la guerra d'Algeria, De Gaulle dirà: «Non si imprigiona Voltaire».<br /> Del filosofo illuminista, Sartre ha infatti molte caratteristiche: una curiosità vorace ed enciclopedica, una capacità di lavoro e d'intervento impressionante, una cultura immensa, classica per formazione, moderna per scelta, una volontà manifesta di cancellare le frontiere tra le varie discipline (filosofia, psicoanalisi e letteratura per esempio), ma anche tra i continenti, i popoli e le classi. Per Sartre, scrivere un libro e pensare si fondono e si confondono con l'impegno. È questo tipo d'intellettuale che sono venuti a piangere tutti coloro che, personalità illustri o anonime, accomunate da una intima fratellanza, lo accompagnarono il 23 marzo 1980 al cimitero di Montparnasse.<br /> Con le sue lenti spesse - miope, diventerà quasi cieco nel 1974 -, i suoi mocassini senza età, le sue sciarpe, la sua pipa o la sue sigarette, Sartre è un’icona della Rive Gauche e l’archimandrita dell’ intellighenzia parigina. Il suo regno si estende nel minuscolo spazio metropolitano che separa il café Flore dai Deux Magots, da cui si scorge, di fronte, la brasserie Lipp e, a sinistra della chiesa di Saint-Germain-des-Prés, la libreria Gallimard. Sartre soleva frequentare i caffè, sia per incontrare amici che per lavorare, ed era anche un uomo di strada e di folla: in quanti cortei, manifestazioni, non è stato fotografato? Quanti luoghi, dove una intera comunità sembrava cercarsi continuamente, non ha occupato nel maggio del 68, ora la Sorbona, ora la fabbrica Renault di Billancourt, o anche la redazione di Libération? Seppur scontata, l'immagine si rivela giusta: Sartre ha voluto assolutamente essere uomo del suo mondo e del suo tempo. Si è sforzato di vivere molteplici esperienze, volendo restare padrone del gioco: la politica, la filosofia, la giustizia, la libertà, l'amore anche, il cui posto è stato importante nell'esistenza di quest'uomo in cui la scoperta della sua bruttezza (Le parole) non gli ha impedito di mettere in moto una capacità di seduzione che ha del leggendario.<br />L’universale singolare<br />Nato nel 1905 in una famiglia della borghesia agiata, Sartre appartiene ad una generazione brutalmente gettata nella furia dei tempi moderni dalla Prima Guerra mondiale. Contro il sogno di distruggere tutto nel mondo della letteratura e dell'arte - tale fu il progetto dada e surrealista – la scelta dello scrittore Sartre fu quella invece di cercare salvezza nella letteratura stante a quello che ironicamente, e senza realmente essere vittima del suo sogno, egli stesso scrive a quasi sessanta anni, nella sua autobiografia. L'essenziale è di cogliersi come un uomo singolo, ma la cui singolarità rinvii all'universale: questo concetto "del singolare universale" è fondamentale in Sartre, come lo saranno altre parole-chiave inscindibili dal frasario sartriano - situation, mauvaise foi, salaud, engagement, liberté. È per questo che si presenta ne Le parole come campione della sua generazione e della sua classe.<br /> La cultura classica fa parte del suo bagaglio, ed il successo alla Scuola Normale a diciannove anni, in cui consegue la laurea in filosofia arrivando primo del suo corso, 1929, (l'anno in cui incontra Simone de Beauvoir) non fanno che confermare un forte radicamento nella tradizione culturale. Ma Sartre non si priverà tuttavia dei riferimenti della cultura contemporanea: i fumetti, i film di avventure visti con Anne-Marie, la madre quand’ era ragazzo e più tardi la passione per i romanzi polizieschi, l'interesse per tutte le manifestazioni moderne dell'arte e l’attrazione per le città americane sono alcuni esempi. Professore a Le Havre, a Berlino, nel 1933 -1934, in anni decisivi, avendo Hitler preso il potere nel 1933, a Neuilly infine. Sartre abbandona l'insegnamento alla Liberazione per dedicarsi alla sua attività di scrittore. Ma, lasciando la carriera d’insegnante, Sartre non ne abbandonò i modi, e si può dire che fu, per trent’ anni, il professore dei francesi alla ricerca di un maestro.<br /> Filosofo di formazione, Sartre scrive molto durante gli anni di gioventù alternando saggistica e narrativa: un saggio su L'immaginazione (1936), La trascendenza dell'ego (1937) (in queste prime opere di psicologia fenomenologica, l'influenza di Husserl è netta); un romanzo, La nausea (1938); novelle, Il muro (1939), e lavora al ciclo romanzesco che diventerà "Les chemins de la libertè" (1945 -1949). Ispirandosi alle tecniche di Joyce e dei romanzieri americani (Faulkner, Dos Passos), Sartre si sforza, in queste narrazioni, di cancellare la presenza del romanziere per lasciare i suoi personaggi riportare da soli la loro esperienza immediata e riportare soltanto questa. <br /> La prima forma di scrittura che Sartre sviluppa, dunque, parallelamente alla riflessione filosofica è la scrittura narrativa, romanzesca, senza ricercare una saldatura tra le due: al contrario, La nausea è come un saggio sul contingente (in filosofia: ciò che è gratuito, non necessario, ipotetico) e sono pertanto i filosofemi esistenzialisti che sottendono l’esistenza angosciata di Roquentin, il personaggio principale, che tiene un sorta di diario dove sembra soffocato dalla coscienza dell'esistenza, questa cosa enorme che «nessuno vuole guardare in faccia» (Il muro). <br /> Questa visione del mondo predominata dal disgusto, dalla disperazione, dal dolore inferto dalla gratuità delle cose e percorsa da immagini oscure e vischiose, caratterizza il primo Sartre, che diffida molto delle ideologie sia estetiche che politiche (marxismo, surrealismo), sedotto com’è da questa morale esistenzialista secondo la quale l'uomo deve costruire il suo modo di vivere, poiché «l'esistenza precede l’essenza» e l'uomo si definisce in rapporto agli altri. Esistere, è dunque essere nel mondo, essere per l’altro, e quest'esistenza deve essere colta in modo concreto e storico. La libertà è la caratteristica fondamentale dell'esistenzialismo sartriano: poiché Dio non esiste, l'uomo è soltanto ciò ch’egli vorrà essere e ciò che farà. <br />L’urto brutale tra Sartre e la storia – coscritto militare, prigioniero in Germania, dalla quale scappa – incarna questa filosofia, e porge un contenuto concreto alle parole esistenza, libertà, impegno. Ed è la storia ancora che offre le quinte ai romanzi del ciclo "Les chemins de la liberté", L'età della ragione, Il rinvio, cominciati nel 1939 e pubblicati nel 1945, mentre La morte nell’anima, uscirà nel 1949: la vicenda del ciclo si svolge dal 1937 al 1940, adotta la tecnica “simultaneista”, e mescola personaggi ed intrighi su sfondi di viltà, di vite murate, che la storia si incarica di fare scoppiare. <br /> Alla Liberazione, Sartre, Simone de Beauvoir ed i loro amici - Queneau, Leiris, Giacometti, Vian e Camus (con il quale le relazioni non sono facili) - diventano improvvisamente famosi: gli esistenzialisti, i resistenti, la sinistra, i giovani intellettuali che frequentano Saint-Germain-des-Prés sono più o meno confusi all'occhio del grande pubblico. Sartre è inviato negli Stati Uniti dal giornale Combat per “coprire” la conferenza di Yalta. Al suo ritorno spiega che cos' è l'esistenzialismo in una conferenza a Parigi: "L'esistenzialismo è un umanesimo." Fonda, questo stesso anno 1945, la rivista Les temps modernes. La gloria attira l’odio: non c’è stato intellettuale più pervicacemente detestato di Sartre - dai cristiani, dai comunisti, dai benpensanti - come anche da Céline, che lo definisce "il rivoluzionario alla birra".<br /> A partire da questo momento, Sartre, e con lui Simone de Beauvoir, non lasciano più la scena. La scrittura drammaturgica, scoperta in piena occupazione, inseparabile ai suoi occhi dal resto della storia e dell'azione collettiva, finisce col completarne ed ampliarne la celebrità che si estende ben al di là dei confini della Francia. Sotto l'occupazione, aveva scritto e fatto recitare Le mosche (1943), anno anche della pubblicazione del suo immane lavoro filosofico, L’essere e il nulla - dove si manifesta l'influenza di Husserl -, come anche Porte chiuse (1944). Nel 1946, pubblica La puttana rispettosa e Morti senza sepoltura; nel 1948 Le mani sporche. La sua concezione del teatro lo induce a rifiutare il teatro psicologico e realistico, fondato su personaggi e caratteri, quanto il teatro d'intrattenimento. <br /> Raccomanda un teatro dove si discutano le grandi questioni contemporanee, attraverso personaggi presi in situazioni limite, violente, la cui sfida è sempre la libertà, la responsabilità, il senso dell’esistenza, estremi predicati spesso in contraddizione con l'azione. Oreste, nelle Mosche, si definisce con l'omicidio che compie, omicidio giusto poiché si oppone all'abuso del potere ed alla tirannia. I tre personaggi di Porte chiuse (riuniti in un salone per l'eternità poiché sono già morti) sono condannati per sempre a giudicarsi e ad essere giudicati, essendo ciascuno prigioniero della<br />coscienza dell’altro - da cui la formula famosa: «L'inferno, sono gli altri». («L'enfer, c'est les autres »).<br />La logica rivoluzionaria <br />Alcune pièces teatrali come Le mani sporche, ponendo la questione della logica rivoluzionaria (che può condurre ad uccidere) e della coscienza che vi si oppone, o come Il diavolo ed il buono dio (1951), o I sequestrati di Altona (1959) - la prima che rinvia a una contrapposizione netta tra Satana e Dio, mentre l'eroe cerca il senso della sua esistenza attraverso l'azione, la seconda dove un ufficiale nazista è trascinato davanti ad un tribunale immaginario - testimonia il posto di rilievo della politica in questo teatro: come in Grecia, la scena è un’agora dove un popolo sfinito ma esigente vede esposti i problemi principali della città Altre pièces (Kean, adattamento da Dumas,1953; Nekrasov, satira dell’ambiente giornalistico,1955; o anche un rifacimento de Le troiane, da Euripide,1965) testimoniano l'interesse di Sartre per il teatro, come per le arti della comunicazione in generale. Sartre ha scritto molte sceneggiature cinematografiche, ha concesso numerose interviste, ed ha partecipato assiduamente a conferenze e trasmissioni radiofoniche.<br /> La Critica della ragione dialettica (1960) segna una svolta. Il marxismo, fino – ad allora ignorato da Sartre, ormai è ammesso come dato ineludibile, ma il suo progetto intelletuale non è sostanzialmente modificato. Le strutture socioeconomiche appaiono come elementi esterni e inerti, con e contro i quali la libertà degli uomini dovrà sempre misurarsi. <br /> L’ impegno politico si estrinseca nella continua attività giornalisticaa, che va dalla collaborazione a Combat fino alla direzione del giornale maoista la Cause du peuple, del trotzkista Révolution, fino a Libération. Esperienze che occorre mettere sullo stesso piano, perché significano la stessa volontà di essere presenti per testimoniare, denunciare, agire, come anche le numerose prefazioni ad opere letterarie e politiche spesso contestatarie e marginali (per Genet, Leibowitz, Fanon).<br />Terzomondista convinto, Sartre, ad esempio, ha prefato le opere di Senghor e Lumumba. Nella commovente prefazione-manifesto alla ripubblicazione di Aden-Arabia, riabilita in modo vibrante il suo amico Paul Nizan, ferocemente attaccato dai comunisti. I dieci volumi di Situazioni (1947 -1976) raccolgono tutto questo immane lavoro critico e politico.<br /> Testimonianza delle sue collere, dei suoi odi e delle sue passioni, i testi di Situazioni disegnano un percorso politico originale. Attraverso l’ RDR (Rassemblement démocratique révolutionnaire), sogna una terza via (tra stalinismo gollismo), al maoismo, passando per tappe complesse e depistanti per tutti coloro che lo avrebbero voluto di una sola parte, la loro. Prende posizione a favore di Israele al momento della creazione dello Stato ebreo, nel 1948, preceduta dalle Riflessioni sulla questione ebraica (1946), dove Sartre sostiene che il problema non è la questione ebraica ma quella dell'antisemitismo; denunzia i campi di concentramento sovietici, con Merleau-Ponty, nel 1950; rompe l’alleanza coi comunisti in occasione della guerra fredda, prima che l'intervento sovietico in Ungheria consumi la rottura definitiva con il PCF che tuttavia non disprezzerà mai; sostiene la virulenta posizione anticolonialista di Temps modernes (firma il manifesto dei 121,contro la guerra dell'Algeria, e, con Gisèle Halimi e Simone de Beauvoir, pubblica una saggio sulla tortura, Djamila Boupacha, nel 1962). Stesso ardore contro la guerra del Vietnam e stesso impegno nel maggio 68 a fianco degli studenti e degli operai.<br /> Nel corso di una vita così occupata, la scrittura tuttavia tiene il posto principale, e benché gli venga conferito il premio Nobel nel 1964 Sartre lo rifiuta, trovandolo troppo legato al blocco occidentale. Lo merita certamente: romanziere, drammaturgo, saggista, filosofo, Sartre è anche uno straordinario critico letterario. Inventore della "biografia esistenziale " pensata per questi "lavoratori<br />dell'immaginario", doppi o fratelli, per i quali l'autore di Che cos’è la letteratura? (1947) tende a ricomprendersi – da Baudelaire (1947) a Genet (Saint Genet, attore e martire, 1952) e soprattutto a<br />Flaubert (L'idiota della famiglia, 1971 -1972, incompiuto) - fonda un metodo critico molto personale, che arriva al "romanzo vero" dell'autore affrontato ed il cui punto di partenza è sempre lo<br />stesso: «Come si diventa un uomo che scrive?» In questo confronto con altri immaginari, la letteratura perde la sua definizione immediata, impegnata, che consiste nel rivelare il mondo per cambiarlo e diventa cosa più torbida e più angosciante, potere di annientamento, stupore dove gli esseri scompaiono, poiché scrivere è decidere di assentarsi dal mondo. Essendo un autore autentico, dunque quello che «ha più o meno scelto l'immaginario», Sartre appartiene ad un'età che si può solo temere definitivamente tramontata, dove, per volere cambiare il mondo, occorre anche proclamare i diritti e il potere dell’immaginazione.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-59529327845083342272009-06-07T13:07:00.003+02:002009-06-07T13:15:09.601+02:00Il modello evolutivo della coscienza<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SiugzyCQQ0I/AAAAAAAAD28/IrYxXDBxnaI/s1600-h/images-3.jpeg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 115px; height: 116px;" src="http://1.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SiugzyCQQ0I/AAAAAAAAD28/IrYxXDBxnaI/s400/images-3.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5344542194270225218" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br /> <br /> Un'intervista a Osho di Nitamo Montecucco. su "scienza e meditazione", Oregon, USA, 1985<br /> Domanda: potresti esporci il tuo modello evolutivo di coscienza?<br />Osho: "I1 termine inconscio è stato usato per la prima volta in Occidente da Sigmund Freud. Costui non sospettava nemmeno che in Oriente, nelle nostre antiche scritture, parliamo di questa idea dell'inconscio da 5000 anni almeno. Quindi Freud pensava di aver scoperto qualcosa di nuovo. Jung poi scoprì che se vai più in profondità nell'inconscio troverai l'inconscio collettivo. Anche di questo siamo stati consapevoli per secoli, in Oriente. Di un'altra cosa ancora siamo stati consapevoli, che l'Occidente deve ancora scoprire: se vai oltre l'inconscio collettivo, troverai l'inconscio cosmico, il che è assolutamente logico. La dimensione cosciente è individuale, l'inconscio è impersonale, l'inconscio collettivo rappresenta tutto ciò che ti ha preceduto, contiene l'intera storia della mente umana. Ma la base, le fondamenta non possono essere queste. Più in profondità vi è l'inconscio cosmico, che è la mente dell'esistenza tutta. Questi sono i gradini che trovi verso il basso, scendendo in profondità: inconscio, inconscio collettivo, inconscio cosmico. Questi sono i tre livelli al di sotto della mente cosciente. Esattamente allo stesso modo vi sono tre gradini o livelli al di sopra della mente cosciente, che nessuno in Occidente ha mai sfiorato, nemmeno con il pensiero.<br />Al di sopra della mente cosciente vi è un livello che io definisco super-conscio (super consciousness) o di non mente.<br />E' il parallelo dell'inconscio, che si trova al di sotto della mente cosciente, mentre questo si trova sopra la linea della coscienza. E' un livello impersonale anche questo, con la differenza che ne sei pienamente cosciente. E' situato al di sopra della mente cosciente e lo puoi chiamare non - mente o super-conscio. Non - mente perché non vi sono pensieri, ma un silenzio assoluto. Molti meditatori si fermano a questo livello, pensando di essere arrivati. In Oriente vi sono alcune religioni che si sono fermate allo stadio della non mente, così come Sigmund Freud si è fermato all'inconscio e non si è mai preoccupato di andare più in profondità. Ci sono stati dei ricercatori spirituali che hanno cercato di andare ancora più su. Andando oltre il super-conscio trovi il super-conscio collettivo o mente super-cosciente collettiva. Questo super-conscio collettivo è l'esatto equivalente, verso l'alto, dell'inconscio collettivo. In questo stato di coscienza hai l'esperienza di non essere separato, ma di essere parte di una sfera di coscienza, che si trova al di sopra della biosfera che circonda la Terra e di cui tu sei parte intrinseca. Questa esperienza ti rende consapevole dell'unità della coscienza. Alcune religioni si sono fermate al super - conscio collettivo così come Jung si è fermato all'inconscio collettivo. Ancora più su vi è il super conscio cosmico, che ti fa sentire tutt'uno non solo con la coscienza, ma con l'intera esistenza in quanto tale. Questo è il punto in cui si può avvertire ciò che Patanjali chiama il Samadhi. La parola Samadhi indica uno stato in cui tutti i problemi sono risolti, tutte le domande si sono dissolte e sei pervenuto ad uno stadio che non conosce alcun problema, alcuna domanda, che è eterna beatitudine. Questo è lo stato che può essere chiamato "natura divina", perché sei tutt'uno con l'intera esistenza. La psicoterapia occidentale si è inoltrata soltanto nei gradini inferiori della scala ed il motivo di questo è dovuto al fatto che la psicologia occidentale è iniziata dallo studio di gente malata, di individui che soffrivano di disturbi mentali, che si situavano quindi nei gradini più bassi pertanto si è sempre più inoltrata nella scoperta di questi gradini inferiori. La psicologia orientale si è limitata semplicemente a menzionare l'esistenza di questi gradini come qualcosa da evitare, ma non li ha studiati a fondo. In Oriente non è stato compiuto alcuno studio dettagliato a proposito di questi gradini inferiori, ci si è limitati a citarli. Al contrario, in Oriente i tre livelli superiori sono stati oggetto di studio accurato, perché venivano studiati i meditatori, non la gente malata. Poiché l'oggetto di studio era diverso, l'intero approccio si rivelò diverso: osservando i meditatori, la psicologia orientale divenne consapevole del super - conscio, del super-conscio collettivo, del super-conscio cosmico. Si sono inoltrati in stati di coscienza più sani, trovando sempre nuove strade su cui proseguire il cammino. Sfortunatamente la psicologia occidentale ha avuto inizio studiando individui malati ed è giunta a scoprire l'inconscio collettivo, e un giorno scoprirà anche l'inconscio cosmico.<br /> Tutto l'operato degli psicologi occidentali consiste oggi nel riportare l'individuo malato alla normalità, ad un accettabile livello di consapevolezza, il che viene ritenuto di grande importanza. In Oriente questo è lo stadio da abbandonare, da lasciarsi dietro le spalle, in Occidente invece quello è il livello da raggiungere..."<br /> Domanda: "Mi sembra che la tua opera sia quella di creare negli esseri umani la possibilità di crescere e di fare esperienza in entrambe le direzioni .<br /> Osho: "Certo, devo seguire entrambi i percorsi ed il mio lavoro è il più complesso che sia mai stato tentato: pulire attraverso le terapie i livelli inconsci, per poi elevare la consapevolezza attraverso la meditazione. Voglio che i miei sannyasin (discepoli) diventino consapevoli di tutti questi sette stadi: uno è quello in cui vi trovate, tre sono sotto il livello cosciente e tre sopra. Di questi sette livelli tre devono essere evitati e tre devono essere alimentati e ognuno dovrebbe continuare a procedere verso il settimo.<br /> Sto quindi operando in entrambe le direzioni: con le terapie stiamo cercando di pulire gli episodi oscuri dell'essere e con le meditazioni cerchiamo di dischiudere le potenzialità racchiuse nei 1ivelli superiori dell'essere, e questo può essere fatto contemporaneamente.<br /> Se un individuo rimane soltanto normalmente cosciente non è qualcosa di cui vantarsi tanto...<br /> Se cade al di sotto del livello cosciente, il che è molto facile, visto che la linea di separazione non è molto netta e di notte penetri nell'inconscio, i tuoi sogni penetrano alle volte nell'inconscio collettivo e diventi un leone, il che non è altro che il ricordo di qualche vita passata in cui avevi quella forma.<br /> Puoi anche diventare una pietra, anche se è piuttosto raro... Non ho mai incontrato nessuno che abbia fatto questa esperienza, che starebbe a significare il raggiungimento dell'inconscio cosmico, perché la pietra è nello stadio di inconscio cosmico. Ma la linea di separazione non è molto netta, la consapevolezza è fluida: perfino durante il giorno, se sei seduto da qualche parte, cominci a sognare ad occhi aperti, il che non appartiene al tuo livello cosciente, ma è il tuo inconscio che si rivela prendendo il sopravvento sulla mente conscia. A volte accade che dei frammenti di coscienza dai livelli superiori schiudano le loro porte, perfino alla gente più comune. Magari te ne stai seduto sulla spiaggia a guardare il tramonto e tutto ad un tratto hai la sensazione di essere più sensibile. All'improvviso avverti la bellezza di quel tramonto, come non ti era mai successo prima. Hai la sensazione di essere più cosciente. Ogni suono, le onde che accarezzano la superficie, ogni cosa diventano improvvisamente così cristallini, chiari come non lo sono mai stati. Qualcosa del super-conscio, la non-mente, è disceso nella tua normale consapevolezza, è penetrato in te".<br /> Domanda: "E' ciò che Maslow definisce peak-experiences ?"<br /> Osho: "Si, è esattamente ciò che Maslow definisce peak-experience. Può accaderti mentre fai l'amore e provi un'esperienza orgasmica. Si tratta semplicemente di una discesa del super-conscio, della non-mente, che prende possesso della tua mente ordinaria, ma non è un fenomeno che puoi controllare, non dipende da te, quindi può giungere ed andarsene in qualsiasi momento. A volte non c'è alcuna ragione o causa, sei seduto in silenzio e all'improvviso ti senti trasportato, avvolto da una singolare bellezza, pervaso da una immensa gioia senza motivo, E questo è soltanto il secondo livello oltre la normalità, non è niente paragonato al super-conscio collettivo e il super-conscio collettivo non è niente paragonato al super-conscio cosmico.<br /> La psicologia sarà una scienza completa e totale quando comprenderà tutti i sette livelli dell'uomo.<br /> La mia definizione dell'uomo è (Zorba il Buddha): Zorba consiste solo nei primi quattro stadi, la mente ordinaria ed i suoi tre livelli inferiori. Buddha consiste dei tre livelli superiori. Tutte le vecchie religioni hanno cercato di creare una spaccatura per cui i livelli inferiori si dovrebbero negare e si dovrebbero accettare solo i livelli superiori, perché solo questi sono autenticamente spirituali, mentre i livelli inferiori sono animali. Per me invece bisogna comprendere il Tutto, osservarlo, esserne testimoni, fondere i vari livelli in una unità e solo allora l'uomo sarà integro, totale.<br /> La mia definizione di quest'uomo è Zorba il Buddha, e questa è la mia visione dell'uomo futuro.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-76944891811792767552009-05-08T11:54:00.004+02:002009-05-08T12:24:15.047+02:00Osho - Amore e Solitudine<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SgQGsscdD8I/AAAAAAAAD20/z2E94agxaTA/s1600-h/images.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 114px; height: 125px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SgQGsscdD8I/AAAAAAAAD20/z2E94agxaTA/s400/images.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5333395223628025794" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI <br /> Vorrei farvi conoscere questo bellissimo pensiero di Osho Estratto dalla "saggezza dell'innocenza " <br /><br />Puoi essere preso da un amore profondo e tuttavia essere solo. Di fatto solo se sei preso da un amore profondo puoi essere solo.<br />La profondità dell'amore crea un oceano intorno a te, un oceano profondo e tu diventi un'isola, sei completamente solo.<br />Certo, l'oceano continua a flagellare le tue sponde con le sue ondate, ma più l'oceano si infrange sulle tue sponde con le sue ondate e più tu sei integrato, radicato, centrato.<br />L'amore ha valore soltanto quando ti da la solitudine. Ti da lo spazio sufficiente per restare solo.<br />Ma tu hai un'idea dell'amore e quest'idea ti crea turbamento – non l'amore in sé ma l'idea dell'amore.<br />L'idea è che, in amore, gli amanti scompaiano una nell'altro, si dissolvano una nell'altra.<br />Certo, esistono momenti in cui accade, ma qui sta la bellezza della vita e di tutto ciò che è esistenziale: se gli amanti si dissolvono uno nell'altra, avranno momenti in cui saranno molto consapevoli, molto attenti. Quel dissolversi non è una specie di ubriacatura, quel dissolversi non è inconscio.<br />Porta con sé una grande coscienza, sprigiona una grande consapevolezza. Da un lato essi si dissolvono – dall'altro essi vedono per la prima volta la bellezza totale di essere soli. L'altro definisce te e la tua solitudine, tu definisci l'altro. Ed essi sono vicendevolmente grati. Grazie all'altro sei riuscito a vedere il tuo sé, l'altro è diventato uno specchio nel quale ti rifletti. Gli amanti sono specchi l'uno per l'altro. L'amore ti rende consapevole del tuo volto originale.<br />Di conseguenza sembra assai contraddittorio, paradossale affermare che l'amore porta con sé la solitudine. Tu avevi sempre pensato che l'amore portasse con sé le vicinanza con l'altro. Non dico che non porti con sé l'intimità con l'altro, ma a meno che tu non sappia stare solo non puoi stare con l'altro. Chi sta insieme? Per essere insieme bisogna essere in due, bisogna essere due persone indipendenti. Lo stare insieme sarà ricco, infinitamente ricco se entrambe le persone sono completamente indipendenti.<br />Se sono dipendenti uno dall'altro non è un rapporto – è una schiavitù una limitazione. Se sono dipendenti l'uno dall'altro, attaccati, possessivi, se non si permettono a vicenda di essere soli, se non si concedono a vicenda lo spazio necessario per crescere, sono due nemici non due amanti; sono distruttivi uno per l'altro, non si aiutano a vicenda per trovare ciascuno la propria anima, il proprio essere.<br />Che amore è mai questo?<br />Può essere soltanto paura di stare soli, perciò si aggrappano l'una all'altro. Ma l'amore vero non conosce la paura. L'amore vero rende capace di star solo, completamente solo e da questa solitudine germoglia il rapporto.<br />Kahlil Gibran dice: due amanti sono come due colonne di un tempio – sostengono lo stesso tetto, ma sono separati: sono insieme nel sostenere lo stesso tetto ma sono separati per quanto concerne il proprio essere.<br />Siate come due colonne di un tempio, sostenete lo stesso tempio di amore, ma ciascuno radicato nel proprio essere, non distolto dal proprio essere. Allora conoscerete entrambi la bellezza, la purezza, la nitidezza, la salute e l'interezza della solitudine e conoscerete anche la gioia, la danza, la musica dell'essere insieme.<br />Qualcuno suona un “a solo” col proprio strumento: è bello un “a solo” di flauto – è bellissimo. È altrettanto bello udire un'orchestra che suona. L'amore ti fa conoscere entrambe le cose contemporaneamente: sai come suonare un “a solo” di flauto e sai anche come entrare in sintonia, in armonia con l'altro.<br />Nella realtà non c'è contraddizione – la contraddizione appare soltanto perchè tu hai una certa idea. Lascia perdere l'idea e allora dov'è la confusione? La confusione deriva soltanto dalle conclusioni prefabbricate e quindi la vita ti appare qualcos'altro da ciò che è, sei confuso. Piuttosto che tentare di schematizzare la vita, lascia perdere le tue conclusioni.<br />Non agire mai partendo dalle conclusioni! Continuo a ripetervelo ogni giorno: non agite mai in base a ciò che sapete, sapere significa prevedere le conclusioni e tutte le conclusioni le avete prese in prestito. La vita è talmente vasta da non poter essere condensata in una conclusione. Ogni conclusione è parziale e ogni volta che la parte proclama di essere l'intero crea una sorta di fanatismo, di ortodossia: crea una mente stupida ed ottusa. Estratto dalla "saggezza dell'innocenzao" di Osho –Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-15677252249040731722009-05-06T13:22:00.004+02:002009-05-06T13:32:34.420+02:00Trasformazione emozionale e trascendenza<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SgF1CCuccXI/AAAAAAAAD2s/p32tFcmP-94/s1600-h/images-4.jpeg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 112px; height: 112px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SgF1CCuccXI/AAAAAAAAD2s/p32tFcmP-94/s400/images-4.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5332672111735239026" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br /> <br />Nella cultura psicologica si parla di espressione delle emozioni oppure della loro manifestazione, comunque la direzione è verso il disfarsene. L’idea del conoscere semplicemente l’emozione avviene piuttosto raramente. Senza agire le emozioni, ma neanche reprimendole, abbiamo l’occasione di conoscere le identificazioni che ne sono alla base.<br /><br />Ricordo che non molti anni fa stavo seduto nell’ufficio del mio terapista e gli raccontavo la discussione avuta con una persona a me cara. Oggi i particolari mi sfuggono, ma avevo fatto qualcosa che aveva addolorato la mia amica, la quale si era arrabbiata in un modo che mi sembrava sproporzionato e ingiustificato. Ricordo che mentre raccontavo i fatti, mi sentivo frustrato e turbato.<br /><br />“Tutto quello che posso fare è amarla di più in quei momenti”, insistevo con una certa mestezza, facendo ricorso agli anni di pratica meditativa e alla sincerità dei miei sentimenti più profondi.<br /><br />“Questo non funzionerà mai”, tagliò corto il terapista, e fu come venire colpiti dal bastone di un maestro zen. Mi guardò con una certa aria canzonatoria, quasi fosse meravigliato dalla mia stupidità. “Cosa c’è di sbagliato nell’essere arrabbiati?”, chiese.<br /><br />Questo scambio di battute mi è rimasto impresso per anni, perché, in un certo senso, cristallizza le difficoltà che ci troviamo di fronte quando cerchiamo di integrare l’approccio psicologico occidentale con quello del buddismo. Il buddismo ci dà un messaggio ambivalente sulle emozioni: da un lato dice che dobbiamo sforzarci di eliminarle, dall’altro insegna ad accettare tutto ciò che sorge. C’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati? Possiamo liberarci di questo sentimento? Cosa vuol dire venirne a capo? Nel mio lavoro di terapista, devo affrontare in continuazione queste domande.<br /><br />Oggi mi è chiaro che venire a capo di un’emozione come la rabbia, spesso, vuol dire qualcosa di diverso dalla sua mera eliminazione. Infatti, come nel buddismo si ripete più volte, è la prospettiva di colui che soffre a determinare se una data esperienza perpetua la sofferenza o è un veicolo per il risveglio. Venire a capo di qualcosa vuol dire cambiare il proprio punto di vista; se invece cerchiamo di cambiare l’emozione, nel breve termine potremmo avere successo, ma resteremmo prigionieri dell’attaccamento e dell’avversione per il sentimento stesso da cui vogliamo liberarci.<br /><br />Naturalmente, il desiderio di cambiare i miei sentimenti difficili con il loro opposto non era un’idea originale. Nel mio caso, ciò veniva dalla psicologia buddista dell’abhidharma, i primi scritti psicologici del buddismo. La maggior parte di noi vuole essere libera dalla pressione delle emozioni, cerca di eliminare i limiti della nostra vita emozionale e di sostituire i sentimenti problematici con i loro opposti meno conflittuali. Nella sfera delle emozioni esiste una tendenza universale allo svilimento, sembra. Diamo per scontato che l’unico modo per liberarci dal dolore è sbarazzarci completamente di esso.<br /><br />Questo intenso desiderio di quiescenza emotiva ha avuto una grossa influenza sul modo in cui pratichiamo il buddismo. Gli insegnamenti stessi sembrano talvolta suggerire che questo è il modello che dobbiamo cercare di raggiungere. Certe emozioni sono nocive, insegna l’abhidharma. Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per ridurre la loro influenza sulla nostra mente. Di conseguenza, quando leggiamo le storie di insegnanti buddisti che esprimono liberamente la loro rabbia o tristezza, restiamo confusi. Queste storie contraddicono gli insegnamenti più formali del buddismo e ci costringono a rivedere i nostri pregiudizi secondo cui le emozioni sono sbagliate.<br /><br />La nostra propensione a credere in un modello nel quale non ci sia posto per le emozioni deriva, in parte, dalla volontà inconscia di separare le emozioni dal resto della nostra esperienza, e di fare di esse le colpevoli della nostra situazione difficile. Se solo riuscissimo a sradicare e distruggere la nostra natura emotiva, pensiamo, potremmo seguire le orme del Buddha.<br /><br />Tale desiderio di distruggere le emozioni negative è molto comune anche tra coloro che praticano la psicoterapia. Così come molti meditatori pensano che la giusta meditazione consista nell’avere sentimenti meno intensi, molte persone in psicoterapia demonizzano quelle stesse emozioni indesiderate che le spingono a cercare aiuto. Dopo la rottura di un matrimonio che durava da dieci anni, per esempio, un mio buon amico ha cominciato la psicoterapia in una clinica di salute mentale. Il suo unico desiderio, disse alla nuova terapista, era liberarsi da ciò che stava provando. La implorò dunque di levargli il dolore, liberandolo da queste emozioni sgradite.<br /><br />Ma la sua terapista aveva appena lasciato una comunità zen, dove aveva vissuto per tre anni. Quando il mio amico si rivolse a lei, ella lo spinse a restare semplicemente con i suoi sentimenti, per quanto fossero spiacevoli. Non cercò di rassicurarlo né di aiutarlo a cambiare ciò che stava provando. Quando lui si lamentava della sua ansia o della sua solitudine, lei lo incoraggiava a sentire tutto ciò con più intensità. Anche se non si sentiva affatto meglio, il mio amico fu incuriosito dall’approccio di questa terapista e cominciò a praticare la meditazione. Un momento fondamentale della sua meditazione fu, secondo lui, quando la depressione cominciò a schiarirsi.<br /><br />Terribilmente a disagio con i pruriti, le irrequietezze e i dolori della pratica, e incapace di restare semplicemente con le sensazioni, egli ricorda che alla fine riuscì a osservare l’insorgere, l’aumentare e lo scomparire di un prurito, senza mai grattarsi. In tal modo, egli dice, comprese improvvisamente quello che intendeva la terapista quando gli consigliava di restare con il suo stato emotivo, e da quell’istante la sua depressione cominciò a sparire. I suoi sentimenti cominciarono a cambiare solo quando smise di desiderare un cambiamento.<br /><br />Esistono scuole di pensiero – sia all’interno del buddismo che della psicoanalisi – che non ammettono tanto facilmente la possibilità di una trasformazione emotiva come quella sperimentata dal mio amico. Sia gli psicoanalisti ortodossi che i fondamentalisti buddisti vedono le emozioni come forze coercitive che sono, per loro natura, minacciose, destabilizzanti e potenzialmente schiaccianti. Il massimo che si può fare con queste passioni è, secondo tale concezione, controllarle, padroneggiarle o – almeno secondo la filosofia buddista – estinguerle. Il denominatore comune è che le passioni sono considerate forze oscure, dotate di una loro volontà, che vanno severamente controllate. Secondo questa concezione, una persona che ha terminato con successo l’analisi è quella che ha portato alla scoperto tutte le proprie emozioni primitive, facendo sì che esse non impediscano più il raggiungimento delle soddisfazioni di una persona matura.<br /><br />Un praticante buddista di successo, dal canto suo, viene immaginato come qualcuno le cui emozioni non disturbano più una grande equanimità. Ecco perché siamo così perplessi quando leggiamo di Marpa che piange la morte del figlio. Perché egli non ha trasceso la sua emozione?<br /><br />Tuttavia, all’interno sia del buddismo sia della psicoanalisi, esiste un altro punto di vista sulle emozioni, secondo il quale è possibile non tanto la trascendenza, quanto la trasformazione. In tale concezione le emozioni non sono considerate necessariamente un nemico, ma un cugino da lungo tempo perduto. Lasciandole entrare nella consapevolezza, le emozioni non sono più percepite come forze aliene, bensì come una parte inseparabile di un tutto più grande. In tal modo, alle emozioni viene permesso di maturare spontaneamente, un processo di cui il mio amico ha colto un bagliore nella sua meditazione.<br /><br />Freud ha descritto questo processo parlando della “sublimazione”, che egli ha definito come il mezzo attraverso cui “l’energia dei desideri impulsivi infantili non viene eliminata, ma resta disponibile all’uso; lo scopo inutilizzabile dei vari impulsi viene sostituito da uno più elevato, e forse non più di natura sessuale”. La sublimazione, per Freud, offriva la possibilità di fare a meno delle richieste impossibili degli “infiniti desideri impulsivi”, ma non significava che le passioni in sé erano pericolose. Ascoltate, per esempio, la descrizione che Freud fa di Leonardo da Vinci: “I suoi affetti erano controllati…; egli non amava né odiava, ma si interrogava sull’origine e il significato dell’amore e dell’odio. Così, era inevitabile che all’inizio apparisse indifferente al bene e al male, alla bellezza e alla bruttezza…<br /><br />In realtà, Leonardo non era privo di passione… Semplicemente, aveva trasformato la sua passione in una sete di conoscenza… Quando, all’apice di una scoperta, riusciva a vedere il nesso di ciò che stava cercando, era sopraffatto dall’emozione, e con parole estatiche celebrava lo splendore di quella parte della creazione che aveva studiato, o – per usare una fraseologia religiosa – la grandezza del Creatore”.<br /><br />Tutte le qualità solitamente attribuite al Buddha sono presenti nella descrizione freudiana di Leonardo da Vinci: il controllo degli affetti, la trasformazione dell’amore e dell’odio in interesse intellettuale, il primato dell’indagine, persino il climax dell’ode alla grandezza del Creatore. L’esclamazione del Buddha nell’istante della sua illuminazione rende più forti queste somiglianze: Estratto da un bellissimo articolodi Mark Epstein | Permalink |Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-39748439752918300932009-04-06T20:17:00.004+02:002009-04-06T20:32:15.946+02:00La vita ha un senso? (Jiddu Krishnamurti)<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SdpH6N4N5EI/AAAAAAAAD2k/LPTF7Nn2VCM/s1600-h/images-4.jpeg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 89px; height: 123px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SdpH6N4N5EI/AAAAAAAAD2k/LPTF7Nn2VCM/s400/images-4.jpeg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5321644975175099458" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br /> <br />Voglio regalare ai lettori questi profondi pensieri di Jiddu Krishnamurti affinche possano essere loro utili nel corso della loro vita<br /><br />Io penso che dobbiamo parlare insieme di qualcosa di fondamentale importanza, qualcosa di cui ogni essere umano dovrebbe occuparsi perché riguarda la nostra vita, la nostra attività quotidiana, il modo in cui noi sprechiamo i giorni e gli anni della nostra vita.<br /> Perché ? E a che scopo?<br /> Noi nasciamo e moriamo, e in questi anni di dolore e di angoscia, di gioia e di piacere, si perpetuano l'eterna battaglia e l'eterno sforzo di andare in ufficio o in fabbrica per quaranta o cinquant'anni, di cercare di dare la scalata al successo, di accumulare denaro, piacere, esperienza, conoscenze; e alla fine, la morte. Alcuni scienziati dicono che l'uomo progredisce grazie alla conoscenza. È proprio così?<br /> Noi sappiamo un'infinità di cose su molti argomenti - biologia, archeologia, storia e così via - ma non sembra che questa conoscenza abbia modificato l'uomo in maniera radicale, profonda. Non fanno che perpetrarsi il conflitto, la lotta, il dolore, il piacere, l'eterna battaglia di sempre per l'esistenza.<br /> Poiché noi vediamo che tutto ciò continua ad accadere in ogni paese e a ogni latitudine, di che cosa si tratta? È molto facile rispondere con una spiegazione emotiva, romantica, nevrotica, oppure intellettuale o razionale.<br /> Ma se voi mettete da parte tutte queste cose che, per quanto intellettuali dimostrano tutte una certa superficialità, io penso che si tratti di una domanda molto importante. È importante porsela ed è importante trovare una risposta personale senza lasciarsi condizionare da un prete, da un guru o da un qualsiasi concetto filosofico, senza affermare niente, senza credere in niente, senza coltivare alcun ideale, ma soltanto una profonda osservazione. In caso contrario, la nostra sarà una vita fatta di automatismi. Il nostro cervello si è abituato a un modo di vivere meccanico; ora, una parte del cervello deve essere necessariamente meccanica, per quanto riguarda l'acquisizione della conoscenza e nell'uso ingegnoso di questa conoscenza in ogni circostanza della vita, in ogni azione esterna, e da un punto di vista tecnologico.<br /> Ma la conoscenza che abbiamo acquisito - e di conoscenza possiamo accumularne sempre di più - non risponde alla domanda fondamentale: qual è il significato, in che cosa consiste la profondità della nostra vita?<br /> Noi vediamo bene che tutta l'umanità deve creare un'unità, perché soltanto così la razza umana sopravviverà fisicamente e biologicamente.<br /> Non saranno certo i politici a risolvere questo problema, non l'hanno mai fatto! Al contrario, manterranno le separazioni: da ciò traggono grandi vantaggi. L'umanità deve unirsi, è un fatto fondamentale per la sua esistenza, che tuttavia non può accadere attraverso regole, dogmi burocratici, leggi e cose del genere. Quando dunque noi osserviamo tutto ciò dal nostro punto di vista di esseri umani che vivono nel caos di un mondo praticamente impazzito - la vendita di armamenti per profitto, l'uccisione di persone in nome di un'idea, di una nazione, di un dio -che cosa dobbiamo fare? E a che scopo tutto ciò?<br /> Le religioni hanno cercato di dare un senso alla vita: parlo delle religioni istituzionalizzate, propagandistiche, ritualistiche. Ma nonostante i duemila o i diecimila anni di vita, l'uomo ha semplicemente affermato certi principi, certi ideali, certe deduzioni, ma lo ha sempre fatto a parole, sempre in maniera superficiale e irrealistica. Perciò, se siamo seri - e dobbiamo esserlo, altrimenti non viviamo in maniera reale, il che significa che non sorridiamo o non ridiamo mai - seri nel senso di un impegno totale rispetto al problema globale dell'esistenza, penso diventi molto importante scoprire un senso personale della vita. Quando dunque ci chiediamo qual è il senso globale della vita, ci troviamo di fronte al fatto che il nostro cervello è prigioniero in un solco, in un'abitudine, in una tradizione, nel condizionamento dell'educazione ricevuta, coltiva soltanto conoscenza, informazioni e funziona così in maniera sempre più meccanica. Brockwood Park, 5/9/1976 (Tratto da "Andare incontro alla vita")( Fine della prima parte)Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-56504901005999513642009-03-18T19:48:00.003+01:002009-03-18T19:54:12.117+01:00EPICURO "LA LIBERTÀ DALLE PASSIONI"<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/ScFDKXBfEmI/AAAAAAAAD2c/Nhnxbv-z1ig/s1600-h/cicero3.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 185px; height: 310px;" src="http://4.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/ScFDKXBfEmI/AAAAAAAAD2c/Nhnxbv-z1ig/s400/cicero3.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5314602880531894882" /></a> <br /> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br />La scuola epicurea e la nozione stessa di "epicureo" hanno attraversato, come abbiamo visto, un arco temporale davvero ampio. Quando usiamo l'aggettivo "stoico", invece, ci riferiamo a una corrispondenza più diretta con la Stoà vera e propria. Si parla ad esempio di "impassibilità stoica"; in Orazio leggiamo queste parole: "Se anche la Terra, l'intero universo crollasse, impavidum ferient ruinae, le rovine seppellirebbero un impavido". Questa è la virtù stoica dell'impassibilità rispetto a tutte le passioni, e in particolare a tutte le paure, ed è anche il significato popolare che si attribuisce alla parola "stoico",… che non ha conosciuto la deformazione che ha invece interessato il concetto di "epicureo" in epoca moderna. Sarebbe opportuno riflettere sul motivo per cui questo atteggiamento stoico si sia conservato tale nelle diverse costellazioni culturali. Perciò, come è bene ricordare, nel caso della Stoà parliamo di una prima, antica Stoà (Zenone, Crisippo e altri),… di una Stoà media (Panezio e Posidonio), e… infine anche di una CiceroneStoà romana, che poi è entrata nella coscienza popolare con Cicerone e, soprattutto, con Seneca. Chi conosce i quadri famosi, nei quali insigni pittori hanno descritto la morte di Seneca, ha ben presente la forte esemplarità che gli stoici ponevano nel loro modo di atteggiarsi. Seneca, un ministro di primo piano, se così si può dire, nell'epoca imperiale di Nerone, cadde in disgrazia e fu infine condannato a darsi la morte. In circostanze del genere, alle persone benemerite veniva offerta la possibilità di sottrarsi all'esecuzione pubblica, suicidandosi. Però, le cose sono ancora… più complesse, nel caso della Stoà, perché entra in gioco anche la consapevolezza della libertà umana. C'è un'unica forma di suicidio… che, possiamo immaginare, consenta all'uomo la libertà di pentirsi: chi magari… si spara, o si getta sotto un treno in corsa, si lancia dalla finestra di un palazzo, può agire anche per mancanza di libertà, per paura del futuro, in preda a uno stato d'animo. Invece chi si taglia le vene dei polsi… e lentamente… lentamente si dissangua, in qualunque istante può dire: "Basta, voglio continuare a vivere!". Questo tipo di suicidio, assieme alla morte per inedia (la rinuncia al cibo, la volontaria morte per fame), erano dunque le classiche forme di suicidio del mondo stoico,… poiché conservavano la libertà fino all'ultimo momento. Persino nell'immagine popolare dello stoicismo è presente l'idea che per esso la libertà consista in tali forme di autocontrollo. Ciò che sta in noi - "tò ef'emîn" - questa è la parola d'ordine della tarda Stoà!Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-42277235375118854922009-03-13T06:43:00.004+01:002009-03-13T06:56:00.322+01:00IL GIOCO COME CRESCITA CREATIVA<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SbnzTUBdNrI/AAAAAAAAD2U/KFIuZ8W1lJA/s1600-h/index.2.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 400px; height: 266px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/SbnzTUBdNrI/AAAAAAAAD2U/KFIuZ8W1lJA/s400/index.2.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5312544748578092722" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br />Giocare vuol dire fare <br />È questo il senso dell’operazione culturale che sta alla base dell’interven- to. Infatti, si dà spazio all’espressione dei propri vissuti nell’ambito di una situazione giocosa. Giocare per crescere facendo, in un susseguirsi di luoghi e di tempi propri dell’azione creativa. Dove poter esprimere il pro- prio universo senza tralasciare la relazione con l’altro da sé che stimola l’azione stessa. È nel gioco che si consente alla creatività di manifestarsi, nel modo libero di rapportarsi col proprio mondo interiore. Il tempo della realizzazione del gioco lo qualifica nell’agire, promuo- vendo cambiamento non solo in un luogo ben definito quale quello men- tale, ma anche nella fisicità propria del corpo. Infatti, qui si evidenzia come le reazioni corporee sono convogliate nella realizzazione del processo creativo messo in atto. Cosicché l’azione del giocare promuove lo sviluppo psicofisico, con la modificazione di quegli atteggiamenti posturali che caratterizzano la persona, condizio- nandone le relazioni con l’altro. Un buon atteggiamento posturale, che consente il pieno svolgimento delle attività della persona, in un ambito in cui si dà modo di esprimere il piacere del fare, è alla base per un corretto sviluppo dell’autostima. <br />Ed è questo lo scopo principale che ci prefiggiamo,in quanto si rileva la difficoltà di avere un buon rapporto con se stessi, derivante da una scarsa fiducia nelle proprie capacità. La magia dell’incontro <br />Il carattere precario, altresì, della realtà del gioco, nel suo divenire, consen- te la condizione per sentire “magico”, il modo di vivere il fenomeno che si realizza nella propria espressione. Espressione che si concretizza comuni- cando in relazioni sane, dove l’Io e il Tu rappresentano i cardini di un rap- <br />porto: dove il Tu si rende disponibile senza prevaricare, dando la possibi- lità d’interazione e di promozione d’idee nuove che modificano il fare. pensiero pag 001-059 16-06-2006 16:02 Pagina 25<br />Avere uno spazio e un tempo definiti permette di vivere, tramite una condizione di rilassamento che facilita la fiducia, la possibilità di svilup- pare l’esperienza del giocare. Sviluppando le capacità creative, fisiche e mentali proprie del gioco, si sviluppa il senso del sé. Si dà la possibilità di agire come unità che espri- <br />me l’Io sono, Io sono vivo, Io sono me stesso, costruendo le peculiarità <br />dell’essere creativi. (Winnicott, 1962) Facilita l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta, non <br />subita in un aspecifico adattamento alla realtà. Questo modo di vivere il proprio sentimento vitale, acquista maggio- re significato quando interessa persone che di solito non hanno stima di <br />sé, vivendo la propria disabilità come condizione negativa. Dare la possibilità di sviluppare il senso del sé, sottolineando e inca- nalando produttivamente la parte sana della persona, consente di avere <br />maggiori chance nel creare prodotti della mente. Crescita emotiva e gioco L’espressione, emotiva nel gioco è importante nella sua simultaneità con la crescita creativa che è messa in atto nell’esperienza. Non valutati per il loro senso estetico, ma importanti e, quindi, estetici perché rappresenta- no il meglio dell’azione creativa del gioco.Si dà valore estetico al gioco, in quanto manifestazione dell’espressione intima del vivere. La condizione ottimale è la libertà d’espressione che fa sì che ci si concentri sui mezzi per raggiungere il risultato, che non rappresenta il fine del gioco, ma n’è solo la conclusione del loro divenire. È preso in esame soprattutto nel suo carattere simbolico, nella capacità d’astrazione che permette il superamento della realtà contingente, quindi condizionante la concezione dell’essere presenti nella realtà personale.Il suo carattere imitativo della realtà, fa sì che permetta la costruzione del pen- <br />siero autonomo,staccandosi dalla semplice imitazione e dalla semplice ese- cuzione di un compito prestabilito,come di solito avviene. Infatti, si tende alla costruzione di situazioni che permettono la crescita di un’elaborazione di contenuto rispetto la formulazione delle consegne, per consentire la <br />capacità di lettura della realtà di ognuno, rispettando il “magico” del gioco. Esprimendo il proprio mondo, infatti, si fa dell’esperienza un’occasio- ne irrepetibile della fisicità del reale da condividere con l’altro in una rela- zione sentita in prima persona. Si sviluppano le capacità narrative, dando un senso di temporalità e spa- zialità all’immaginazione , concretizzandola in azioni ben definite e defini- bili nel gioco, consentendo, così, di prendere in esame l’aspetto cognitivo. Creatività e intelligenza emotiva <br />È di recente la concezione dell’universalità della creatività, non più appannaggio di pochi eletti che qualificano il tempo culturale, ma capa- cità insita in ognuno che va sviluppata; è da quest’assunto che si dà la possibilità di crescita a dei soggetti con ritardo mentale, che altrimenti non avrebbero modo di manifestare il proprio mondo. Consentire, con il gioco, all’intelligenza emotiva d’avere campo libero <br />nel manifestare tutte le proprie capacità, permette, altresì, lo sviluppo cognitivo altrimenti sacrificato in un ambito non reale per tali soggetti. A tale riguardo, si fa riferimento al modo di mettere in relazione la <br />capacità di vivere le proprie emozioni liberamente con la possibilità di svi- luppare i processi cognitivi che danno opportunità di leggere il presente. Infatti, tali prerogative, altrimenti inusate, sono attivate tramite il gio- co e il suo libero manifestarsi, dove le emozioni hanno una loro impor- tanza, per un migliore adattamento al reale. Quest’adattamento dà possibilità di presa di coscienza d’abilità diver- se per ognuno, che sono evidenziate, nella loro specificità nei vari labora- tori, e sono così sviluppate per dare continuità comportamentale in ambi- ti diversi dalla situazione privilegiata messa in atto. Scopo, non ultimo, è promuovere una vita relazionale scevra da con- dizionamenti sulla diversità, in quanto condizione d’inferiorità che non consente lo sviluppo armonioso della persona. Creatività e collaborazione La realizzazione della condizione del gioco permette, altresì, di sviluppa- re rapporti collaborativi non competitivi, se non nel reciproco piacere di fare e di far conoscere all’altro il proprio mondo. Diventa, così, importante il carattere sociale del gioco, in quanto occa- sione di scambio d’esperienze e occasione di crescita collettiva del grup- po d’appartenenza. Il riconoscersi, costituisce uno dei punti di forza nella ragione dell’intervento, in quanto l’accettazione della diversità, come <br />valore da portare nelle relazioni con gli altri, diventa motivo di rivalsa delle abilità che caratterizzano la persona. Non è un caso, che perciò, si prende in esame la creatività, come ele- mento e condizione imprescindibile di cambiamento culturale, per un’ef- fettiva presa in carico della problematica della diversità. Si considerano, altresì, le capacità trasformative del gioco che con l’im- maginario costruiscono realtà diverse per ognuno. L’identificazione in altro da sé, permette la considerazione che la persona può superare la condizione usuale in un’altra idealizzata. E, in quest’altra collocare la possibilità di crescita interiore, che è facilitata e promossa per diventare effettivo cambiamento. L’immaginazione Il ruolo dell’immaginazione è fondamentale nel senso che consente la visione di un’alternativa possibile del reale e quindi l’aspirazione e la sco- perta di capacità altrimenti non sviluppate. Le capacità prese in esame coinvolgono la persona nell’insieme della corporeità e del mentale, essendo non disgiunti, ma l’uno conseguente l’altro, determinando aggiustamenti e miglioramenti nella percezione, fruizione ed elaborazione dei vissuti. Fare dell’arte il processo entro il quale collocare l’azione educativa, dà al gioco la dimensione culturale di promozione di un atteggiamento attento all’istanze dell’utenza, in quanto non si produce gioco fine a se stesso (anche così si ottempera ad un ruolo educativo avulso da intellet- <br />tualismi). Il mondo immaginario sviluppato è il contesto entro il quale la perso- na può esprimere liberamente i propri sogni, in una teoria d’aspettative che costituiscono la base per aspirazioni da realizzare o da esorcizzare. Il gioco terapeutico Infatti, si dà modo di giocare su problematiche altrimenti spie d’angosce personali, che in questa maniera sono affrontate in modo che siano tra- <br />sformate in esperienze positive. Il carattere giocoso dell’esperienza permette, quindi, di prendere in <br />considerazione quegli aspetti dolorosi che opprimono l’immaginario in quei soggetti che presentano tali ossessioni. Questa modalità è stata messa in evidenza nella realizzazione di sto- rie che rispecchiavano tematiche proprie dei soggetti, come ad esempio nella “...e la sposa scappò”, dove il tema del matrimonio come aspira- zione a relazioni significative con l’altro sesso, era esorcizzata dal carat tere giocoso dello sberleffo e dell’elemento sporco per superare la pau- ra di tale contatto. Il giocare con i propri vissuti ha permesso di sviluppare in un ambien- te sereno le problematiche che di volta in volta erano affrontate. Così si dava spazio e senso al raccontare storie “strampalate”, riuscendo a svi- luppare legami profondi tra i partecipanti. L’aspetto relazionale, messo in evidenza, scaturisce dal bisogno di rac- <br />contare e di ascoltare l’altro per creare rapporti non vincolati dall’appar- tenenza ad un’istituzione. Infatti, la libera espressione sviluppa l’ascolto e, quindi la nascita di rapporti significativi all’interno di un gruppo che assolve la funzione di contenitore protetto. Le storie inventate acquistano significato per una cultura collettiva, divenendone la caratteristica e il collante. In tale ambito, acquista signifi- cato l’individualità, in quanto si sottolinea con l’appartenenza, il ruolo differenziato nel gruppo. <br />Ognuno ha la sua storia da raccontare e tutti sono partecipi del cam- biamento che è attuato. Imparare ad ascoltare dà significato al racconto e, chi racconta è apprezzato acquistando importanza. Nel duplice ruolo di narratore e d’ascoltatore, è fissata l’importanza di ognuno, dando risalto al gioco messo in atto.Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-586543787059715684.post-78549570979124389912009-03-04T14:25:00.007+01:002009-03-04T14:33:41.092+01:00PICASSO " FAUNI E I MINOTAUR"I<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/Sa6CZArRyQI/AAAAAAAAD2M/qPm29rfoN44/s1600-h/1000138066.12109.1.jpg"><img style="float:right; margin:0 0 10px 10px;cursor:pointer; cursor:hand;width: 297px; height: 400px;" src="http://2.bp.blogspot.com/_w14qZnlblrs/Sa6CZArRyQI/AAAAAAAAD2M/qPm29rfoN44/s400/1000138066.12109.1.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5309324376906254594" /></a> A CURA DI D. PICCHIOTTI<br /> <br /><br />Françoise Gilot racconta di quando Picasso le mostrò alcune incisioni: "Erano popolate di minotauri, centauri, fauni, uomini barbuti o rasati, di ogni sorta di donne. Tutti erano nudi o quasi, e sembravano gli interpreti di un dramma della mitologia greca" . È Picasso stesso a spiegare il Minotauro, figura gaudente e tragica, che "mantiene le sue donne nel lusso, ma regna col terrore, ed esse sono felici di vederlo morire". È sempre il Mediterraneo del mito, trasformato in Montparnasse, all'origine delle incisioni in cui piccole Marie-Thérèse bambine conducono minotauri ciechi e illuminano le lotte del mostro: "L'ambiente è un'isola rocciosa del Mediterraneo. Creta, per esempio. Là, lungo la costa, vivono i minotauri. Sono ricchi signori dell'isola. Sanno di essere dei mostri e vivono, come i dandies e i dilettanti di ogni luogo, una esistenza che sa di decadenza, in case piene di opere d'arte dei pittori e scultori più alla moda. Adorano essere circondati di belle donne, che i pescatori del luogo vanno a cercare nelle isole vicine. Quando il calore del giorno ha ceduto, invitano gli scultori e le loro modelle a delle feste, dove, fra musiche e danze, ognuno si sazia di ostriche e di champagne, fino a quando la gioia succede alla malinconia. Allora nasce l'orgia. [...] Un minotauro non può essere amato per se stesso. O almeno non pensa di esserlo. Non gli sembra logico, ecco. Forse per questo si abbandona alle orge". A volte, i suoi fauni e i suoi minotauri si abbandonano a gesti di apparente tenerezza e sembrano vegliare placide donne addormentate, come Picasso amava ritrarle: "Passò a un'altra incisione, un Minotauro in atto di sorvegliare una donna dormiente. "Sta studiandola, cercando di leggere i suoi pensieri, per scoprire se lei lo ama perché è un mostro. [...] Le donne sono abbastanza bizzarre per farlo". Guardò di nuovo l'incisione: "Difficile dire se intenda svegliarla o ucciderla"". <br />I fauni e i minotauri degli anni Trenta, impegnati a svelare donne addormentate, diventeranno in vecchiaia innocui suonatori di flauti (come in una tela del 1971) e voyeur che disegnano in bordelli d'altri tempi. È alla fine della sua vita che Picasso elabora un singolare omaggio a Degas: non all'artista che con la sua Ballerina di quattordici anni vestita di tulle e dai capelli di crine anticipava l'uso di materiali quotidiani nell'opera d'arte, ma quello più nascosto e segreto, l'autore dei monotipi che ritrae la vita delle case chiuse. Richardson racconta come, vedendo il monotipo di Degas Sul letto, Picasso rimanesse sedotto dal lavoro, ritrovandovi l'immediatezza di una foto in bianco e nero e la forza, l'impatto di un disegno di Rembrandt. Era il 1958, quando Picasso riuscì ad acquistare quei monotipi che Vollard si era sempre rifiutato di cedergli, usati dal mercante come illustrazioni per le edizioni di lusso de La Maison Tellier di Maupassant (1934) e Mimes des courtisanes de Lucine di Pierre Louÿs (1935). Passò quasi un ventennio, prima che da queste opere nascessero le incisioni che vedono Degas come protagonista, non variazioni sul tema come quelle elaborate su opere di Delacroix o Manet, Le Nain, Velázquez o El Greco, piuttosto una piccola ossessione come quella che gli aveva ispirato Rembrandt che ritrae Saskia e decine di dipinti con pittori e modelle. Nel caso di Degas, che compare per la prima volta in un'incisione datata 16 marzo 1971, l'artista diventa il voyeur in giacca e cravatta che prende appunti sulla nudità senza inibizioni delle prostitute, compare in un quadro che adorna la stanza delle donne, appare armato di sguardi che emanano raggi indirizzati verso le oscene contorsioni delle modelle, indiscreto spettatore spesso relegato al margine del foglio. Secondo Brassaï, Picasso in quell'uomo con barba rappresentava il padre. Anche lui pittore, noto frequentatore dei postriboli di Malaga, che però dipingeva colombe. <br />Storie di uomini che guardano, di uomini che si trasformano in fauni e minotauri. Fantasmi della malinconia che con l'orgia diventa gioia, della solitudine che potrebbe portare alla santità. Perché, raccontava Picasso, "nulla può essere fatto senza la solitudine. Mi sono creato una solitudine che nessuno sospetta. È molto difficile oggi essere solo, perché abbiamo gli orologi. Avete mai visto un santo con l'orologio? Ho cercato dappertutto per trovarne uno, perfino tra i santi che sono considerati i protettori degli orologiai" .Danilo Picchiottihttp://www.blogger.com/profile/11458183027125629398noreply@blogger.com0