venerdì 31 agosto 2007

GRECIA "LA VITA INTELLETTUALE" Prima, durante e dopo la guerra del Peloponneso
(periodo 435-390 a.C. )

POESIA - TRAGEDIA - COMMEDIA - L'ARTE - LA MUSICA
 I Greci consapevoli del valore artistico della parola e della sua efficacia nella pratica della vita, curarono tale pregio e sentirono che la parola pur avendo sempre uno stesso valore acquistava importanza diversa a seconda delle condizioni nelle quali era usata. Nutrito dall'entusiasmo, il parlare diventa pieno di ritmica musicalità, un linguaggio che "crea", e dal verbo poièin che significa appunto fare, creare, chiamarono questo linguaggio poesia, cioè creazione.
Anche nella poesia i Greci toccarono vette sublimi, mai raggiunte da un altro popolo. Nella civiltà greca arte, mitologia, religione, filosofia, costituirono per molto tempo quasi una cosa sola; e non diventarono discipline distinte, autonome se non partecchi secoli dopo. Studiando la letteratura greca bisogna tener conto della quantità di opere e di aspetti che sembrerebbero non avere relazioni con il mondo esclusivamente letterario. Di più la mancanza di unità propria dei greci anche nel campo politico si riflette anche nel campo letterario. Pur possedendo chiara e ferma coscienza della loro origine comune i Greci non arrivarono mai a costituire uno Stato unitario. Ma il vincolo principale che collegò le varie stirpe dell'Ellade fu proprio la letteratura e la poesia. Il popolo greco come sappiamo era distinto in "città", diviso dall'origine, oscura, in alcune grandi stirpi che avevano tradizioni e disposizioni e dialetti diversi. Tre stirpi principali esercitarono una cospicua attività nel campo letterario; gli Ioni, gli Eoli e i Dori. Anche quando parliamo di lingua greca ci riferiamo al dialetto attico, mancando, una vera lingua nazionale, essendoci solo dialetti parlati nelle varie regioni.
La stirpe degli Ioni ebbe la prevalenza morale sulla Grecia e il dialetto ionico diede la base fondamentale del nuovo linguaggio, che a lungo andare diventò lingua nazionale, cioè una lingua comune, (o dialetto attico) quando la potenza politica dei Greci decadde e la civiltà ellenica si diffuse per i nuovi paesi. 
Verso la fine dell'indipendenza greca, tutti o quasi, usarono, almeno scrivendo, il dialetto attico, pur continuando ognuno a servirsi del proprio per il discorso. Avvenne insomma nella Grecia quel che avvenne in seguito in Italia, dove il dialetto toscano prevalse e diventò la lingua italiana. E accadde come in Italia, vedi il nostro Manzoni, che andò a "risciacquare nelle acque dell'Arno" i suoi "Promessi Sposi"). Quando uno scrittore componeva una sua opera nel suo dialetto, per renderla più famosa, doveva necessariamente risciacquarla in dialetto attico.
Retorica, filosofia e scienze speciali ebbero il predominio nella vita intellettuale del IV secolo; di fronte ad esse la poesia fu meno curata. Non è a dire che la produttività in questo campo sia però diminuita; la folla esigeva ora come prima che le fossero elargiti i suoi abituali trattenimenti teatrali ed a questo scopo vennero scritti anche in questo periodo innumerevoli drammi. Ma la tragedia rimase assolutamente schiava dell'indirizzo inaugurato da EURIPIDE (480-406), e naturalmente le imitazioni non poterono eguagliare l'originale, per quanto meritevoli di considerazione siano la opere di parecchi poeti di quest'epoca. Ne seguì che invalse l'uso di rappresentare accanto alle produzioni nuove anche tragedie del tempo classico, di regola naturalmente quelle di Euripide.
Migliori furono i contributi portati dalla commedia. Le commedie di ARISTOFANE (455-388) e dei suoi contemporanei con le loro continue allusioni ad avvenimenti dei propri tempi erano già divenute inintelligibili alla generazione venuta subito dopo di loro, e soprattutto non rispondevano più al sentimento dal decoro più raffinato della nuova epoca. Venne quindi abbandonato l'uso del costume grottesco dagli attori col suo fallo colossale e l'aziona scenica fantastica fu surrogata da una favola che, sebbene non badasse per il sottile alla verosimiglianza, pure si mantenne nei limiti dal possibile. Anche la tinta politica di questo genere d'arte andò sempre più dileguandosi, la commedia divenne uno spettacolo di carattere meramente civile, di intrattenimento (diremmo noi oggi "nazionalpopolare"), che perciò non ebbe più un determinato colore locale, di modo che le varia produzioni poterono essere date su tutti i teatri nonostante che esse, come avveniva di regola, fossero state principalmente create avendo in mira il pubblico ateniese. Nel complesso anche in questo campo la produzione non si elevò al di sopra del livello della mediocrità, finchè nell'epoca succeduta ad Alessandro non si ebbe in MENANDRO (342-290) un nuovo poeta classico della commedia.
Aristofane fu chiamato il principe della commedia antica, come Menandro fu detto quello della nuova.
Il primo quando venne col suo genio rinnovò e perfezionò la commedia. Egli diede al genere una forma del tutto singolare di queste rappresentazioni; con colori differenti trattò i medesimi soggetti. Si piangeva alla Niobe di Euripide, e si rideva a quella di Aristofane. Le commedie che compose furono una cinquantina di cui 11 a noi pervenute esprimenti la più schietta e briosa gioia di vivere. Fra queste ricordiamo le Nuvole, il Pluto, gli Uccelli, le Rane, i Cavalieri, gli Acarnesi, la Pace, le Donne in Senato, Lisistrata, le Vespe e altre.
La prima elencata fu quella fatale a Socrate. E' controversa fra gli antichi scrittori se Aristofane si decidesse di porre in ridicolo Socrate in teatro, dietro le insinuazioni di Melito; oppure lo facesse per vendicarsi della disapprovazione che il filosofo dava intorno alle maniere indecenti con le quali il nostro compositore di commedie peccava a danno del pubblico costume. Comunque sia la cosa, è certo che nessun poeta fece dell'arte sua un così indegno traffico. 
Aristofane compose espressamente per Socrate le Nuvole. Nella commedia introduce un personaggio chiamato Socrate, il quale figura come un filosofo sciocco, ridicolo ed empio; gli fa parlare il linguaggio dell'impostura, e le più stomachevoli stranezze nel declamare alcume massime. Non contento di ciò lo rappresenta come un uomo che adora le nuvole che per lui sono la divinità. Inoltre lo dipinge mentre ammaestra con la retorica un giovane dissoluto, e i frutti di tale insegnamento sono che il giovane nega un debito al suo creditore, e percuote il proprio padre, provando al primo che nulla gli deve, ed al secondo che è rivestito di competente autorità per così trattarlo. Fa di Socrate un ritratto perfetto di un filosofo irreligioso e di un retore libertino. Un carattere che Aristofane regala gratuitamente al saggio Socrate per renderlo ridicolo e dispregevole al pubblico. 
Questa rappresentazione eccitò il popolo che vi accorreva sempre in gran folla. A una rappresentazione prima che si svolgesse il processo a suo carico, ci andò anche Socrate, e nonostante la indegna parodia, mantenne l'impertubabilità fino alla fine, che poi al processo progredì fino all'eroismo. Certamente una prova luminosissima di fermezza d'animo.
Torniamo alla Poesia. Il primo periodo corrisponde all'età eroica con gli inni e le lodi agli dei. Nell'età monarchica cominciò ad esistere una poesia profana che cantava gli eroi, cioè la epica, con in mezzo tante leggende popolari che raccontavano e ingrandivano quelle imprese, aggiungendovi l'elemento meraviglioso. Erano questi gli aedi e i rapsodi, e ve ne furono prima e dopo Omero. Lo stile è conforme all'indole semplice di quei tempi, anche se talvolta tocca la vera sublimità.
Dopo l'invasione dorica nel Peloponneso, vi fu in Grecia un gran movimento di popoli: si fondarono nuove colonie, divennero vivissimi i commerci; abbattuti i tiranni sorsero le repubbliche democratiche: e come l'epica aveva cantata le gesta dei re, sorse una nuova poesia che rappresentò i sentimenti del popolo, ormai giunto a libertà: questa nuova poesia fu la lirica.
Al principio del IV secolo, ANTIMACO di Colofone, ardì contrapporre con la sua Tebaide all'epopea omerica un'epopea moderna, e con la sua Lyde (poema erotico) una elegia moderna alla elegia ionica. Presso i suoi contemporanei egli incontrò poco successo, benché non gli sia stato negato il plauso dei migliori. E perciò appunto fu suo il futuro. Un secolo dopo la Lyde era su tutte le bocche, ed essa ha esercitato una influenza decisiva sullo svolgimento della letteratura nell'epoca alessandrina. Per il momento Antimaco non trovò successori; l'epopea non venne ulteriormente perfezionata e la lirica si limitò a comporre libretti per musica.
Ma prima che sorgesse la vera lirica, vi fu una poesia che i Greci non consideravano tale: essa consiste nelle elegie nel giambo, due generi di tenore opposto.
L' "elegia" era nata come lamento funebre, servì in seguito a esprimere i contenuti più vari: patriottico, amoroso, civile, narrativo-celebrativo, ed erotico-erudito.
Il "giambo" era invece un genere tipico dell'invettiva (sembra che il suo inventore fu Archiloco di Paro - VII sec . a.C. - il poeta dell'amore e dell'odio). La poesia giambica era comparsa nella commedia attica antica, poi cedendo all'epigramma la sua iniziale virulenza, si traformò in semplice parodia. Solo molto più tardi ritornò all'antico spirito con Catullo, Orazio, Marziale; fino ai tempi moderni con Carducci.
A proposito della poesia giambica è opportuno parlare anche della favola sviluppatasi nel Vi sec. I Greci venendo dall'Asia, in quei luoghi appresero alcune favole, poi con la loro fantasia le seppero abbondantemente moltiplicare, per esprimere velatamente e allegoricamente molte verità morali. Venne un ESOPO di origine Frigia, il quale girando per i vari luoghi della Grecia imparò a conoscere quasi tutte le favole, alcune delle quali erano note solo localmente: e, aggiungendone altre di sua invenzione, le andò poi tutte raccontando. Infatti Esopo non scrisse favole, egli va definito come raccoglitore e compositore di favole a voce. Solo più tardi e in questi tempi dell'erudizione ( IV sec.), alcuni osservando l'importanza delle favole, credettero opportuno di farne raccolta per iscritto e così nacquero diverse raccolte di favole cosiddette esopiche.
Altre le scrissero Esiodo, Archiloco, Simonide d'Amorgo, Babrio. All'inizio del I sec. a introdurre le favole presso i Romani fu poi Fedro, un macedone che era giunto a Roma come schiavo di Augusto.
Sono tutte favole che sono degli ingenui e garbati apologhi di animali, suggellati da una morale, dove si esaltano la prudenza e la moderazione, ma anche l'astuzia e l'oppressione dei deboli da parte dei potenti.
LA POESIA DRAMMATICA - LA TRAGEDIA
TESPI (non sappiamo l'anno della sua nascita, Orazio nell'Arte Poetica la fissa nel 566 a.C. - Aristotele, riferisce che organizzò e vinse il primo concorso drammatico in Atene nel 534 a.C.) A Tespi viene attribuito l'onore di essere stato il primo poeta tragico e l'inventore della Tragedia, o meglio l'inventore della separazione dell'attore dal coro in una embrionale azione drammatica.
Fu contemporaneo di Susarion; entrambi trattarono la tragedia, ma a Tespi viene attribuito di esserne stato l'inventore, poichè prima di lui questa specie di dramma non si riduceva che in alcune canzoni.
Tespi (secondo Orazio, ma sembra che sia una notizia infondata) si trasferiva da una città all'altra con un carretto sul quale innalzava un palco; due attori con i visi imbrattati di feccia di vino cantavano dei cori, il cui soggetto era quasi sempre preso dalla storia.
Dopo qualche tempo vi aggiunse un terzo attore, il quale separatamente dai cori recitava dei versi; questa innovazione unitamente ad altre libertà irritò molto Solone. Egli tento di persuadere il popolo a non assistere a simili rappresentazioni, dicendo: "Se noi onoriamo la menzogna nei nostri spettacoli, la troveremo ancora nelle nostre promesse più sacre"; ma nonostante che in questo veto contenesse la più purgata morale, non fu valida per ottenere ciò che Solone si era proposto. 
Dopo Tespi, ricordiamo Frinico (ma di lui si sa poco), Cherilo e Pratina, che scrissero drammi satirici. Furono questi poeti che prepararono la nuova tragedia.

Il tipo di tragedia che Tespi aveva lasciata nell'infanzia, aquistò consistenza e una maggiore regolarità nelle mani di ESCHILO (Eleusi 525- Siracusa 456) poeta Ateniese. Prima di dedicarsi interamente Melpomene, aveva seguito Bellona; e nelle battaglie di Salamina, di Maratona e di Platea, fece conoscere che il valore era unito alle altre belle qualità del suo spirito. Ma la celebrità non arrivò con le sue gesta militari, ma dall'arte tragica. Si narra che scrisse 90 tragedie; quaranta furono reputate degne di premio. Di queste noi ne possediamo soltanto sette: Prometeo legato allo scoglio, I sette contro Tebe, I Persiani, Agamennone, Le Coefore, L'Eumenidi, Le Supplici.
Eschilo fornito dalla natura di uno spirito vivace, e nutrito nella sua gioventù con la lettura di quei poeti che più si avvicinavano ai tempi eroici, si era imbevuto delle loro idee per tutto ciò che riguardava il sorprendente e il prodigioso. Raramente ci furono tragedie di argomento contemporaneo o realistiche. Le storie mitologiche e di quell'età che lo avevano preceduto, ebbero grande influenza nelle sue produzioni. Le vendette atroci, i grandi delitti, e tutte le veemenze sociali, gli servirono come materiali per animare i suoi tragici quadri, tutti ispiranti un terrore profondo e salutare. Egli fu spesso inosservante delle regole che poi vennero stabilite per la tragedia: eppure non è difficile rilevare che alcune non gli erano affatto ignote, e che, se non per assoluta convinzione, almeno per senso intimo seppe seguirle. Infatti egli non si permise mai di insanguinare la scena. Riguardò l'unita d'azione e di tempo, come essenziali; ma l'unità di luogo volle reputarle poco importante, o almeno non sempre necessaria.

Il dialogo sotto Tespi, fu limitato fra due persone; Eschilo aumentò questo numero fino a cinque, che si succedevano nella scena regolarmente, senza che il discorso venisse interrotto. Questo è uno dei passi più importanti, e tutti i generi teatrali debbono all'intelligenza ed al genio del tragico Ateniese. Anche il vestire degli attori ebbe una essenziale riforma. Prima di Eschilo essa era capricciosa, mentre lui la istituì analoga al soggetto, alle circostanze ed ai tempi dell'azione.
Il suo teatro non era mobile come quello di Tespi, ma fisso, e lo ornò di macchine e di decorazioni. Nell'arte del gesto egli intervenne raffinandolo facendolo bene apprendere agli attori.
L'effetto prodotto dalle sue rappresentazioni erano perfettamente d'accordo con quelle ch'egli si proponeva di ottenere. I suoi eroi per volere del cieco fato, compievono involontariamente anche grandi delitti, eppure non destavano orrore bensì compassione, e perciò riuscivano interessanti. Destavano compassione perchè tutti vedevano in essi altrettanti automi che agivano per volontà del Fato.
Una trattazione aristotelica della tragedia, chiama questo atteggiamento catarsi. Purificazione, liberazione o rasserenamento delle passioni. Per il filosofo la tragedia assolve una funzione di liberazione in quanto in essa lo spettatore rivive le passioni allo stato contemplativo.
L'immaginazione di Eschilo era forte ma disordinata e anche un poco selvaggia, abbondante di prodigi e poco verosimili i suoi drammi. Fu così talmente libero nell'usare certe espressioni che alla fine fu accusato di volgarità e empietà e condannato a morte. A sottrarlo dalla pena fu il fratello Aminia. Si ritirò in Sicilia, cordialmente ricevuto alla corte di Gerone, presso cui morì all'età di 69 anni nel 456.
Anche la sua morte, stando alla leggenda è inverosimile, come alcune sue tragedie. Si narra che essendo stato avvertito che doveva morire sotto le rovine di una casa, l'abbandonò e si assise nei campi, ma qui un aquila che aveva in bocca una testuggine, osservando la testa calva del nostro poeta, la credette una pietra dove lasciar cadere sopra la sua preda per romperne il guscio, e nel colpo il nostro tragico finì di vivere.
Se nella tragedia si rappresentavano grandi virtù e vizi in un ideale vita e ambiente, nella Commedia invece attori e vita, vizi e virtù, tutto era reale e comune.
SOFOCLE nato a Colono presso Atene (496-406), ancora in giovane età entrò quasi per caso in gara con Eschilo, più vecchio di lui di trent'anni e già famosissimo per tutta la Grecia.
Era un militare. Dopo aver comandate le armate ateniesi, dopo aver esercitato anche la carica di Arconte, essendosi gli Ateniesi resi padrone dell'isola di Sciro, stabilirono per ricordare annualmente un simile evento si indicesse un concorso di compositori di tragedie. Sofocle -fino allora sconosciuto- fu riconosciuto il migliore anche a preferenza del noto Eschilo che si trovava quel giorno nel numero dei competitori. Da quel momento Sofocle lasciò ogni altro impegno e si dedicò interamente a scrivere per il teatro, che stava allora diventando di gran moda e un oggetto di molta importanza. Sofocle il premio lo vinse per altre 20 volte. E - si narra- per un eccesso di gioia per aver vinto un ennesimo premio nel 406, all'età di 91 anni cessò di vivere.
Anche di Sofocle si conservano -delle centoventi che compose- solo sette tragedie: l'Edipo re, l'Antigone, l'Edipo a Colono, l'Elettra, l'Aiace furente, il Filottete e le Trachinierine. Rispetto ad Eschilo, Sofocle è un tragico perfetto, sovrano dell'espressione dei sentimenti.
Profondo conoscitore del cuore umano, fece che su di una sola persona girasse tutto l'intreccio, e che esclusivamente su questa sola persona si dovessero provare sentimenti di pietà, di sollecitudine e di timore. Ebbero quindi origine le tre tanto ricordate unità delle composizioni greche, cioè di luogo, di tempo e di persona. Eschilo le aveva già osservate, ma Sofocle seppe trattarle con maggior esattezza e con più ricercato artificio.
Il terzo dei grandi tragici, fu EURIPIDE (480-406) nato a Salamina nel giorno stesso nel quale i Greci riportavano la strepitosa vittoria in quel luogo contro i Persiani. Quantunque non molto più giovane di Sofocle, e talora in antagonismo con lui nei concorsi, tuttavia segna già la decadenza. Egli introdusse una novità, il prologo, che prima di lui era una parte della tragedia e svolgeva il principio dell'azione; con lui diventò quale lo intendiamo noi, e cioè il poeta faceva con esso intendere agli spettatori l'argomento del dramma in pochi versi. Tolta la curiosità della catastrofe, perchè già annunciata nel prologo, fu necessario a Euripide adottare un intreccio complesso e artificioso, attraverso una strana successione di fatti inaspettati, e tutto ciò a scapito della verosomiglianza. Nondimeno Euripide, appunto per il suo carattere artificioso e retorico, fu nei tempi posteriori, in cui la vera arte era scaduta, studiato più di Eschilo e di Sofocle, artisticamente a lui superiori. Questo è il motivo per cui di Euripide si conservò un maggior numero di drammi, una ventina; le Fenicie, l'Oreste, la Medea, l'Andromaca, l'Elettra, l'Ippolito, l'Ifigenia in Aulide, l'Ifigenia in Tauride, l'Ercole furioso, le Troadi e l'Alceste.Di Euripide abbiamo pure un dramma satirico, Il Ciclope.
Euripide possedeva una grande abilità nell'esprimere le passioni amorose, specialmente quando dovevano spiegare una particolare tenerezza; al patetico seppe unire il sublime. Tuttavia fu continuamente censurato, ed anche esposto al ridicolo, a quel punto Euripide stabilì di abbandonare Atene ritirandosi alla corte Macedone, ove fu accolto con tutti gli onori. Lì finì i suoi giorni dopo aver vissuto 78 anni.
Si vuole che la sua morte sia avvenuta tragicamente, come le sue tragedie; inoltratosi in una valle solitaria una muta di cani lo assalirono e fu da questi sbranato.
Dei poeti tragici minori non è qui il caso di parlare, anche perchè sono di gran lunga inferiori ai tre sommi di cui abbiamo parlato sopra, e perché di loro non restano che scarsi frammenti. Per la "Commedia" viene ricordato EPICARMO di Coo (524-435) - massimo esponente della commedia dorica siciliana) , il quale venuto in Sicilia alla corte di Gelone, scrisse molte commedia in dialetto dorico. Venne poi SOFRONE siciliano a scrivere i mimi, commedie che rappresentavano con la maggior imitazione scene della vita siciliana, escludendo temi mitici, e contenente molti proverbi. E sotto tale aspetto Sofrone fu precursore di Teocrito, per i suoi idillii dialogici, che sono pure altrettanti bozzetti della vita particolare e popolare siciliana di quel tempo. Ci sono di lui rimasti un centinaio di frammenti. Un suo grande ammiratore era Platone.
Ma la "Commedia" giunse ad aver la perfezione presso gli Attici, dove ebbe una storia che si divide in tre stadi: attica antica, media, moderna. L'antica era personale e politica. Si mettevano sulla scena uomini di Stato col loro nome, con la loro figura, col loro vestito; insomma gli attori erano fotografie dei personaggi rappresentati. 
La "Commedia" aveva, quanto alle sue parti, il prologo, come la tragedia di Eschilo e Sofocle, poi le altre parti dialogate. C'entrava anche il coro, che aveva una sua parte tutta speciale, che solo di rado mancava, detta parabasi. Essa consisteva in ciò che, quando l'azione era già avviata, in modo da destare interesse e curiosità, improvvisamente il corifeo o un attore speciale interrompeva l'azione, e passando dinanzi agli spettatori esprimeva le idee del poeta intorno l'argomento della commedia e lo scopo di essa, ecc. Quanto alla commedia attica di mezzo osserviamo che, mutati i tempi, non si permise più la satira personale politica, quale si manifestava soprattutto nel coro e nella parabasi, che esprimevano i pensieri del poeta; quindi si bandirono queste due parti. Con la commedia attica nuova il carattere personale scompare affatto : si satireggia il peccato e non il peccatore : invece di prender di mira i vizi gravi di un uomo solo, si satireggiano i piccoli vizi comuni a una intera classe. Si ebbe così la commedia di costume o di carattere, secondo il concetto moderno. Anch'essa come la media mancava di coro e di parabasi; del resto, a formarsi un concetto chiaro della sua natura, basta ricorrere all'imitazione che ne fecero i comici latini; giacchè della commedia di cui parliamo, come dell'attica media, non sono rimasti che scarsissimi frammenti.
Principale autore della commedia attica antica, per tacere di Eupili e Cratino, di cui poco sappiamo, fu il già citato Aristofane; di lui rimasero come detto sopra undici commedie, le sole commedie greche che giunsero fino a noi. Da esse noi ricaviamo il carattere della commedia attica antica. La sua vis comica, lasciata libera a sè stessa, è senza dubbio quanto di più vivace si possa immaginare : al suo confronto ogni altro autore può sembrare quasi privo di spirito. Certo è che con la sua libertà egli scrisse anche cose tanto licenziose da superare la licenza di qualunque romanzo verista. Per la commedia attica dell'età di mezzo non possiamo che ricordare i nomi di Antifone e Alessi, dei quali non restano che frammenti; della nuova menzioneremo sopra gli altri Menandro, fine e arguto (imitato da Plauto) e Filemone e Difilo, pur essi imitati dai commediografi romani. Il dialetto di tutte le commedie è attico puro.
L'ARTE FIGURATIVA
Contributi assai più notevoli arrecò l'arte figurativa. Atene rimase come lo era prima della guerra, la sua sede principale, benché peraltro lo Stato, a causa delle penose angustie finanziarie dalle quali non riuscì più a districarsi dopo la guerra del Peloponneso, non abbia potuto più esercitare a suo favore un'azione promotrice di qualche rilievo. 
Anche Sparta e Tebe fecero ben poco per l'arte. In generale, coerentemente all'indirizzo di idee dell'epoca, la costruzione dei templi, nella quale l'arte del periodo precedente aveva prodotto le sue opere massime, cominciò ad essere ora meno curata; in sostanza tutto si limitò alla riedificazione di templi distrutti da incendi o da terremoti. Così tutta l'Ellade contribuì alla ricostruzione del santuario delfico, quando questo rimase abbattuto dal terremoto del 373. Il tempio di Atena Alea a Tegea fu ricostruito sontuosamente dopo l'incendio del 395 sotto la direzione di Scopa ; da allora esso fu tenuto come il più bel tempio del Peloponneso. 
L'attività maggiore in questa materia fu spiegata nella Ionia, che era ritornata ora ad essere, come prima della fatale insurrezione dell'anno 500, la regione economicamente più fiorente del mondo greco. Il tempio di Apollo presso Mileto, che era rimasto un ammasso dì rovine dal tempo della sua distruzione ad opera dei Persiani, fu ricostruito in dimensioni colossali dagli architetti Peonio e Dafnide. Altrettanto si fece dopo l'incendio del 356 per l'Artemisio di Efeso, il santuario più venerato dell'Asia Minore; il nuovo edificio, eretto sotto la direzione di Democrate, fu ritenuto nei tempi posteriori come una delle sette meraviglie del mondo.
In compenso l'opera degli architetti dové cimentarsi in un altro campo. Lo sviluppo dell'arte drammatica fece si che ogni città greca volesse avere il suo teatro in pietra. Ebbe fama del più bello fra questi edifici il teatro costruito verso la metà del IV secolo da Policlito iuniore nei luoghi sacri ad Esculapio presso Epidauro ; esso in grazia della sua felice compagine è arrivato sino a noi quasi completo.
Ed alla fine anche Atene si decise a costruire il suo teatro, che sinora mancava di ordini di sedili in pietra e di un palco scenico fisso; l'opera fu iniziata dopo la guerra dei confederati e fu terminata a tempo di Alessandro. Anche lo stadio per le gare ginnastiche e per le corse dei carri fu eretto allora. Specialmente la monarchia pose all'architettura nuovi compiti, o a dir meglio richiese da essa la stessa opera che le aveva chiesta nell'età micenea. Famosi furono i palazzi che si fecero edificare re Archelao di Macedonia a Pella e Dionisio a Siracusa; anche ricchi privati cercarono di imitarne l'esempio. 
Il portato più grandioso dell'architettura di quest'epoca fu però la tomba che Mausollo di Caria si fece erigere nella sua capitale Alicarnasso dagli architetti Piteo e Satiro; sopra una vasta base quadrilaterale vi si ergeva un tempio di stile ionico, coronato da una quadriga. In seguito esso, come l'Artemisio d'Efeso, fu tenuto come una delle meraviglie del mondo. Questa tomba è stata distrutta a tempo dell'invasione turca, ma ha legato in eterno il suo nome - mausoleo - a tutte le tombe dello stesso genere.
L'ingegno dei Greci, essenzialmente plastico, doveva necessariamente trovare la sua migliora forma esplicativa, la sua più energica affermazione nell'arte scultoria, che toccò infatti un grado di perfezione, mai più raggiunto da alcun altro popolo. Come i Greci vivevano interamente, si può dire, della vita pubblica, la scultura fu di questa il rispecchio più fedele e più vivo, e si volse di preferenza a ritrarre gli dei, che Omero aveva umanizzato, e gli uomini e gli avvenimenti eroici. Poichè l'ideale di ogni artista greco era l'armonia e la bellezza delle forme corporee, questa egli si curava di rendere costantemente con uniformità d'espressione plastica, e di chiudere in uno stesso armonico giro di linee. La scultura greca trasse all'inizio dalla religione le prime ispirazioni, con le varie immagini degli dei poste nei templi, i frontoni si popolavano di statue, le metrope si fregiarono di bassorilievi.
Ma nel periodo della gloriosa epoca di Pericle, si attenua il carattere religioso. È a tal riguardo significativo il fatto che ora non furono più erette se non per rara eccezione statue d'oro e di avorio (con eccezione della Dea Pallade Atena e lo Zeus di Fidia) che presentassero agli occhi dello spettatore l'immagine della divinità in tutta la sua grandezza sovrumana. Statue degli dei di bronzo e di marmo ne furono senza dubbio costruite ora come prima in gran quantità; ma quelli che gli artisti modellavano non erano più dei, sebbene uomini idealizzati e spesso le immagini cadono nel manierato. Dal punto di vista tecnico l'arte aveva indubbiamente fatto notevoli progressi; essa era ora capace di riprodurre l'espressione dei sentimenti dell'animo. Accanto a quest'arte si sviluppò pure il genere del ritratto, favorito dall'uso che sempre più invalse di erigere statue in onore non solo degli dei, ma bensì di uomini benemeriti. Anche grandi letterati vennero in quest'epoca onorati in tal modo; e così anche dopo, al tempo di Alessandro.
Questo periodo della gloriosa epoca periclea, che coincide con il secondo periodo della scuola attica, ha il suo più grande rappresentante in Fidia, che dà all'arte un mirabile impulso, un'espressione di verità e di vita, quale non si era mai vista prima di lui. Anche se è il più famoso scultore dell'antichità, della sua vita si hanno poche notizie. Nato intorno al 500 a.C. in Atene sappiamo che gli fu maestro il grande argico Agelada. Amico di Pericle, ebbe da lui l'incarico di abbellire il Partenone, ed ecco dal suo scalpello creatore sorgere, nel tempio sull'Acropoli, Pallade Atena. Poi al tempio di Olimpia il famoso Zeus. Molte sue opere non sono giunte fino a noi. I frammenti che ci restano dei bassorilievi del tempio di Teseo e delle sculture del Partenone, sono oggi al Museo Britannico di Londra, ma bastano a darci un'idea dell'arte insuperabile del maestro.
Mirabili le cariatidi dell'Eretteo. Scolpì anche molte Veneri. Per questi capolavori i Greci dissero Fidia divino; tuttavia ciò non impedì che l'ingratitudine popolare gli avvelenasse gli ultimi anni della vita (lo accusarono di essersi trattenuto l'oro e l'avorio delle statue) 
Il carattere dello stile fiadiaco fu, secondo Plinio, la grandiosità e la magnificenza anche nelle cose piccole.
Prosecutore dell'arte fidiaca fu Alcamene, Callimaco e Policleto; ma forte fu l'influsso della grande genialità di Fidia nelle scuole che fiorirono in Atene e nelle Cicladi. La Venere di Milo esce appunto da una di queste scuole. 
Fra i maestri plastici di questo periodo emerge SCOPA, originario dell'isola di Paro, l'isola dei marmi. Egli diresse la ricostruzione del tempio di Atena a Tegea e poi verso il 350 lavorò al Mausoleo di Alicarnasso. Di lui si ricordano anche altre opere in gran numero; particolarmente celebrati furono i suoi gruppi in marmo, dei quali ci può dare un'idea il gruppo delle Niobidi esistente a Firenze, malgrado resti incerto se l'originale da cui esso deriva sia dello stesso Scopa, oppure sia opera d'altri che imitarono la sua maniera. 
Più famoso ancora fu l'ateniese PRASSITELE (verso il 350). La sua statua di Afrodite nel tempio di Cnido, con la quale egli osò per primo porgere senza velo agli occhi dello spettatore le bellezze della dea...
...ha esercitato sui contemporanei e sui posteri un fascino di illimitata ammirazione.
Anche un particolare della Venere di Cnidia (oggi in Vaticano) porge a noi oggi la possibilità di farci un'idea della perfezione della sua arte nel trattamento del marmo.
Accanto a questo originale stile di un maestro come Prassitele, i bassorilievi di stele sepolcrali attiche che ci sono pervenuti meritano invece posto modesto; sono lavori di artisti anonimi; in gran parte semplici operai dello scalpello, ma anche su di essi si diffonde il riflesso di una grazia e di una bellezza di forme che le epoche posteriori non hanno mai potuto eguagliare, e perciò sono proprio essi che dànno l'impressione più forte di quanto doveva essere alto il grado di capacità dell'arte attica di quel tempo.
Mentre gli artisti ateniesi lavorarono principalmente in marmo, nell'Argolide continuò a fiorire l'arte della fusione in bronzo, che aveva avuto là la sua patria fin dall'antichità. Il più grande maestro di questa tecnica fu ai tempi di ALESSANDRO LISIPPO di Sicione, uno degli artisti più fecondi dell'antichità, il figuratore della maschia bellezza, che nessun altro, anche in altri tempi, mai superò. Egli studiò di riprodurre al vero la realtà; a tale scopo creò un sistema proprio di proporzioni e col suo aiuto conferì alle sue figure uno slancio ed eleganza mai raggiunta da alcuno prima di lui. Egli infatti modellò a preferenza figure di atleti, e la copia in marmo di una di queste opere, il così detto Apossiomeno, esistente in Vaticano, è la più adatta a darci un'idea del carattere dell'arte sua. Anche il tipo ideale di Ercole è una creazione di Lisippo. Ma il genere nel quale produsse i suoi capolavori fu il ritratto; Alessandro non si volle far ritrattare che da lui, e Lisippo ha infatti modellato una lunga serie di statue del gran re. Dopo la vittoria al Granico gli fu commessa l'esecuzione del monumento ai caduti nella battaglia; esso era costituito da un gruppo di 25 cavalieri; è questo forse il più grande gruppo statuario eseguito sino allora.
Secondo Plinio, Lisippo scolpì più di 1500 statue, avendo come collaboratori i suoi figliuoli e alcuni discepoli.
Ma alla testa di tutte le arti in quest'epoca la pittura primeggiò in misura molto maggiore di quel che avesse fatto nel periodo precedente a datare da Polignoto; è a lui che Teofrasto dà il vanto d'inventore della pittura; lui ad usare nei suoi dipinti almeno tre colori fondamentali, il rosso, il giallo e il blu, a cui aggiunse un nero. Nel mescolarle seppe ottenere le tinte intermedie. Secondo Aristotele, Cicerone e Quintiliano, Polignoto si rese celebre principalmente per la bella forma delle sue figure, e perchè dava molto carattere alle stesse. Proprio Aristotele diceva "Passate dinanzi ai pittori che dipingono uomini come li vedono, e fermatevi davanti a Polignoto che li dipinge più belli".
Pausania dedica sette capitoli per narrare in successione i soggetti dipinti nella Laschè.
Tuttavia la scasezza di documenti rende la storia della pittura greca assai difficile, ed esercitò poca influenza sull'arte posteriore dell'Occidente (qualcosa poi a Roma, a Ercolano, in Licia) mentre si può dire che la scultura rimase, fino ai giorni nostri, il modello insuperato, e l'architettura greca successivamente non ebbe che una sola antagonista: la gotica.
La pittura sia per la natura stessa dell'arte pittorica, condannata a un rapido deperimento, sia perchè la tecnica così complessa, comprendente ad un tempo la prospettiva, la teoria dei colori e delle ombre, fosse ancora bambina, tuttavia si trovava ora nel pieno possesso della tecnica e quindi era meglio che la plastica in grado di riprodurre il vero e gli elementi psicologici. Se non che a suo riguardo, data la caducità delle opere di quest'arte, ci è negato quasi ogni possibilità di formarci un giudizio proprio; tuttavia le stele sepolcrali di recente scoperte a Pagase ci fanno per lo meno conoscere la tecnica della pittura di quest'epoca, per quanto questi lavori di dozzina restino certamente indietro di molto alle opere dei maestri dell'arte. A capo del movimento pittorico rimasere per qualche tempo gli Joni, che sfoggiarono figure variamente colorate, e il loro talento di narratori.
Anche a Calcide nell'Ubea l'arte della pittura era notevole, e narrava gesta di eroi.
A qual grado salisse l'arte della pittura, la si vede nei cosiddetti vasi a figure nere, che ci offrono una singolare varietà. Composizioni mitologiche e scene d'ambiente sono le rappresentazioni preferite.
Come uno dei più grandi pittori ci è segnalato ARISTIDE di Tebe, il cui fiorire coincide con l'ascensione politica della sua città in seguito alla liberazione dalla signoria di Sparta; egli è citato come il primo che avrebbe saputo conferire ai tratti del viso una espressione vivente. 
Non meno grande di lui fu EUFRANORE di Corinto, che, lavorò soprattutto ad Atene, dove dipinse una serie di affreschi famosi; anche come scultore egli produsse molte buone opere. Il suo discepolo, l'ateniese NICIA, lo superò forse come pittore; egli seppe ottenere grandi risultati mediante effetti di luce, e specialmente le sue figure di donne erano in sommo grado celebrate. Anche a Sicione la pittura fu coltivata con entusiasmo; qui esisteva una specie di Accademia, che sotto la direzione di PANFILO salì a tale fama che da ogni luogo vi affluirono scolari. In essa si dava particolare importanza alla correttezza del disegno, ma non perciò si trascurava la tecnica del colorito. Qui fu perfezionata infatti la « pittura encaustica », nella quale si adoperavano colori a cera e si mescolavano fra loro mediante assicelle di metallo arroventate, ottenendo così colori di uno splendore che non fu poi raggiunto nuovamente che dalla pittura ad olio. Il discepolo di Panfilo, PAUSIA, produsse in questa tecnica opere di gran valore; erano specialmente famosi i suoi fiori. 
Anche APELLE di Colofone ebbe la sua educazione artistica, o per lo meno la completò a Sicione alla scuola di Panfilo. Di qui egli venne chiamato a Pella dal re Filipppo e in seguito, dopo la liberazione della Jonia ad opera di Alessandro, ritornò nella sua patria. L'opera sua più più famosa fu l'Afrodite emergente dalle onde, da lui dipinta per il tempio di Esculapio a Cos, e che fece degno ed ammirato riscontro all'Afrodite di Prassitele. Nè meno grande egli fu come ritrattista cortigiano, e si narra che Alessandro gli cedette la sua più bella schiava Campaspe, la quale gli servì di modello per la celebre Venere Anadiomene. Assai pregiati furono i ritratti del suo munifico Alessandro il Grande. Con Apelle la pittura greca raggiunse l'apogeo della perfezione.
Sempre a Sicione dalla omonima scuola pittorica, abili caposcuola come Eupompo e Melanzio diedero grande importanza alla pittura idealista e all'insegnamento dell'arte, fondando una specie di accademia, visitata anche dagli stranieri.
E sempre la "Scuola Attica" (così chiamata benchè i suoi principali rappresentanti non vivessero ad Atene) diede splendidi frutti spingendosi oltre le tendenze psicologiche di Parrasio, compiacendosi di soggetti malinconici. Il già citato Eufranore e Nicia erano di questa scuola.

LA MUSICA

dei Dori (1000 a.C.); il secondo va fino alla guerra del Peloponneso e il terzo quello della decadenza fino alla conquista romana.

Tralasciamo l'epoca mitica. All'inizio del VI secolo, in Grecia, Olimpo il Giovane era celebrato quale inventore del genere enarmonico, e Terpandro (nativo di Lesbo e che visse a Sparta) il vero padre della teoria musicale, Egli infatti compose delle melodie (nomi) che durarono per tradizione lungo tempo e alle quali fu ascritta, a somiglianza delle melodie indiane, grande influenza sulla morale e sul costume. A lui si tributava pure l'onore di essersi servito di una notazione musicale e di aver aggiunto altre tre corde all'antica lira di quattro corde. Subito dopo, importanti per lo sviluppo della musica e specialmente per la teoria fu Pitagora, il celebre filosofo e matematico di Samo (580-504 a.C.) il quale nei suoi lunghi viaggi in Egitto e in Asia ebbe occasione di studiare la musica di quei paesi e di conoscerne i sistemi, che egli introdusse con alcune modificazioni nella sua patria: fu il primo che trovò i rapporti numerici fra i toni, servendosi del monocordo (cassetta risonante, sulla quale era tesa una corda, a cui si potevano applicare ponticelli mobili alteranti il tono della corda medesima).

Ai tempi di Pisistrato e ancor di più di Pericle il sorgere e lo svilupparsi della tragedia nazionale rappresentano l'epoca del maggior fiorire della musica greca.
L'importanza dei cori è massima in Eschilo, minore in Sofocle e in Euripide. Che i cori venissero cantati è ormai cosa certa, e sembra pure sicuro che la musica fosse scritta dai poeti tragici o almeno da loro designata, togliendola da canzoni popolari note, che si adattavano alla situazione e ai sentimenti espressi nelle loro tragedie. I cori consistevano in tre parti: strofa, antistrofa, ed epodo; le prime due erano cantate dai cori separati che si univano nell'epodo.
Benchè la musica greca non conoscesse la melodia nel senso moderno della parola non è ammissibile che la musica dei cori fosse semplicemente una recitazione cadenzata, ma deve essersi avvicinata per il carattere della sua poesia esprimenti considerazioni generali e sentimenti astratti, al genere melodico lirico; sembra poi che tanto i cori quanto la parte recitata fossero accompagnati da strumenti, probabilmente flauti e cetre. Alcune opere artistiche ce ne danno ampia testimonianza, come la bellissima suonatrice di flauto oggi al Museo Nazionale di Roma....
... o nelle decorazioni del vaso di Duride, oggi al Museo Reale di Berlino.
In entrambe le due opere i musicanti hanno in mano flauti e cetre.
Con la decadenza delle repubbliche greche cominciò pure l'epoca di decadenza della musica. La voce dei saggi che piangevano i tempi passati, era soffocata dalla folla che donava corone d'alloro al citaredo Frimi, al cantante Mosco, all'etera Taide, e innalzava un tempio alla flautista Lamia.
Poi sotto i Macedoni l'arte musicale perde ogni importanza fra gli uomini di cultura, e diventa un semplice sollazzo della plebe nei vari festeggiamenti e nelle chiassose baldorie. 
Restano solo qualche appassionato dotto che seguita a meditare sulle questioni teoriche musicali, e rivive il passato, come Aristosseno (detto l'Armonico 350 a.C.) che scrive e ci lascia tre libri di Elementi di armonia, in cui, a differenza delle teorie pitagoriche, viene istituito a giudice supremo l'udito e non le leggi matematiche; come più tardi (200 a.C.) Alipio, un frammento del quale sembra contenere un sistema di notazione musicale con lettere; come più tardi fece Plutarco (49 d.C.).
Alla Grecia era pure riservata la gloria di essere la prima a occuparsi di estetica musicale e a studiare la sua influenza sull'animo, sull'educazione e sullo sviluppo del carattere. Platone ascrisse alla musica una potenza morale: essa deve influire sul carattere, informarlo al bene e ispirare odio e ribrezzo per il male. Aristotele, d'accordo in genere con tali massime, riconobbe altresì nella musica lo scopo di dilettare (negato però da Platone) e, dilettando, di nobilitare l'animo.
Il sistema musicale greco si fonda sul tetracordo, serie di quattro toni corripondenti a quella della lira. Esso consiste in due toni e un semitono. La scala greca è composta di due tetracordi o congiunti da un tono comune o con un intervallo di un tono intero fra l'uno e l'altro.
I Greci avevano sette gamme, o toni, da essi chiamate modi; questi comprendevano due tetracordi separati, ossia otto note, o una estensione d'ottava, e servivano a determinare se non la tonalità nel senso che noi attribuiamo oggi a questa parola, almeno il punto di partenza di ciascun tono o frammento della scala. I sette modi erano i seguenti:
Il metodo di notazione era formato col mezzo di lettere dell'alfabeto distese, capovolte, modificate in vari modi e variava secondo le voci e gli strumenti. L'esecuzione comprendeva la musica vocale accompagnata da strumenti a corda pizzicati (i Greci non conoscevano l'archetto) o da strumenti a fiato. L'antica questione se i Greci abbiano conosciuto l'armonia nel senso moderno della parola sembra essere decisa negativamente.
Questa opinione ormai universalmente accettata, ebbe la miglior conferma nella scoperta (1893) dell' Inno ad Apollo, trovato a Delfo, probabilmente del II secolo a.C.: esso è inciso su una pietra e contiene oltre al testo anche i segni musicali sopra ogni sillaba, corrispondenti a quelli che abbiamo di Aristosseno. Il suo valore è inestimabile, perchè è l'unico monumento genuino d'importanza, che ci resta della musica greca. Gli altri frammenti conservatici sono i tre inni di Mesomede, pubblicati per la prima volta da Vincenzo Galilei nel Dialogo della musica antica (1581), un frammento dell'Oreste di Euripede, uno scolio scoperto sopra un epitaffio a Tralles e pubblicato nel 1891 da O. Crusius, e altri frammenti quasi indecifrabili scoperti nel 1893 a Delfo insieme con l'inno ad Apollo.
Le speranze che si nutrivano, d'aver trovata la chiave della musica greca, furono quasi interamente deluse e bisogna concludere che o noi non siamo capaci di decifrare quei frammenti o il nostro modo di sentire la musica è affatto differente da quello dei greci.
Quanto agli strumenti suonati dai Greci, aggiungeremo che oltre agli strumenti a corda (a pizzico) e a fiato (flauti, clarinetti, trombette, corni) essi ebbero più tardi anche strumenti simili ad organi. Tuttavia gli strumenti più prediletti dai Greci furono però quelli a corda (lira e cetra). Meno amati, e importati dall'Asia Minore, quelli a fiato.
A CURA DI DANILO PICCHIOTTI
 Bibliogrfia e testi
Varie citazioni di Pausania, Cicerone, Strabone, Quintiliano, Plutarco, Plinio
SENOFONTE, Anabasi
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECIA
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1/6 - Sei 
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI
STORIA UNIVERSALE , CURCIO, VOL.2/20

L'ERETICO GALILEO GALILEI La chiesa condannò lo scienziato nel 1632 per aver infranto il dogma della cosmologia cattolica.

"Si narra che il martedì grasso del 1632, nelle piazze d'Italia girava questa stornellata popolare: "il saggio Galileo / diede un'occhiata al cielo / e disse: "Nella Genesi non c'è nulla di vero!" / bel coraggio! Non è cosa da poco: / oggi queste eresie / si diffondono come malattie. / Che resta se si cambia la Scrittura? / Ognuno dice e fa quel che gli comoda / senza aver più paura. / Se certe idee fan presa, gente mia, / cosa può capitare? Non ci saran più chierici alla messa, / le serve il letto non vorranno più fare / ..Brutta storia! Non è cosa da poco / il libero pensiero è attaccaticcio / come un epidemia. /Dolce è la vita, l'uomo irragionevole, / e tanto per cambiare far quel che ci talenta è assai piacevole! Pover uomo che dall'età remota / obbedisce al Vangelo e a chi governa / e porgi l'altra gota / per conquistar la ricompensa eterna, / per obbedire più, diventa saggio: / è tempo ormai di vivere ciascuno a suo vantaggio / Mentre il cantastorie si ferma, ecco apparire un fantoccio di grandezza superiore all'umana, Galilei che si inchina verso il pubblico. Davanti a lui un bimbo porta una gigantesca Bibbia aperta, dalle pagine cancellate, e il cantastorie riprende: "ecco Galileo Galilei l'ammazza-Bibbia! "
(B.Brecht: Vita di Galileo)
 BIOGRAFIA
Piritratto di nacque a Pisa il 15 Febbraio 1564 da genitori della media borghesia. Nel 1574 assieme alla sua famiglia si trasferì a Firenze, dove compì i primi studi di letteratura e logica.
Nel 1581 per volere del padre si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pisa, ma per questa disciplina non mostrò alcun vero interesse e tornò a Firenze.
Approfondì la matematica e cominciò a compiere osservazioni di fisica con la guida di Ostilio Ricci.
Col passare del tempo formulò anche alcuni teoremi di geometria e meccanica. Dallo studio di Archimede nel 1586 scoprì la bilancetta per determinare il peso specifico dei corpi.

Nel 1589 ottenne la cattedra di matematica all’Università di Pisa. Rimase qui per tre anni e scoprì fra l’altro la legge di caduta dei gravi.
Nel 1598 insegnò matematica all’Università di Padova e ci rimase per 18 anni. La sua legge di cui Keplero riconobbe subito l’esattezza e l’importanza, fece accrescere enormemente la fama di Galileo che riconquistò il posto di matematica dello studio di Pisa.

Dopo il 1609, anno in cui Galileo costruì il cannocchiale, ci furono tutte le sue grandi scoperte astronomiche ma venne ammonito dal cardinale Bellarmino  per le sue idee copernicane, che lo misero in urto sia con le gerarchie ecclesiastiche sia con i laici aristotelici.

Galileo  comunque proseguì i suoi studi, pubblicò nel 1623 IL SAGGIATORE e continuò a lavorare al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Tolemaico e Copernicano).
Il Dialogo fu stampato nel Febbraio 1632 e già nel Settembre Galileo veniva citato dal papa a comparire al S. Uffizio di Rocca. Era recidivo. Il processo durò fino al Giugno del 1633.
Dal carcere a vita passò invece solo alla più mite pena del trasferimento a Siena e in seguito a risiedere nella sua casa di Arcetri che sarebbe stata il suo "carcere" ed esilio fino alla morte. Perse progressivamente la vista e morì alle 4 di mattina l’8 Gennaio 1642. 
Poche settimane dopo nasceva NEWTON 
( In India direbbero che ci fu una trasmigrazione dell'anima! )
 A CURA DI PICCHIOTTI DANILO

L'ARTE ROMANTICA A cura di danilo picchiotti

Il romanticismo si afferma in Europa intorno al 1830, presentandosi con caratteristiche diverse da nazione a nazione.
Il romanticismo rivaluta le sfere della passione, dell'irrazionalità e del sentimento che erano state messe da parte in favore della razionalità nel periodo neoclassico, rivalutando anche, in questo modo, il genio individuale e l'ispirazione.
Mentre il neoclassicismo si rifà all'arte classica, il romanticismo si rifà al medioevo che fino a questo momento era considerato un secolo buio e decadente.
La poetica romantica si basa sul concetto che la natura nonproduce il bello ideale, ma immagini che possono ispirare due sentimenti fondamentali: il pittoresco e il sublime.
Secondo le teorie di Burke il pittoresco e il sublime sono due opposti tra loro, il sublime non nasce dal bello, ma nasce dai sentimenti di paura e di orrore del vuoto e dell'infinito. Secondo Kant il sublime nasce dal conflitto tra sensibilità e ragione e dal sentimento di sgomento, di fragilità che prova l'uomo difronte allo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali.
Il pittoresco è la categoria estetica dei paesaggi e del sentimento della rovina che ispira la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, ispirando allo spettatore commozione per il tempo che passa.
In Italia il fenomeno romantico, che coincide con la fase storia del risorgimento (1820 1860), è meno sentito che nel resto d'Europa, sono del tutto assenti le tensioni mistico-religiose e il gusto per il tenebroso e l’orrido caratteristici del romanticismo dell'Europa del nord.
Il sentimento civile e politico di questo periodo unifica tutte le arti, dalla letteratura alla pittura e alla musica.
Insieme con la letteratura, la pittura è la forma d’arte più importante di questo periodo. 
Dal punto di vista dei contenuti, la pittura romantica si ispira in genere ai grandi temi storici, con preferenza per i momenti di lotta patriottica e popolare, per i fatti di cronaca e di vita quotidiana. Si afferma, inoltre, anche il genere del paesaggio.
Protagonisti della pittura a carattere storico sono Francesco Hayez, Giuseppe Bezzuoli, Massimo D’Azeglio; i protagonisti della pittura di paesaggio italiana sono: Giacinto Gigante, uno degli esponenti della Scuola di Posillipo, e Antonio Fontanesi. 
Nell’ambito del romanticismo italiano è ancora da ricordare un altro movimento che viene chiamato la Scapigliatura che ha il suo maggiore esponenete in Giovanni Carnovali detto il Piccio.

L'arte bizantina

Si definisce bizantina l’arte che nasce a Bisanzio dopo il IV secolo d.C. quando l'impero romano si divide in due parti: l'Impero d’Occidente con capitale a Roma e l'Impero d’Oriente con capitale a Bisanzio. 
Nel Vi secolo d.C., dopo la caduta dell'impero d'Occidente, l'esercito dell'imperatore d'Oriente Giustiniano, sbarcò in Italia per liberarne i territori dalla popolazione barbarica dei Goti. 
In quel periodo centro artistico e culturale molto importante fu Ravenna dove aveva sede l’esarca.
L'arte di questo periodo è caratterizzata da una predilezione per edifici
pianta centrale, per esempio il Mausoleo di Galla Placidia con una splendida decorazione a mosaico.
La scultura fu poco usata in questo periodo, per lo più si tratta di elementi architettonici come capitelli, pulvini, cornici di porte o sarcofagi.
Per quanto riguarda la pittura durante il periodo di influenza bizantina si ha una predilezione per l'uso della decorazione a mosaico piuttosto che l'affresco, per esempio nelle chiese di Sant'Apollinare in classe e Sant'Apollinare Nuovo sempre a Ravenna. I soggetti rappresentati in genere sono scene sacre, paesaggi, animali, figure di santi, lo sfondo quasi sempre è dorato. 
Mausoleo di Galla Placidia
Il Mausoleo di Galla Placidia è un'edificio a pianta quasi a croce greca, coperto da volte a botte sui quattro bracci e da una cupola al centro. All'esterno si presenta in semplici mattoncini di cotto privi di decorazione, la cupola non è visibile perchè coperta dal tiburio.
L'interno è riccamente decorato da mosaici e marmi preziosi che danno un senso di dilatazione dello spazio architettonico.
Mausoleo degli Ortodossi o Neoniano
Il Mausoleo degli Ortodossi o Neoniano ha una pianta ottagonale con absidi su quattro lati. L'esterno è in mattoni, mentre l'interno ha una decorazione su tre ordini sovrapposti: i due inferiori hanno un doppio ordine di arcate poggianti sui pulvini riccamente scolpiti; le arcate della zona intermedia sono decorate con stucchi; la parte superiore con la cupola è decorata da un fastoso mosaico rappresentate il Battesimo diCristo. 
Basilica di Sant'Apollinare Nuovo

La Basilica di Sant'Apollinare Nuovo è un'edificio a tre navete di cui quella centrale terminante in un'abside. La decorazione a mosaico si svolge in tre fasce lungo la navata centrale: in quella inferiore è rappresentato il Palazzo di Teodorico e le processioni di Santi Martiri e Sante Vergini che presentano caratteristiche proprie dell'arte orientale come la frantalità, la bisdimensionalità, la mancanza di volume e la fissità degli sguardi delle figure. La decorazione della fascia intermedia situata in riquadri tra le finestre rappresenta figure, mentre quella superiore è costituita da piccole scene.
Mausoleo di Teodorico
Per conservare le sue spoglie l'Imperatore Teodorico fece costruire un mausoleo interamente edificato in pietra d'Istria. L'edificio ha una pianta decagonale sormontato da una grande cupola monolitica. Gli elemenit decorativi sono di gusto barbarico.
Chiesa di San Vitale

La Basilica di San Vitale a Ravenna fu edificata nel 547. Ha una pianta ottagonale, anche in questo caso l'esterno è molto semplice in mattoni, mentre l'interno è riccamente decorato. Tra i mosaici che la decorano, quelli del presbiterio sono i più importanti, tra i quali ci sono i pannelli raffiguranti Giustiniano e Teodora accompagnati da dignitari e dame. Anche questi mosaici sono caratterizzati dalla bidimesionalità e fissità frontale delle figure nonchè dalla preziosità delle vesti e dei gioielli.
Basilica di Sant'Apollinare in Classe
Anche la basilica di Sant'aPollinare in Classe presenta caratteristiche tipichedel gusto bizantino. I mosaici del catino abdsidale sono divisi in due fasce, al centro vi è la croce gemmata, in basso Sant'Apollinare attorniato da dodici pecore che simboleggiano gli Apostoli, tutta la zona inferiore è un giardino fiorito.

STORIA DELL'ICONA UCRAINA a cura di danilo picchiotti

La Rus 'di Kyiv-Ucraina ha adottato da Costantinopoli o dalle scuole di iconografia da essa dipendenti sia la tecnica che lo stile e perfino gli iconografi ed i mosaicisti. Benchè abbia conservato la tradizione dell'iconografia bizantina, da poco la Rus-Ucraina ha sviluppato un suo proprio stile e una sua propria versione. Nello stile della Rus-Ucraina prevale un'interpretazione dei volti più delicata, con colori più chiari e leggeri e l'imposizione abile dell'oro sullo sfondo delle icone, sui nimbi e sulle decorazioni degli abiti, particolarmente gli abiti di Gesù Cristo e della Madre di Dio. Questa tecnica della sovrapposizione di sottili strati d'oro sull'icona è chiamata assist.Una grande attenzione è data all'sovrapposizione graduale degli strati trasparenti dei colori e della loro fusione delicata; gli strati sono chiamati acquerello. Quindi, le linee decisive delle composizioni tradizionali non sono state lanciate da parte. Nestor il Cronista dice che l'iconografo più famoso dei tempi della Rus' di Kyiv fu Alimpij, un monaco del monastero delle Grotte di Kyiv. Alimpij, ha lavorato dalla fine dell'undicesimo all'inizio del dodicesimo secolo, aveva imparato dai greci poi è diventato un iconografo indipendente ed originale. È considerato l'autore della maggior parte delle icone nella cattedrale della Dormizione della Madre di Dio nel monastero delle Grotte. La scuola di Kyiv ha istruito molti altri iconografi anonimi, che hanno creato innumerevoli capolavori a Kyiv e in altri centri della Rus' di Kyiv. Gli iconografi dell'intero stato di Kyiv hanno studiato e fatto pratica nella capitale ed hanno invitato anche altri maestri a lavorare con loro.Teofano il Greco e l'iconografo russo Andrei Rublev hanno elevato alcune tecniche iconografiche tipiche della scuola di Kyiv, per esempio quelle dell'acquerello e dell' assist , ad un livello molto alto. Sono riusciti a creare una nuova armonia di colori e a comunicare così un senso di pace e di gioia. Altre scuole famose, in città come Mosca, Jaroslavl', Pskov e Tver, si sono sviluppate più tardi ed hanno portato alcune novità all'iconografia tradizionale.Ritornando all'iconografia della Rus'-Ucraina, si deve dire che dal tredicesimo alla metà del diciassettesimo secolo l'iniziativa dell'iconografia è stata presa dalla Halychyna e dalla Volyn' (Ucraina occidentale). Ciò è accaduto in conseguenza di periodi oscuri nella storia: gli attacchi dei mongolo-tartari all'Ucraina orientale e centrale. La vita della chiesa ha sofferto a causa dei molti attacchi delle orde, così l'iconografia, in gran parte d'Ucraina o ha cessato di esistere o era molto limitata.L'Ucraina occidentale ha adottato le tradizioni della scuola di Kyiv e le ha sviluppate. Più tardi, nelle icone di Halychyna, sono comparse quelle che ora sono le caratteristiche originali. Grazie ad un gran numero di icone che sono state conservate fino ad oggi, e alla loro alta qualità, le icone di Halychyna occupano un posto chiave nell'iconografia ucraina.
L'iconografia dell'Ucraina di Transcarpazia, della Slovacchia e della zona dei Lemko (ora in Polonia) è un fenomeno molto interessante nella storia della chiesa e si è sviluppata principalmente dal quindicesimo al diciassettesimo secolo. A quel tempo, i padroni dell'arte hanno sponsorizzato le tendenze del Rinascimento ed hanno dato soldi per ornare le grandi chiese. Le più piccole, tuttavia, che non potevano pagare maestri costosi, avevano assunto iconografi itineranti dalla Halychyna. In quel tempo il centro principale era Przemysl (ora in Polonia).Questa scuola ha trovato un suo stile semplice, originale, sincero, diretto, fresco. Fin da allora questo tipo di iconografia era molto diffusa e ancora oggi è considerata un'alta e originale interpretazione della tradizione bizantino orientale. Nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, in Ucraina centrale, il barocco, diffuso in tutta Europa, è entrato nell'iconografia ucraina. Il maggior sviluppo dello stile "barocco cosacco" si è avuto al tempo di Ivan Mazepa. Il suo stile realistico è entrato così fortemente che l'iconografia bizantina, in larga misura, è stata sostituita con il naturalismo di stile occidentale. Simili tendenze sono comparse in tutta l'Europa Orientale. In molti paesi di rito orientale il naturalismo ha dominato pienamente. La Grecia , l'Ucraina, la Romania , la Bulgaria , la Russia ed altri paesi hanno accettato questa influenza culturale e l'hanno assimilata.In seguito ci sono state molte altre scuole artistiche che hanno influenzato l'iconografia. Alcune di esse oggi ci possono sembrare strane, ma è necessario ricordare che la vita spirituale e culturale dei vari periodi storici ha portato a questi cambiamenti. Non è possibile cambiare la storia e non si può fare altro che prenderne atto.Oggi l'iconografia in Ucraina, così come in altri pæsi dell'Est, sta rinascendo. Attualmente, in questo campo, viene condotta una ricerca storica. C'è un forte impegno a rinnovare le tradizioni native della Rus'di Kyiv-Ucraina e questo non soltanto in riferimento all'iconografia ma anche alla spiritualità cristiana in generale.In breve è quindi necessario vedere le differenze fra l'arte orientale e quella occidentale. Nell'undicesimo e dodicesimo secolo, l'arte orientale ed occidentale avevano molti aspetti in comune. Più tardi, l'idea del compito affidato all'arte religiosa nell'ovest è cambiato completamente. Questo processo è iniziato nel nono secolo, al tempo di Carlo Magno. Il pensiero occidentale ha evidenziato due funzioni diverse: secondo la teologia occidentale, l'arte religiosa, in primo luogo, aveva il compito di istruire i fedeli, in particolare gli analfabeti e, in secondo luogo,doveva rappresentare l'uomo che si eleva a Dio.Il pensiero orientale condivide pienamente il primo principio, ma non lo enfatizza così fortemente come l'ovest. Quanto al secondo, la teologia orientale ha un metodo totalmente differente. I santi orientali non sono dipinti come esseri umani naturali, ma per quanto è umanamente possibile con gli strumenti a disposizione, come persone trasfigurate, come se fossero già alla presenza divina. Per un confronto obiettivo, forse sarà più opportuno prendere in considerazione il pensiero di un famoso scienziato occidentale in iconografia ed in arte ecclesiastica, Egon Sendler: “L'arte religiosa occidentale, ha incontestabilmente un contenuto dogmatico ed è fondata sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione. Tuttavia, nelle sue forme e tecniche si rifà in gran misura all'arte di un'epoca o di un'altra. L'arte orientale, al contrario, richiede che l'artista, nell' interpretazione personale di un determinato tema, aderisca strettamente al contenuto teologico della Tradizione. Questa tradizione è precisa e ricca ed è per questo che le forme create dall'arte bizantina sono motivate sempre dalla visione di fede, in misura maggiore di quelle create dalla tradizione occidentale."Di conseguenza, l'arte religiosa occidentale va spesso in parallelo con la tendenza di un determinato periodo storico. In un certo senso questo la rende interessante e moderna. Tuttavia, quando i tempi cambiano, e il moderno diventa non-moderno, è necessario ripartire nuovamente. L'iconografia orientale invece, ha il compito di testimoniare le verità immutevoli di Cristo. La Sacra Scrittura è immutevole, ma sempre fresca e scorrevole e l'iconografia lo è altrettanto. Ci sono differenti traduzioni della Sacra Scrittura, ma l'essenza è la stessa. Così per l'iconografia: sono state create differenti versioni e stili, ma l'essenza è la stessa. L'iconografia è la fede a colori.Un artista occidentale ha chiesto all'autore di queste icone: "Perchè le vostre icone orientali sono sempre simili l'una all'altra? Perchè ripetete le stesse composizioni?" ed egli ha risposto "Cambiate forse voi il Credo annualmente o professate sempre lo stesso?". "Chi cambierebbe il "Credo?"" "Allo stesso modo, anche noi manteniamo sempre le stesse tradizioni dell'iconografia, poichè è la nostra dottrina religiosa a colori."L'autore, il prof. Yakiv Krekhovetsky, autore del libro “Teologia e spiritualità dell'icona”. Dottore di Teologia. Insegna nelle università degli Stati Uniti e di Canada, nell'estate del 1999 ha insegnato al corso estivo di teologia a Univ (Ucraina) che è stato co-patrocinato dall'Istituto degli Studi Slavi Orientali del Metropolita Andrey Sheptytsky (Ottawa, Canada) e dall'Accademia Teologica di Lviv.

ICONA (ARTE) A cura di danilo piccchiotti

il termine icona deriva dal greco "eikon", che può essere tradotto con immagine, e nel campo dell'arte religiosa identifica una raffigurazione sacra dipinta su tavola.L'icona è l’espressione del messaggio cristiano affermato nel Vangelo attraverso le parole. Si tratta di una creazione bizantina del V secolo. L’occasione fu offerta dal ritratto della "Vergine odigitria" attribuito dalla tradizione a San Luca evangelista. Quando nel 1453 l’Impero Romano d'Oriente crollò, i popoli balcanici contribuirono ad incrementare sia la produzione sia la diffusione di queste raffigurazioni sacre. In Russia, l’icona assume un significato molto particolare e di grande importanza. Il simbolismo e la tradizione non coinvolgevano solo l’aspetto pittorico, ma anche quello relativo alla preparazione e al materiale utilizzato, oltre alla disposizione e al luogo entro il quale l'opera andava collocata.Caratteristiche generali Le icone erano dipinte su tavolette di legno, generalmente di tiglio, larice o abete. Sullo strato interno della tavoletta in genere era effettuato un solco che veniva chiamato “scrigno”. Sulla superficie che veniva così a crearsi, si cominciava a tratteggiare il disegno.Si partiva con uno schizzo della rappresentazione, il successivo processo era quello della pittura. S’iniziava colla doratura di tutti i particolari (bordi dell’icona, pieghe dei vestiti, sfondo e corone). Quindi si cominciava col dipingere i vestiti, gli edifici e il paesaggio. Le ultime pennellate venivano effettuate colla pura biacca. L’effetto tridimensionale veniva reso da tratti più scuri distribuiti in modo uniforme. Successivamente balenii di luce chiari, ottenuti coll’ocra mescolata alla biacca, erano posti sulle parti in rilievo del volto: zigomi, naso, fronte e capelli. La vernice rossa era disposta in uno strato sottile attorno alle labbra, sulle guance e sulla punta del naso. Infine con una vernice marrone chiara erano dipinti gli occhi, le ciglia ed eventualmente i baffi o la barba.L’iconografia richiedeva grande preparazione tecnica e spirituale. Il pittore si preparava appositamente per creare l’opera iconografica: un atto che gli permetteva di entrare in stretto rapporto con il divino ed esigeva una profonda purificazione mentale, spirituale e fisica.Le icone erano considerate opera di Dio stesso, che esprimeva la sua perfezione attraverso le mani dell’iconografo, risultava dunque inopportuno porre sull’icona il nome della persona di cui Dio “si era servito”. I volti dei santi rappresentati nelle icone sono chiamati liki: ovvero volti che si trovano fuori dal tempo, eternati dalla pittura iconografica. È un volto trasfigurato e trasformato che ha abbandonato la dimensione della passioni terrene ed è totalmente inserito in quella spirituale, al di là del tempo e dello spazio. Pur essendo trascinati e coinvolti in questa dimensione, mantengono la loro dimensione umana: restano uomini e in qualità d’essere umani mantengono l’immagine di Dio sul loro volto.Il ruolo del tempo e della storia nelle icone tradizionali
Madonna col bambino in un'icona russaPer meglio comprendere il ruolo delle icone è necessario considerare la concezione medioevale del sacro, del tempo e dell'uomo. La distinzione fondamentale si ebbe con l’inizio del Rinascimento, prima di allora la concezione del tempo era pressoché uguale in tutto il mondo cristiano. Con l’inizio dell’epoca rinascimentale l’Europa, a differenza di Bisanzio, si mosse verso una nuova concezione del tempo. Gli sviluppi ai quali il Rinascimento ci ha condotti, specialmente in campo storico e artistico, hanno fatto in modo che in Europa si venissero a creare due filoni ben distinti: il primo, quello che conosciamo bene e quello che ci ha portati ad una maggiore consapevolezza della storia e dell’arte in generale, la retrospezione ha coinciso con la nascita delle varie scienze artistiche, come ad esempio la prospettiva e il riconoscimento della localizzazione spazio-temporale degli avvenimenti. È nato un nuovo tipo d’uomo: l’uomo cosciente delle proprie capacità ed incline all’azione. Nell’Europa orientale e in particolare nella Russia e a Bisanzio, la concezione non mutò e si rimase profondamente legati alla tradizione ereditata dai padri della chiesa (Sant'Agostino e la scolastica). La storia è semplicemente divisa in due tempi: quello prima della venuta di Gesù Cristo e quello dopo. Il tempo era un concetto inapplicabile prima della creazione del mondo, è un concetto che mal si concilia con Dio, basti pensare ai suoi attributi d’ineffabilità, immortalità, alla sua onnipresenza immutabile. Dio per definizione è ingenerato e imperituro. Nelle classiche icone bizantine questo è rappresentato dalla tre lettere greche () e dalla croce innestata nell’aureola del Cristo. La traduzione può essere: “essente”, ”è sempre stato” ”è” e “sempre sarà”. Il che ricollega al vero nome di Dio: Yahveh, ossia “colui che è”. Il mondo risulta dunque essere un progetto divino con un inizio e una fine, ogni evento nella vita degli uomini è una manifestazione dell’onnipotenza divina. Le immagini sono così raffigurate fuori del tempo, perché i santi hanno già avuto accesso alla vita eterna e al mondo divino. Lo sguardo delle icone è ricercato, volto a suscitare inquietudine, agitazione paura, ma anche speranza, si tratta di sguardi provenienti dall’eternità. Le immagini d’Andrej Rublëv (1360/1430) sono abbastanza chiarificatrici per quanto riguardo questo aspetto.Un’icona è arte?La comprensione delle icone può risultare difficile, specie se osservate con l'ottica della cultura occidentale europea. Tali raffigurazioni sacre non possono essere dunque paragonate a quadri: questi, e in genere le raffigurazioni pittoriche, rappresentano uomini, una realtà concreta che si "muove", le immagini sono tridimensionali, ci raccontano ciò che noi vediamo ogni giorno, i temi sono sempre tradotti in linguaggi terrestri. Anche la pittura impressionistica e l’arte astratta sono rappresentazioni di emozioni, di uno stato del poeta che non può essere fisso o definito secondo canoni stabiliti in precedenza. Le icone rappresentano fedelmente ciò che troviamo scritto nelle Sacre Scritture, non sono semplici raffigurazioni, non possono essere giudicate con gli stessi caratteri di un quadro, né possono avere lo stesso ruolo di un dipinto. L’icona può essere vista come una finestra spirituale aperta a tutti coloro che sono in grado di coglierne l’essenza. Per coglierla con la giusta sfumatura bisogna mettersi nei panni del credente, ed entrare nella convinzione che Dio sia il giudice ed il supremo occhio che osserva e al quale nulla sfugge. Alcuni ritengono pertanto che non sia appropriato definire l’icona come una semplice rappresentazione artistica.Significato dell'iconaL’icona non è un simbolo, ma esprime mediante un codice simbolico il messaggio di salvezza. L’icona è la rappresentazione grafica del messaggio delle Sacre Scritture. Il testo può essere letto solo da chi ha reale competenza ed è in grado di conoscere i simboli presenti nella raffigurazione sacra. Nella Russia troviamo le vere icone tradizionali. La Russia non si è limitata ad assimilare la tradizione greca, ma ha anche contribuito ad arricchirla generosamente. L’iconografia va vista nell’ottica di un gran lavoro globale, al quale attraverso le proprie opere contribuiscono tutti gli iconografi. La sacra tradizione del passato, incarna allo stesso tempo i valori di rispetto e devozione, inoltre fornisce al pittore i binari sui quali portare avanti la propria esperienza. In ambito russo, il filosofo e mistico Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) fu tra i principali teorici dell'arte delle icone, individuandone i significati simbolici e le preziose valenza spirituali.All'esoterista italiano Tommaso Palamidessi (1915-1983) si deve un ulteriore tentativo di charire la logica spirituale dell'icona, in un testo in cui sono spiegati in dettaglio il simbolismo dei colori, delle forme, delle proporzioni, e le tecniche per realizzare un'icona sacra in grado di trasmutare la coscienza umana (L'icona, i colori e l'ascesi artistica, 1986).Simbolismo delle Icone sacre Come in tutte le raffigurazioni sacre, i colori assumono un’importanza fondamentale, così come le caratteristiche ricorrenti fanno tutte capo ad una ben precisa tradizione.Il blu, ad esempio, rappresenta il colore della trascendenza, mistero della vita divina.Il rosso è indubbiamente il colore più vivo presente nelle icone: è simbolo dell’umano e del sangue versato dai martiri.Il verde è spesso usato come simbolo della natura, della fertilità e dell’abbondanza.Il marrone, invece, simboleggia ciò che è terrestre e nella sua natura più umile e povero.Il bianco è il colore dell’armonia, della pace, il colore del divino che rappresenta la luce che è vicina.Le lettere dipinte sull’icona assumono un particolare valore: le icone del Cristo presentano sempre la dicitura “IC XC” (forma greca abbreviata di Gesù Cristo) e anche “O ΩN” ("colui che è"; il simbolo è generalmente inserito nell’aureola). La vergine Maria invece, presenta la dicitura “MP OY” (V. Icona Eleusa di Biancavilla (Ct)in Sicilia)(forma greca abbreviata di Madre di Dio); vicino al nome possono comparire altre diciture, come ad esempio “Onnipotente”, “Datore di Vita”, “Vergine Madre”Le espressioni dei personaggi hanno sovente un grande valore simbolico: Gesù Cristo viene rappresentato mentre benedice ed indica con la mano il numero tre (la Trinità). La Vergine Maria viene dipinta con la mano che indica il Figlio che porta in braccio.

Kandinskij: astrazione e misticismo

La concezione dell’arte di Kandinskij nasce dalla connessione di interiorità e astrazione. Nello Spirituale nell’arte Kandinskij tenta di individuare, attraverso l’analisi del colore, della forma e della com- posizione, la possibilità di rivoluzionare il significato dell’operazione pittorica. Tale possibilità è data dal «principio interiore» e non più esteriore, ossia naturalistico, dell’arte. In base a questo principio Kan- dinskij può infatti affermare che, come al colore corrisponde una particolare vibrazione spirituale, così alla forma corrisponde «l’estrin- secarsi di un contenuto interiore» e alla composizione la «risonanza», in quanto principio interno della composizione stessa. In questo mo- do il colore, la forma e la composizione – intesi come architetture di suoni interiori – partecipano di quella stessa qualità astratta che è propria della musica e del suo carattere non-oggettivo. È questa equivalenza colore-suono a far sì che l’arte si estranei dal mondo. In tale nientificazione del mondo delle cose consiste quel misticismo insito nell’astrattismo di Kandinskij, che crea un mondo di entità non-oggettive, inesistenti e tuttavia reali. Il rimando a un agire interiore dà infatti luogo a un non-oggetto che, analogamente a ciò che avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere del- le cose rispetto a quello della loro forma reale. La necessità interio- re di Kandinskij, la ricerca sottesa alla sua pittura astratta, si pone come ‘altro’ rispetto al mondo delle cose e quest’ultimo trova in essa la sua unità. Così, se Kandinskij parla di «costruzione occulta», è perché quanto apparentemente sembra casuale sulla tela è invece in- teriormente fuso. Viene così contrapposta a un mondo disgregato l’esigenza di ricostituire interiormente una nuova totalità. In Kandinskij attività pittorica e attività teorica sono strettamente connesse. Al centro di questa duplice attività è il tema dell’immagine che, intesa come icona, resta sempre al di là del linguaggio descritti- vo e rappresentativo. La rottura radicale che compie Kandinskij ri- spetto alla raffigurazione mimetica è legata alla sua scoperta del va- lore dell’interiorità e, d’altro canto, il passaggio al non-figurativo si presenta come la scoperta del contenuto reale della pittura. Così Kandinskij assegna all’arte una missione essenziale: lo svelamento del-la realtà nascosta, e fonda l’invenzione dell’astrazione pittorica sul- l’esperienza della realtà interiore che è al centro della sua teoria. Kandinskij considera la sua pittura come un viaggio verso il sen so, verso il vero essere. Questo implica non solo la dissoluzione del- l’oggetto, ma anche la fusione dello spettatore nel quadro. L’arte è concepita allora come un itinerario mistico poiché, se lo spettatore è invitato a fondersi nel quadro dimenticando se stesso, ciò significa che l’universo pittorico apre a una realtà altra, la realtà interiore. La sco- perta più importante di Kandinskij è infatti quella relativa al fatto che il colore ha una realtà interiore che lo caratterizza in modo del tutto autonomo rispetto a qualsiasi finalità raffigurativa della realtà esterna. È questo che costituisce il nucleo teorico dello Spirituale nell’arte. Il principio fondamentale che ispira questo lavoro è infatti quello della «necessità interiore», in forza della quale i colori entrano in contatto con l’anima. Ma anche le forme, che costituiscono l’altro mezzo della pittura, hanno un contenuto interiore. Se nelle Bagnan- ti di Cézanne Kandinskij sottolinea la progressiva geometrizzazione e quindi astrazione dell’elemento organico, è perché considera l’arte astratta non come una rivoluzione, bensì come un’evoluzione natu- rale della creazione pittorica. La pittura astratta, lungi dal celebrare la scomparsa dell’oggetto, tende piuttosto a farne emergere la vita in- teriore: l’astrazione non è un fine ma un mezzo. Kandinskij fa un’analisi rigorosa della risonanza dei colori sull’ani- ma. Il colore è l’elemento astratto per eccellenza, dal momento che non implica un’azione emozionale dell’individuo, ma mette in causa la sola anima. Egli distingue tra il calore o la freddezza del tono di colore e la sua chiarezza o oscurità: così, ad esempio, il giallo ha la tendenza ad avvicinarsi allo spettatore, il blu quella di allontanarse- ne; il bianco è il silenzio prima della nascita, il nero è il silenzio dopo la morte. Dello spirituale nell’arte, che compare nel 1910, rappresenta la prima analisi formale dei presupposti della creazione artistica, pro- fondamente rivoluzionaria rispetto alle condizioni e alle possibilità dell’arte moderna. Emerge chiaramente in Kandinskij la consapevo- lezza che il mondo, che si rivela ai nostri sensi, è un insieme di fe- nomeni che nulla ha a che fare con la realtà delle cose. Il pittore de- ve perciò volgere la sua attenzione non a questo mondo, ma alla pro- pria interiorità. È lo «spirituale» l’obiettivo verso il quale d’ora in poi, secondo Kandinskij, dovranno indirizzarsi tutte le arti. Questa svolta spirituale esige che l’oggetto scompaia e che la pittura rivolga la sua attenzione unicamente ai propri mezzi compositivi. Ciò tutta- via non può non sollevare un interrogativo: se la pittura deve fare a meno di raffigurare il mondo esterno, che cosa deve o può sostituirsi all’oggetto? Kandinskij, rifiutando l’arte puramente decorativa, ri-sponde che l’oggetto deve essere sostituito dalla «risonanza interio- re», ossia dall’azione diretta del colore sull’anima. La forma e il co- lore si armonizzano per creare il quadro, secondo il principio della necessità interiore; solo allora nasce l’opera d’arte autentica: la com- posizione entra in contatto con l’anima umana e si stabilisce la riso- nanza. La teoria dell’astrazione di Kandinskij deriva così dalla consa- pevolezza dell’impossibilità di esprimere con i mezzi raffigurativi del- la pittura quella sensazione di felicità che, come scrive nella sua au- tobiografia – Sguardo sul passato – doveva essere il vero scopo della pittura.
di Giuseppe Di Giacomo

giovedì 30 agosto 2007

ANDY WARHOL Acura di Danilo Picchiotti

L'ultima casa di Andy Warhol, a New York
Figlio di immigrati slovacchi di etnia Rutena, mostrò subito il suo talento artistico, e studiò arte pubblicitaria al CIT (Carnegie Institute of Technology, conosciuto ora come Carnegie Mellon University) di Pittsburgh. Dopo la laurea, ottenuta nel 1949, si trasferì a New York.
La grande mela gli offrì subito molteplici possibilità di affermarsi nel mondo della pubblicità, lavorando per riviste come Vogue e Glamour.
Morì a New York il 22 febbraio 1987, alle 5.45 del mattino, in seguito a un intervento chirurgico alla cistifellea, perché l'infermiera che lo doveva assistere dopo un intervento chirurgico alla cistifillea se ne stava in sala d'attesa a leggere la Bibbia[citazione necessaria]. I funerali si svolsero a Manhattan e l'infermiera venne scagionata[citazione necessaria].
La sua attività artistica conta tantissime opere, infatti produceva in serie le sue opere con l'ausilio dell'impianto serigrafico. Le sue opere più famose sono diventate delle icone: Marilyn Monroe, Mao Zedong, Che Guevara e tante altre. La ripetizione era il suo metodo di successo: su grosse tele riproduceva moltissime volte la stessa immagine alterandone i colori (prevalentemente vivaci e forti). Prendendo immagini pubblicitarie di grandi marchi commerciali (famose le sue bottiglie di Coca Cola, le lattine di zuppa Campbell's, e i detersivi Brillo) o immagini d'impatto come incidenti stradali o sedie elettriche, riusciva a mettere a disagio il visitatore proprio per la ripetizione dell'immagine su vasta scala.
La sua arte, che portava gli scaffali di un supermercato all'interno di un museo o di una mostra d'arte, era una provocazione nemmeno troppo velata: secondo uno dei più grandi esponenti della pop art l'arte doveva essere consumata come un qualsiasi altro prodotto commerciale.
Ha spesso ribadito che i prodotti di massa rappresentano la democrazia sociale e come tali devono essere riconosciuti: anche il più povero può bere la stessa Coca Cola che beve il Presidente degli Stati Uniti o Marilyn Monroe.
Successivamente rivisitò anche le grandi opere del passato, come L'ultima cena di Leonardo da Vinci o capolavori di Paolo Uccello e Piero della Francesca: anche in questo caso cercò di rendere omaggio a delle opere d'arte al posto di miti televisivi.
Altre forme d'arte
Warhol ha supportato e sperimentato altre forme di comunicazione, come ad esempio il cinema e la musica: ha prodotto alcuni lungometraggi e film, ha supportato alcuni gruppi musicali - in primis i Velvet Underground con Lou Reed, la cui famosissima copertina dell'album d'esordio è stata disegnata dallo stesso Andy Warhol, ha scritto libri e biografie. Il pensiero commerciale di Andy Warhol spaziava in ogni campo. Blow Job (telecamera fissa per 35 minuti sul volto di un uomo che riceve una fellatio) e Lonesome Cowboys sono alcuni esempi di film che ritraggono la cultura gay newyorkese del tempo, censurati e distribuiti solo con il passaparola. Altri lavori, certamente d'avanguardia, mostrano ad esempio 8 ore di sonno di un uomo (Sleep - 1963): in soli 5 anni, cortometraggi e lungometraggi di sperimentazione artistica attraverso la telecamera.
Alcuni di questi film furono trasmessi al pubblico dopo 30 anni dalla data di pubblicazione dei lungometraggi, soprattutto in occasione di mostre ed antologie del pittore organizzate in molti musei del mondo.
È stato anche fondatore della Factory, luogo in cui giovani artisti newyorkesi potevano trovare uno spazio collettivo per creare: qui sono nati o passati per un breve periodo altri famosi artisti come Jean-Michel Basquiat, Francesco Clemente, Keith Haring.
Il 3 giugno 1968, un'artista frequentatrice della Factory, Valerie Solanas, sparò ad Andy Warhol e al suo compagno di allora Mario Amaya. Entrambi sopravvissero all'accaduto, anche se Andy Warhol in particolare riportò gravi ferite e si salvò in extremis. Valerie Solanas dichiarò di aver sparato perché Warhol aveva troppo controllo sulla sua vita: successivamente scrisse anche una sceneggiatura dell'accaduto proponendola addirittura allo stesso Warhol, che rifiutò categoricamente. Le apparizioni pubbliche di Warhol dopo questa vicenda diminuirono drasticamente. Nel 1980 fonda una televisione dal nome "Andy Warhol's TV".

ALLEGORIA DEL TRIONFO DI VENERE A cura di danilo picchiotti

Contesto storico Il dipinto venne inviato come regalo di Cosimo I de' Medici al re Francesco I di Francia, ed era quindi innanzitutto un oggetto politico: il neonato Ducato di Toscana era in cerca di allenze strategiche per evitare di venire fagocitato dal grande impero di Carlo V (come era avvenuto per il Ducato di Milano), per questo carcava di ingraziarsi la Francia inviando preziosi doni come questo e per allearsi con la Spagna sposò invece la figlia del viceré di Napoli, Eleonora di Toledo; per ingraziarsi il papato infine consegnò a Pio V un suo amico intimo accusato di eresia (finì infatti bruciato al rogo), Pietro Carnesecchi.Iconografia Essendo un quadro prodotto da una élite per un'altra élite, il soggetto è estermamente complicato, suggerito sicuramente da qualche personaggio erudito della corte medicea, e la mano di Bronzino realizzò uno dei capolavori più famosi di quell'epoca, il manierismo. Lo stile è molto idealizzato, sensuale ma anche freddo, quasi marmoreo, sublimamente idealizzato.La tela presenta più livelli di lettura. Il soggetto in generale è quasi sicuramente un'allegoria dell'amore sensuale, del sesso. Venere in primo piano (identificata dal pomo d'oro del giudizio di Paride), bacia sensulamente il figlio Eros, il quale, mostrando vistosamente le natiche, le solletica un capezzolo. Più complessa è l'interpretazione delle figure sul retro. Il putto con i campanelli alla caviglia, che sparge petali di rosa, ben illuminato sulla destra, simboleggia il riflesso più immediato del piacere carnale, la Gioia. Dietro di esso una fanciulla appena in ombra si presenta con un grazioso volto, ma è una figura molto ambigua: la sua natura ingannatrice è testimoniata dalle mani destra e sinistra scambiate e dal corpo di mostro appena visibile in basso; è infatti l'Inganno; dopotutto anche Venere e Eros si stanno ingannando a vicenda: lei sta rubando una freccia dalla sua faretra, lui le sta sfilando il diadema di perle.Sul lato opposto le due figure grottesche sono la Disperazione e la Follia (in basso), che sono le conseguenze di medio e lungo periodo dell'amore sensuale. Infine un vecchio in alto a destra stende un pesante velo che copre la scena: è il Tempo che spegne ogni passione.Curiosità Nell'Ottocento la sensualità erotica del dipinto destava imbarazzo per questo le nudità di Venere nel basso ventre furono coperte da un panno giallo, tolto durante un restauro novecentesco eseguito con ottimi risultati.
Allegoria del trionfo di Venere
Bronzino, 1540-1545
Olio su tavola, 146 × 116 cm
Londra, National Gallery

mercoledì 29 agosto 2007

LEO CASTELLI "IL GALLERISTA"

La SoHo depressa degli anni Settanta. Jeff Koons e Cindy Sherman emeriti sconosciuti. E poi Andy Warhol, vero sindaco di New York. Annina Nosei e Mary Boone che sbarcano per prime a Chelsea. E sopra di tutti lui, il Papa del Pop, Leo Castelli. In occasione del centenario della sua nascita, a settembre, per i tipi di Castelvecchi uscirà un’ampia biografia. L’autore, Alan Jones, ci racconta come è nata…
Che origine ha la tua formazione nel mondo dell’arte?
Essendo della West Coast non ho vissuto a New York da ragazzo. Andai in Italia all’inizio degli anni Settanta, con una lettera di presentazione per conoscere Ezra Pound, ecco perché conosco l’italiano. Le mie prime vere esperienze con le gallerie d’arte hanno avuto luogo a Milano: Galleria Marconi, Galleria Blu, Galleria Il Milione. Qui c’è stato il mio apprendistato. Solo dopo l’Italia arrivo a New York. New York era il compromesso tra l’Italia e l’America profonda. Era arrivata l’epoca dell’arte concettuale e mi resi conto che dovevo andare a New York.
Com’era la situazione in città?
Arrivo a New York nell’autunno del Settantasei. Un momento molto curioso. La città era sull’orlo della bancarotta. Tutta Broadway dalla Quattordicesima giù fino a Canal street era completamente abbandonata. Saracinesche serrate. Negozi chiusi. Una città più pericolosa di qualsiasi altra città: favolosa! 
E SoHo, com’era La Mecca dell’arte contemporanea?
SoHo era un quartiere molto duro, niente affatto chic. Era stata “fondata” da soli cinque anni, era ancora una zona borderline. Era un periodo in cui il prestigio della produzione artistica era al suo punto più basso: tutta la creatività and Village eravamo forse in due o tre a parlare d’arte. Tutti pensavano solo di essere nei film underground di Erik Mitchell o di formare una band come fecero i Talking Heads. Tuttavia c’era lui, il vero sindaco di New York, che già da molti anni amministrava la città senza essere stato eletto: Andy Warhol. Il sindaco de facto.
Insomma totale crisi per l’arte contemporanea?
Una settimana dopo il mio arrivo a New York ero ad un party nel retrobottega dello studio di David Byrne e ho cominciato a parlare con un tizio che era appena arrivato da Chicago, era curioso, aggressivo, si chiamava Jeff Koons. Siamo immediatamente diventati grandi amici. Solo in seguito ho intravisto l’esistenza in città di artisti misconosciuti: Cindy Sherman, David Salle, Julian Schnabel. 
Un’atmosfera particolare…
Esatto: i Talking Heads non avevano ancora stampato un disco, Annina Nosei e Mary Boone non avevano ancora aperto una galleria, tutto doveva partire e tutto stava per partire: gli anni Ottanta sono iniziati nel Settantasei. Dopo un tentativo picaresco di aprire una mia galleria me ne tornai in Oregon, da questo fallimento nacque (con Laura De Coppet) il libro The Art Dealers (1985), sulla grande prima generazione dei galleristi americani. Siamo dunque nei pieni anni Ottanta e il ritorno della pittura rende di nuovo potente il mondo dell’arte. Quelli che fino al giorno prima si vantavano dicendo “sono un critico di cinema underground”, dopo il successo della prima personale di Schnabel da Mary Boone affermavano con decisione “ma naturalmente sono sempre stato un critico d’arte”…
E Leo Castelli, come si inscrive in tutto ciò?
Nell’occhio di questo ciclone c’era sempre Leo Castelli, con la sua elegante serenità che aveva attraversato il grande deserto degli anni Settanta. Era lui ad ispirare tutte queste nuove galleriste come Janelle Reiring e molte altre. Ma lo studio della storia cambia la storia, ed erano in molti già allora a studiare Leo Castelli come modello. In quegli anni bastava dire solamente “420” e tutti capivano. 420 West Broadway era l’indirizzo della galleria di Leo Castelli dal 1962. La persona che volevo conoscere, una volta arrivato a New York, era Leo Castelli. La prima domanda che mi fece fu: How do you live? Gli risposi: faccio del mio meglio. 
Come è nata l’idea di questo libro?
Leggendo Ezra Pound si incontra subito la questione di dove nasce l’innovazione. Il meccanismo di rinnovare la cultura. Pound, in riferimento al periodo rinascimentale, glorificava la figura di Sigismondo Malatesta in contrasto allo strapotere dei Medici. Castelli era molto malatestiano: faceva grandi cose con le briciole. Proprio come il grande mercante parigino Ambroise Vollard è transitato –in dieci anni- da Paul Cezanne a Pablo Picasso. Così Leo Castelli è andato da De Kooning a Andy Warhol. Ritratti inclusi. Molti hanno cercato di copiarlo, molti sono stati più ricchi di lui, ma nessuno più grande. E dunque a suo modo lui era un uomo rinascimentale.
Che struttura ha il volume?
Ho voluto scrivere un libro sull’epoca di Leo Castelli che non ci ha lasciato un’autobiografia. Il genere della biografia che propongo è molto anglosassone (fatta esclusione per Vasari o per l’antichità romana), non è un genere che va di moda nella cultura italiana al contrario che in America e in Gran Bretagna. La maggior parte del libro è fatta di testimonianze personale, di interviste, di incontri con questo grande gallerista. È stato, per citare Ungaretti, come catturare la vita di un uomo.
Che uomo era, Castelli, in galleria?
Oggi basta aprire un buco di galleria a Chelsea per trasformarsi in una Regina del Belgio. Al contrario Leo, nella sua galleria, era disponibile con tutti. Magari stava aspettando una vendita a Tokio, un’asta a Londra, la chiamata da parte di una vedova di un Senatore, organizzando una mostra a Los Angeles però era l’uomo più disponibile al mondo. Era il Papa del pop. Adesso se chiami il più mediocre gallerista e gli dici che gli vuoi consegnare un Nobel, ti risponde che non ha tempo…
Questo gallerista cambiò proprio il modo di concepire la galleria…
Prima di Leo Castelli la galleria era come una gioielleria. Un posto esclusivo. Una fortezza. Leo “per necessità” (come diceva lui) si sentiva costretto di creare un grande franchising internazionale che voleva corrispondere a ciò che stava succedendo all’epoca -primi anni Sessanta- nella società: la comunicazione, la pubblicità, il viaggio. La galleria deve cambiare con la società. E Castelli ha fatto così negli anni Sessanta, e poi Settanta e così via. Prima di allora la mentalità era: se io tratto in esclusiva Mondrian, Mondrian non deve essere esposto se non nella mia galleria. Se un collezionista lo vuole viene ad acquistarlo da me. Sidney Janis, l’unico concorrente all’epoca di Leo Castelli, ragionava in questo modo. Prima di Leo Castelli la galleria era un luogo losco, come un vecchio libraio a lutto in un film degli anni Trenta. Per entrare bisognava suonare. 
Quali sono state le persone importanti nella vita di Castelli?
Bisognerà erigere un monumento ad Ernesto Kraus, padre di Leo Castelli. Che invece di sgridare suo figlio, non felice di lavorare alle assicurazioni a Trieste e voglioso di studiare letteratura, gli fa una controproposta: resisti ancora un anno nel mondo degli affari, a Bucarest, e poi decidi cosa fare in piena libertà. Quella decisione cambiò il destino dell’arte americana: a Bucarest Leo Castelli conobbe Ileana Sonnabend.
Che personaggio è Ileana Sonnabend?
Quando usciva dal 420 di West Broadway per dirigersi verso nord con il suo piccolo entourage era come vedere un’imperatrice. 
Che ruolo ha avuto nella vita di Leo?
È stata Ileana che ha aperto a Leo gli occhi. L’interesse principale di Leo era in realtà per la letteratura. E non fu un caso se questa giovane sposa di diciotto anni chiese come regalo di nozze un acquerello di Henri Matisse…
Cosa successe di lì a breve?
Nel ’39 aprì la più galleria più chic di Parigi. Trattava surrealismo. Se non fosse arrivato Adolf Hitler avrebbe avuto la più grande galleria d’Europa. Non avrebbe mai conosciuto Jasper Jones o Bob Rauschenberg, ma avrebbe avuto la più importante galleria di Parigi. 
Quali sono i galleristi –a New York o altrove- che hanno preso il testimone di Leo Castelli?
L’unico che ha tenuto alta la bandiera e che ha veramente studiato Leo è Jeffrey Deitch. In termini di impegno e volontà. Ma ancor prima di Jeffrey Deitch, Tony Shafrazi si avvicinava a Leo a livello di circostanze. Deitch come sentimento, Shafrazi come elasticità e capacità di gettare via i pregiudizi.
Cosa occorre per capire questo uomo. Oltre a leggere il tuo libro?
Per capirlo bisogna rileggere Italo Svevo. Tante donne, durante i mille party, sono cadute davanti al suo fascino definendolo “italiano”. E non capendo quanto il suo modo di fare era profondamente “triestino”, anzi “austro-ungarico”.

m. t.
Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America
di Alan Jones, con introduzione di Gillo Dorfles
Pp. 440, euro 18,00 - Collana: I timoni 
Uscita: Settembre 2007 
ABSTRACT: A cento anni dalla nascita di Leo Castelli, Alan Jones ripercorre con passione e precisione la vita professionale e sentimentale del più grande gallerista di tutti i tempi. Con lo straordinario intuito del mercante d’arte Leo Castelli, d’origine triestina, scopre e valorizza, negli Stati Uniti, gli espressionisti astratti dell’Action Painting, pittori del calibro di Jackson Pollock e Willem de Kooning, i neodadaisti Robert Rauschenberg e Jasper Johns, i protagonisti della Pop Art, oltre che Frank Stella e Cy Twombly. Ma non solo. Quando nel ’62 Leo Castelli presenta nella sua galleria al 420 West Broadway le tele a fumetti di Roy Lichtenstein, New York rimane stupefatta e vagamente disgustata. Ma in breve tempo dovrà riconoscere che la proposta di quel minuto gallerista cambierà il corso dell’arte contemporanea. Leo Castelli ha saputo infatti intuire le potenzialità creative e innovative di un gruppo di giovani artisti, imponendoli al mondo intero e aprendo le porte di New York alle successive generazioni di galleristi.
Leo Castelli nasce a Trieste il 4 settembre 1907. Il suo vero nome era Leo Krauss. Dopo la laurea in legge si trasferisce a Parigi, a cui è legato il suo esordio come gallerista. Con il dilagare della seconda guerra mondiale si rifugia a New York che lo consacra come uno dei più prestigiosi galleristi del panorama mondiale. Muore a 91 anni nella sua città d’adozione. 
Alan Jones, newyorkese, critico e curatore di mostre d’arte, è da sempre uno dei massimi conoscitori della scena della Pop Art. È stato tra gli amici personali di Leo Castelli.

m. t.
Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America
di Alan Jones, con introduzione di Gillo Dorfles
Pp. 440, euro 18,00 - Collana: I timoni 
Uscita: Settembre 2007 Articolo pubblicato da [exibar]

IO ERO FELICE E BASTA racconto di Coppari ugo

Mi ricordo che quando andavamo al mare c'era sempre
il sole. Usavamo la paletta e il rastrello: il secchiello non ci serviva quasi mai. Non volevamo tanto costruire castelli o slanciarci verso l'alto, quanto scavare a fondo, per cercare l'acqua o per andare giù e basta o per non so bene quale ragione. E mi ricordo che poi ad un certo punto era ora di fare il bagno. Non si poteva fare il bagno subito dopo mangiato. Ma oramai erano passate diverse ore dopo la pesante colazione del mattino. Ed era finalmente possibile tuffarsi. Via! - e ci lanciavamo nell'acqua scaldata dai primi raggi di sole. Ci piombavamo nei fondali del mare Adriatico. Io a quei tempi pensavo di poter vedere il luccichio e sentire il frastuono delle bombe che arrivavano dall'altra sponda di questo grande lago. Soltanto dopo alcuni anni sono stato smentito dai più grandi, e tutta la storia della mia vita è stata frantumata. Io, nell’ascoltare e nel vedere le bombe slave, credevo di far parte di qualcosa di più grande di me. Una guerra. Peraltro altrove. Invece ero soltanto
un bambino qualunque, che avrebbe anche potuto non venire al mondo: tanto sarebbe stato uguale, tanto questo non si sarebbe accorto. Il sole piano piano calava sempre di più e nel corso degli anni le estati erano sempre più tiepide. Come sempre la mattina ci si svegliava presto per scendere giù in spiaggia, dove le uniche richieste da parte dei genitori erano quelle di non affogare. Per il resto tutto era campo di gioco. Via le scarpe, via i calzini, via i pantaloni, via tutto. E poi con la scusa di prendere i molluschi sotto la superficie del mare, ci si poteva immergere nelle profondità e fare finta che il fuori non
esistesse. Credevo che l'acqua mi entrasse dalle orecchie e nelle bocca e nel naso e basta, perché per il resto non sapevo come funzionasse e come fosse fatto il mio corpo, ne ero soltanto ospite, e credevo inoltre che il mare scorresse dentro di me per poi riuscire. Il mare Adriatico, il mar Mediterraneo e poi anche l’Oceano Atlantico e poi anche il Pacifico prima o poi, l’Indiano e tutti gli altri mi sarebbero circolati attraverso nel corso degli anni. Per questo mi sentivo parte di un tutto. E quindi nel momento in cui nuotavo sott'acqua mi sentivo parte di qualcosa perché quel mare che mi scorreva attraverso lo vedevo ed era limitato e segnato nelle carte geografiche in blu o celeste, e invece l'aria che mi scorreva dentro là fuori tra le altre persone era impalpabile e soprattutto non sapevo quante persone la stessero respirando insieme a me lì vicino, e allora stentavo a credere di essere parte di un tutto. Forse volevo essere non tanto parte di un tutto, ma il tutto stesso. Prima di immergermi guardavo attorno a me quanta gente si stesse immergendo nei fondali nel mio stesso istante. Volevo il mare per me. Molti romanzi parlano del mare come di qualcosa di salvifico, di mistico, con cui si può parlare. Io del mare ricordo i meloni che sudano, le fette di prosciutto rosato che ci spalmavo sopra, l’insalata con l’aceto e poco olio di mia madre, i bicchieri di coca-cola ghiacciata con il limone, i calippo al limone che non costavano nulla, il biliardino sottocasa, le lunghe passeggiate fino al porto, le docce gelate prima di rientrare a casa per non portare dentro la sabbia, labicicletta sempre, le giornate piovose costretti a stare chiusi dentro casa e guardare fuori impotenti, il treno e la ferrovia che ci passavano a fianco, le parole crociate, un numero spropositato di prugne che mangiavo in continuazione, e poi i granchi e i piedi pieni di sabbia dentro le ciabatte di plastica. Ma soprattutto ricordo che non ero propriamente felice in quei giorni. Ero felice quando rimanevo da solo. Ma a volte, quando mi confrontavo con altri ragazzini che avevano più amici di me, mi ricordo che non ero felice. Forse ho sempre vissuto il mare con distacco. Anche quando stavo sotto il mare ero diverso, volevo nuotare con il mare dentro. Quando stavo fuori dall’acqua mi sentivo che agli altri. In realtà io non vorrei ricordare, perché è proprio la volubilità della memoria a trarci spesso in inganno. In realtà a quei tempi c’era solo la mia casa, la spiaggia, il mare sopra, il mare sotto, il cielo e le bombe nell’altra sponda. E neanche il sole che calava negli anni e scandiva il tempo della crescita. La psicoanalisi rovina tutto e credo che gli psicologi siano dei teppisti della memoria. Io ero felice e basta.
COPPARI UGO