mercoledì 8 giugno 2011

NOVELLE DI PAOLA



Cara Paola....l'amicizia non biasima nel momento della difficoltà'.....
non dice con fredda ragionevolezza....se tu avessi fatto cosi' o così'....
apre semplicemente le braccia e dice... non voglio sapere...
non giudico....qui c'e' un cuore dove puoi riposare.........

Novelle e racconti
per ragazzi e volendo... anche per adulti
Dedico queste novelle a Marisa ai miei genitori,
a tutti i bambini di questo mondo, a ciascun adulto che ha saputo mantenere in sé
la parte bambina e a chi se ne è dimenticato, sperando che essa si risvegli
per incamminarci così tutti assieme verso un mondo migliore.
Kala - Paola Santerini

Ricorda che tu sei necessario
Nessuno è più in alto e nessuno è più in basso
Nessuno è superiore e nessuno è inferiore
Tutto è armonia.
Osho Rajneesh

Il vivere di momento in momento la nostra vita ci toglie la possibilità di diventarne coscienti; ciò ci costringe a trovare un significato alla vita stessa.
Questo lungo processo di sviluppo ci riconduce a ritroso nella ricerca delle modalità differenziate per incontrare un mondo affine a tutta l’umanità: il mondo delle fiabe, con le sue azioni che portano dall’irrazionale al razionale, dove ogni linea conduttrice si illumina della gioia di essere così vera e reale nell’infanzia.
Il significato più profondo va trovato trascendendo gli angusti confini dell’esistenza egocentrica e ponendosi attraverso il tempo, oltre i confini dello spazio, in un’oasi che si chiama fantasia, nello sforzo di non sprofondare nei capricci ma di trarre una coerenza dal tumulto dei sentimenti e superare le vanità illusorie.
Questo libro vuole andare in questa direzione nella ricerca vivace e serena dell’immagine.
Fiorenza De Angelis













Al centro della terra ci trovai...

Lapo, un bambino dai biondi capelli ricci e dai grandi occhi verdi, quel giorno era più triste del solito: gli amici lo prendevano sempre in giro per i suoi modi delicati “roba da femminucce”, diceva la banda di quei dieci pestiferi bambini che stavano sempre a pensare quale marachella avrebbero potuto fare per apparire sempre più maschietti e terribili. La gentilezza di Lapo era innata in lui ed in molti gli volevano bene ma quei dieci pestiferi bambini non lo lasciavano mai in pace. Il piccolo biondino ogni qualvolta era attaccato da loro si andava a rifugiare nel giardino di Michele e Zoe, due fratellini che erano a lui affezionatissimi e sempre lo consolavano. Era un giorno speciale, anche il dolore di Lapo aveva un sapore diverso, scorreva nel suo corpo e presto avrebbe preso consistenza. Lapo sentiva questa strana sensazione ma non se la sapeva spiegare e proprio per questo era agitatissimo. Parlava in fretta, in un modo mai usato e né Zoe né Michele capivano cosa gli stesse succedendo. Dal lato più nascosto del giardino sbucarono le tre tartarughe dei fratellini, Adelina, Astianatte e Clotilde. Era autunno e venivano a salutare i bambini perché sarebbero presto andate in letargo fino alla prossima primavera. “Ciao piccoli, salve Lapo.” “Salve a voi” disse lui e nella sua fervida fantasia fece campo una visione e senza neppure accorgersene disse loro “Vorrei venire con voi al centro della terra perché è lì che siete dirette”, ma le tre tartarughe dissero a Lapo che mai avevano intrapreso un viaggio così lungo in un posto sconosciuto, ma che era ora di provare, la partenza se non cambiava idea era immediata.
“Certo che lo voglio”, rispose, e Michele e Zoe erano già pronti per partire perché era scontato che anche loro sarebbero andati con Lapo il grande amico, sia per non abbandonarlo sia per la curiosità che stava sempre più crescendo. La partenza fu stabilita di notte, quando il buio sarebbe stato loro complice nascondendo così la loro fuga - viaggio ad occhi indiscreti. Così ognuno di loro fece ritorno alla propria casa come nulla fosse, e andarono a letto alla solita ora. Ma appena mamma e papà ebbero loro spento la luce, dato il bacio della buonanotte e chiusa la porta, i due fratellini e Lapo nelle rispettive camerette, si alzarono, misero un cuscino nel lettino, tanto da ingannare i loro genitori che aprendo la porta per vedere se dormivano avrebbero visto i lettini non vuoti. Così avevano visto alla TV e così fecero. Erano le 10 e la luna era già alta nel cielo quando Lapo, Michele, Zoe, Adelina, Astianatte e Clotilde si ritrovarono nel giardino là dove le tre tartarughe erano solite partire. Prima di iniziare a scavare il lungo tunnel che portasse tutti e sei i viaggiatori al centro della terra, le tre tartarughe dettero istruzioni precise ai tre bambini, cose segretissime che non possiamo svelare perché nel mondo delle tartarughe vige un segretissimo codice. Come sarebbero arrivati e quando? Sembrava che la fame non si facesse più sentire, ma era solo il gran desiderio di arrivare che faceva tacere l’appetito. Così le tartarughe che erano sagge, vollero fermarsi per fare uno spuntino. Esse si ritirarono nelle loro case e presero vivande a sufficienza per dare a tutta la comitiva nuove energie per proseguire il lungo viaggio. Ora tutti si chiederanno come fanno le tartarughe ad avere nella loro casa che sempre si portano dietro, tante riserve di cibo. Questo è perché la tartaruga è un animale magico e non si sa mai quali sorprese ci può riservare. A metà del loro cammino... ma dimenticavo il paesaggio: un paesaggio buio ma nonostante questo c’era una luce indescrivibile, la luce del buio, altre parole per descriverla non ci sono. La sua tonalità ha colori molto caldi, intensi come il rosso, il blu ed il giallo. A metà del cammino iniziarono a comparire delle minuscole figure che appena videro la comitiva iniziarono a gridellare. Le tre tartarughe li salutarono e tra questi c’erano Zoilo, Afeo, Getulio, Dula, Fara e Gea che dopo aver risposto al saluto chiesero in coro alle tartarughe “Chi sono quei tre?”. “Non vi preoccupate, sono nostri amici, garantiamo noi per loro.” “E così sia, ci fidiamo di voi, i vostri amici sono i nostri.” Zeno, un altro abitante di quei luoghi, il più diffidente ispezionò i tre piccoli in modo dettagliato annusandoli da capo a piedi, ma i tre bambini non si meravigliarono e lo rassicurarono che da loro nulla c’era da temere ed erano pronti a superare qualsiasi prova di lealtà. Così Zeno, che prese le loro parole in alta considerazione, gli rivolse una domanda: “Perché mai vorreste andare al centro della terra, e dopo esserci stati a chi racconterete tutto?”. Zoe parlò a nome di tutti e tre dicendo che è sempre bello conoscere luoghi nascosti dove nessuno è mai arrivato e che sicuramente non avrebbero mai rivelato ciò che avevano visto. Zeno aveva la facoltà di sapere se le risposte erano sincere per cui essendosi rassicurato, sorrise e con un lungo abbraccio strinse a sé i piccoli. I Ninion, così si chiamava la popolazione di questo luogo, dettero loro il permesso di proseguire il viaggio per il centro della terra, ma al rientro a casa nulla sarebbe rimasto nella loro memoria, se non sotto forma di sogno, e naturalmente, ad ognuno avrebbe lasciato un insegnamento proprio, il quale sarebbe stato maestro di vita. Così indicarono all’allegra comitiva la strada per arrivare a Palaon, il centro del Mondo. Da quel momento le qualità di ciascuno delle compagnia erano sempre più marcate e delineate, e l’amicizia che prima li univa diventava sempre più intensa. La gentilezza di Lapo era sempre più forte, cosa che nessuno mai avrebbe potuto distruggere ed ogni evento della vita l’avrebbe sempre più consolidata in lui. Michele e Zoe, il loro senso forte dell’amicizia che sempre più si sarebbe esteso ad ogni essere umano, facendo però distinguere loro sempre e comunque il giusto dal falso, il buono dal cattivo, badando bene a riconoscere che anche la cattiveria è una parte della vita, frutto soltanto dell’ignoranza e va compresa perché essa possa sciogliersi come neve al sole. Il loro compito era molto alto e nobile: far scomparire il poco buono nel piccolo mondo che li circondava. E le tre tartarughe avrebbero insegnato il loro motto “Chi va piano va sano e va lontano”. E così in un attimo più o meno lungo, si ritrovarono a Palaon, che spettacolo per gli occhi dei piccoli visitatori! Che luce! È inspiegabile descriverne la bellezza! Una luce bianca con riflessi di ogni colore, intensità e densità. Sì, i colori avevano una densità, una consistenza propria, si potevano toccare, plasmare, senza per questo togliere nulla alla loro bellezza, alla loro propria esistenza, forma e compattezza. Quei colori avevano vita, avevano un sapore, avevano i loro suoni, vibrazioni che entravano nel cuore come mille violini, lasciandovi una dolcezza infinita, paragonabile all’estasi dell’anima che troppo spesso ignoriamo, e l’essenza della terra vibrava di vita propria in ogni forma quaggiù esistente: qui si respirava, si assaporava il nettare dell’anima del Pianeta. Lapo vide una cosa spaventosamente bella, la bontà vera della banda dei dieci, avvinghiata e prigioniera di ragnatele fatte di paure, ed essa non riusciva a liberarsi per arrivare al cuore delle dieci pesti. Turbini di fuoco, a fare da guardia a questa bontà e si vedeva chiaramente un drago dagli occhi di gelo, che stava costruendo laboriosamente il passaggio da birbonaggine a cattiveria dei dieci ignari pestiferi fanciulli. Sì, in una sfera di gelo era scritta la loro storia che sarebbe così arrivata indisturbata nella vita di ciascun fanciullo di quei dieci ignari birbanti. Era tutto confuso, ma ben presto le forze del male li avrebbero resi capaci di azioni veramente brutte.
Lapo era come paralizzato da questa visione, ricordandosi anche di tutti i torti subiti, in futuro si vedeva ancora come una loro vittima inerme. Fu allora che arrivò il re Zanè di Palaon che, vedendo Lapo in quelle condizioni, fece cadere su di lui essenze di estratti di Lipion, sostanza che nasce proprio nel suolo di quella terra che fa sì che la volontà di una persona sia libera da paure e possa così sprigionarsi in tutta la sua potenza. E così fu. Lapo si scagliò contro la ragnatela fatta di paura, armato solo del colore che aveva plasmato a forma di scudo, e questa si squagliò proprio come neve al sole e dalla volontà di Lapo l’enorme ragnatela del male si trasformò in un enorme sorriso fatto di luce. E per tutti re Zanè ebbe un dono: ai piccoli donò essenze di Nacon che faceva radicare sempre più in loro il senso dell’amicizia e della fratellanza, in modo che questa crescesse sempre più in loro per aiutarli in ogni frangente di vita, specialmente in quei difficili momenti che essa riserva per tutti. E ad Adelina, Astianatte e Clotilde fece dono di Sanè, una sostanza di lunga vita e altro, perché le tre tartarughe erano già sagge per conto loro e non avevano bisogno di altro. Re Zanè era felice dello stupendo incontro avuto con quei piccoli abitanti della Terra e donò loro anche un suo sorriso perché lo tenessero sempre in fondo al proprio cuore, e questo avrebbe regalato loro pace e serenità in qualunque momento. Tutto sarebbe servito per arricchirsi di serenità e bellezza e per non lasciarsi mai andare a pensieri negativi che servono solo a distruggere ogni forma di vita. E loro avevano avuto dal Re la facoltà di infondere ciò nel cuore degli altri. Dopo di che si preparava il lungo viaggio di ritorno. Ora salire sarebbe stato veloce come un volo di gabbiano, che con le sue enormi ali sorvola l’immenso Oceano. Il salire fu un’altra esperienza dell’Anima e ogni battito d’ali aveva il sapore della speranza. Ed eccoci di nuovo nel giardino da cui i bambini erano partiti per il lungo viaggio invernale. I tre bambini videro le tre tartarughe e dissero loro: “Ciao, ben tornate dal vostro letargo”; “Ciao, piccoli amici, siamo felici di vedervi ad ogni primavera”.
E i tre amici si sentirono inspiegabilmente più uniti del solito e un qualcosa dentro li spingeva a sperare in un mondo migliore, con una sorta di inspiegabile ottimismo. Cosa mai era successo dentro di loro? Un solo inverno li aveva fatti maturare in modo grandioso. Nessuno si era accorto della loro assenza perché misteriosamente dai cuscini lasciati dentro i lettini avevano preso consistenza le immagini di loro stessi, per permettergli di avere un rientro senza problemi. Questo loro non lo sapranno mai, ma fu un dono delle tartarughe perché come ho detto all’inizio del racconto, esse sono animali magici. Lapo vide e andò incontro alla banda dei dieci “Ciao Lapo”, dissero. “Ciao a tutti voi”. “Lapo è primavera, che ne dici di festeggiare l’arrivo delle rondini?”. E tutti e undici si avviarono a comprare un gelato.

“L’odio non cessa con l’odio ma con l’amore: questa è una vecchia regola”.
Buddha, Pensieri
Perché esistono varie razze e colori

Un tempo lontano gli abitanti della terra erano tutti uguali, così uguali che neppure da se stessi erano capaci di riconoscersi ed era tutta una grande confusione. Bambini che non venivano riconosciuti dalla mamma e dal babbo, o da chi si prendeva cura di loro e venivano scambiati l’un con l’altro e tutto andava avanti così. Erano completamente identici non solo nell’aspetto fisico, ma in tutto ciò che compone una persona: carattere, voce, sentimenti... insomma quando dico tutto è tutto. Dapprincipio come tutte le cose nuove ciò incuriosì, ma man mano che passava il tempo tutto ciò faceva solo confusione e tristezza: nessuno sapeva porre rimedio a questo triste evento, tutti erano ormai rassegnati, tutti meno una persona la quale ogni giorno pensava a come risolvere questa spiacevole faccenda. In una giornata lui non si sentiva sempre nella stessa maniera. E se una persona è capace di essere così diversa, come poteva tanta gente essere sempre identica l’una all’altra? Qui c’era qualcosa che non tornava nel modo più assoluto. Era necessario rimediare il più presto possibile perché la gente incominciava ad essere troppo apatica.
Sarebbe stato un guaio senza rimedio se il sonno spirituale avesse invaso il cuore di tutti. Ma come fare? Egli pensò di radunare tutte le persone e parlare loro, in modo da toccare il cuore di ciascuno e qualche cosa sarebbe certo successo: risvegliarli da quel torpore in cui erano caduti. E così fece. Disse loro cose semplici che il cuore gli dettava: “Non si può essere tutti uguali, ma siamo diversi gli uni dagli altri ed è questo il bello della vita, perché proprio dalla diversità nasce il desiderio di conoscersi, amarsi, parlare, crescere e vivere”. Così in un secondo successe il tutto. Ognuno come d’incanto si differenziò dall’altro: chi ebbe gli occhi color verde, chi azzurri, chi neri, chi blu, chi marroni, chi i capelli ricciuti, lisci, mossi e di colore diverso, chi alto chi basso, chi magro chi grasso, e così via. Ma ancora non erano contenti: si sa quando l’entusiasmo invade i cuori vengono mille idee, così certa gente tinse la propria pelle di rosso, altri di giallo, di bianco, di nero, chi prese gli occhi a mandorla e chi più rotondi. Così sì che era un mondo vario e divertente! E tutto andò avanti per un lungo periodo in cui ognuno era felice. Ma si sa, quando si diventa diversi è in bene e in male. Così nacque anche gente che non vedeva di buon grado altri colori di pelle, e non solo ma altre cose diverse dalle proprie e così nacquero i primi guai. E tutto ciò faceva male sia al cuore dei perseguitati che al cuore di chi era veramente consapevole che la diversità è una cosa buona e naturale.
E così andò e va avanti il mondo e si spera che presto tutti siano consapevoli che ogni diversità è bella e affascinante non solo nell’aspetto fisico, ma in tutti gli aspetti che la vita ci regala.

“L’uomo saggio impara soltanto ciò che è giusto,
e poi lo insegna agli altri”.
Buddha, Pensieri








Come mai il mare è salato

Esisteva, in un tempo assai lontano, un Re assai crudele. Nessuno tranne lui stava bene. Era così ricco da non poterlo nemmeno immaginare. Tutto il popolo da lui dominato viveva in estrema miseria. Doveva pagare tasse molto molto elevate e nonostante questo il Re Arin faceva mangiare tutti pochissimo. Il Sovrano pensava:
“Se mangiano pensano e se pensano vorranno sempre più cose, più deboli sono e meglio è per me”.
Vivevano in capanne ammonticchiate l’una vicina all’altra, e la miseria era il loro pane quotidiano. Le terre erano abbondanti di raccolto e da mangiare ci sarebbe stato per tutti, lasciando ugualmente tanto al Re Arin. Un giorno una fanciulla di nome Nenè, stanca di vedere tutti soffrire, decise di fare qualcosa.
Si introdusse a corte come cantastorie per il divertimento del Sovrano. Questa fanciulla dai poteri eccezionali, mentre raccontava una storia al Re Arin, iniziò una cantilena che incantò il tanto famigerato Re.
Nenè disse:
“O mio Re, ora farai tutto ciò che dico io lasciando spazio solo al tuo cuore”.
E il burbero Sovrano così rispose:
“Sì, mia dolce fanciulla”.
Nenè gli ordinò:
“Darai alloggi e cibo a tutti i tuoi sudditi in maniera giusta e al tuo risveglio la tua mente sarà libera dal passato”.
E così fu.
L’incantesimo poteva durare solo un anno. Questo fu un periodo felice in cui il popolo ebbe tutto ciò che Nenè aveva ordinato al Re. Trascorso un anno, il Re voleva togliere ai sudditi tutto ciò che avevano ottenuto, ma le menti delle persone ora funzionavano proprio bene, perché, proprio come diceva Re Arin:
“Se mangiano pensano, ecc., ecc.”.
E così tutti i sudditi continuarono a svolgere la loro vita senza assoggettarsi ai comandi. Re Arin ordinò così alle sue guardie di arrestarli tutti e ucciderli.
Ma anche loro ora erano in grado di ragionare e distinguere il giusto dal non giusto e si opposero a ciò che era stato loro comandato.
Re Arin si trovò completamente solo e finalmente il suo cuore trovò spazio e capì che aveva sbagliato tutto. Fuggì per un anno intero e andò a piangere sui suoi misfatti in riva al mare, e pianse così tanto che l’Oceano stava per straripare se lo avesse fatto per un altro giorno.
Versò così tante lacrime che le acque di ogni mare oceano divennero salate, perché si sa, le lacrime sono salate.
Chissà che disastro sarebbe successo se non fosse arrivata la piccola Nenè la quale prendendolo per mano lo riportò tra la sua gente.
Da quel giorno, il crudele Re Arin divenne il sovrano più buono e saggio mai esistito. Egli continuò a raccontare come mai il mare è salato e ancora oggi nelle lontane terre dove il Sovrano ha abitato, continua a tramandarsi questa leggenda.

“Non negare un beneficio a chi lo chiede,
quando sei in grado di farlo”
“Più di tutti veglia sul tuo cuore, da questo sgorga la vita”
Proverbi della Bibbia
L’Ombrello senza padrone

Chi ha mai detto che gli oggetti non hanno anima? Ora vi racconterò di Nanzè l’ombrello, la cui vita ebbe inizio nella bottega di Zazzè l’artigiano, il quale costruiva gli ombrelli a mano nonostante già da molto tempo esistessero le fabbriche. Era un vecchio nostalgico e mai si era arreso all’idea che dei macchinari si fossero sostituiti al lavoro artigianale. Ne aveva visti di ombrelli usciti freschi freschi dalla fabbrica, ma lui voleva portare avanti una tradizione secolare della propria famiglia. I suoi clienti erano vecchi nostalgici di un tempo in cui ancora si creava con le proprie mani, come per imprimere un’anima anche alle cose. C’è chi dice che le cose se vengono create con Amore sprigionano Amore. Un giorno il vecchio Zazzè, durante una sua passeggiata nel bosco, fu colpito da un vecchio faggio, il quale abbattuto da poco, giaceva a terra e sembrava raccontare il suo dolore a causa di questo. Il vecchio Zazzè era un uomo capace, con la sua sensibilità d’animo, di parlare con tutto e tutto gli rispondeva. Era fermamente convinto che ogni cosa avesse vita propria, con una propria storia e una propria anima. Ma tutti, proprio per questo, lo ritenevano un po’ svitato e dicevano:
“Povero Zazzè, il suo cervello non funziona più”.
Ma il vecchio non si preoccupava del parere della gente, perché era convinto che ognuno deve saper spendere la propria esistenza come meglio crede e non curarsi dei giudizi altrui. L’unica cosa veramente valida consiste nell’essere in armonia con la propria anima. Bisogna respirarla la vita, e non polemizzare su ogni battito di cuore altrui. E fu così che Zazzè si inginocchiò vicino al tronco e lo accarezzò con Amore e recependo questo calore, il faggio chiese al vecchio di portarlo con sé e utilizzarlo come meglio credeva. Così egli fece. Prese un’ascia e fece tanti pezzi del tronco, e caricatolo su di un carrello, lo portò nel suo laboratorio. Ne ricavò molte cose e il vecchio faggio ne fu felice: un tavolo, due seggiole, un piccolo mobile, e un ombrello il quale era così bello da rendere il faggio orgoglioso della perfetta lavorazione che Zazzè aveva dato al suo tronco. L’Amore dell’artigiano si respirava in ogni oggetto da lui creato. Egli rispettava ogni singola sua creazione, e se mai una seggiola o un’altra cosa si fosse rotta, egli si guardava bene dal gettarla ma ne ricavava altri oggetti. Tutti pensavano che fosse un vecchio spilorcio, capace di utilizzare anche non so cosa per risparmiare e accumulare quattrini. Dicevano “Quel tirchio non getta mai nulla. Ma che se ne farà di tutti quei soldi; scommetto che il suo materasso al posto della lana, ha tutte banconote accumulate. Quel taccagno per risparmiare non so cosa farebbe!”.
Nessuno aveva capito la qualità del suo non gettare nulla. Comunque Zazzè non si occupò mai dei giudizi e tanto meno di giustificare le sue azioni. Sua moglie sapeva che, sotto la cosiddetta spilorceria del marito, si nascondeva un cuore tenero come pochi. Egli aveva per la moglie mille premure ed era un marito esemplare, ogni desiderio dell’amata era esaudito ancor prima che lei potesse finire di esprimerlo.
Come dicevo, l’ombrello era così stupendo da incantare anche lo stesso Zazzè che lo aveva creato e si chiedeva come avesse mai potuto fare uscire dalle proprie mani un’opera così stupenda. Certo, era per lui il risultato di secoli e secoli di esperienza avuta dai trapassati, che si esprimevano attraverso le sue mani, e si sentiva immensamente grato del regalo che gli avevano fatto. Era infatti l’oggetto più bello in assoluto che aveva creato; per questa ragione lo battezzò, dandogli il nome di Nanzè.
Di lì a poco, Zazzè e sua moglie Onara sognarono di essere paracadutati da Nanzè, in un posto dove tutto era pace e nel viaggio si sentivano così leggeri, da non sentire più il peso dei loro corpi e dei loro anni. I due coniugi rimasero in questo posto di beatitudine eterna dove tutto era colore e musica. Il distacco da Nanzè fu dolce, infatti ancora avrebbe dovuto continuare il suo viaggio sulla terra.
Poiché non avevano lasciato nessuno al mondo, la vecchia casa dei coniugi fu saccheggiata dagli abitanti del paese, ma ogni oggetto e cosa di cui si erano illegittimamente appropriati, misteriosamente spariva per cui, presi dal terrore che quella casa e quegli oggetti fossero stregati, non misero più piede nella vecchia dimora, nella quale intanto tutti gli oggetti costruiti da Zazzè fecero ritorno. E così fu per molto tempo, fino a quando non fu deciso di abbattere la casa per costruirvi un alto edificio, e tutto attorno una zona residenziale. Anche la casa era stata costruita dal vecchio Zazzè e le sue pareti parevano avere un’Anima propria. Non voleva finire sotto una ruspa, per cui, come per magia, una notte la casa sparì nel nulla, e al suo posto rimase solo Nanzè, lì con tutta la sua bellezza e la sua maestosità. Si ergeva proprio lì nel mezzo, dove fino allora era stata la vecchia casa, come a voler difendere un territorio, l’unica sua arma era lui stesso nella sua bellezza e fierezza. La mattina le ruspe erano lì, pronte per abbattere quelle vecchie mura, appartenute a quel pazzo che per tutta la vita era passato come visionario e vanitoso. E dicevano: “Come credere che gli oggetti abbiano un’anima. Solo un superbo e svitato come Zazzè era capace di una simile fandonia”. Ma quel giorno la gente scettica che tanto aveva criticato Zazzè ebbe un moto di sussulto e terrore. La casa dove mai era finita? Tutto ciò fece tremare di paura la gente sciocca e stolta di Mava, e nessuno di loro riuscì a comprendere il messaggio, che solo il cuore di un puro avrebbe capito. Nessuno mai toccò quell’Ombrello, e lì accanto è fiorito un prato arredato da mille fiori da infiniti colori stupendi e da profumi acuti e leggiadri, vi sono alberi abitati da uccelli che cinguettano felici e sereni. Nonostante ciò, gli abitanti non si avvicinano a quel prato che tutti reputano stregato e come recintato da filo spinato. Nessuno capisce che l’ostacolo è la loro paura d’amare, e l’unico modo per superarlo è un cuore coraggioso e libero dagli ostacoli della mente e aperto alla vita. Nanzè, l’Ombrello senza “padrone”, è sempre lì, nella sua sfolgorante bellezza e il tempo e il vento e l’acqua non l’hanno mai sciupato. È lì in attesa di avere un “padrone” come Zazzè e solo allora egli si regalerà a chi saprà capire.

“Con la serenità, la limitazione, il controllo, il saggio si costruisce un’isola che l’inondazione non sommerge”.
Buddha, Pensieri

La scuola alla rovescia

Zuro e Flea erano due gemellini che, fin dalla più tenera età erano stati abituati alle buone maniere e ai ruoli ben distinti che si addicono ai maschietti e alle femminucce. Ma quando mamma e papà uscivano, entravano in un mondo tutto loro ideale, realizzato al di là da ogni convenzione e schema. Zuro e Flea erano bambini di un’intelligenza unica. Sapevano bene che essendo così piccoli non sarebbero riusciti a imporsi e opporsi agli adulti, ecco perché davanti a loro facevano di tutto per aver meno guai possibili. E ci riuscivano bene. All’età di sei anni furono mandati a scuola e fu un anno davvero indimenticabile. Questa nuova istituzione acuiva ancora di più i loro ruoli ma non si limitava a questo. I bambini non erano vissuti come persone che, anche se piccole, hanno sempre qualcosa di grande da insegnare anche agli adulti. È vero, questi ultimi hanno cultura ed esperienza, ma i bambini hanno dentro di sé la spontaneità, la saggezza che troppi adulti accantonano. Ci vorrebbe solo il coraggio di cose semplici, per riconquistare questo lato. Zuro e Flea lo sapevano e ne erano veramente dispiaciuti. Loro certo non volevano cadere in questo errore e tutto accadde in quella notte. Loro amico era Blauber il vecchio orsacchiotto che erano riusciti a salvare. Questo era senza un orecchio, spelacchiato, con un solo occhio per cui i genitori volevano riporlo tra le cose da regalare ai bambini poveri. Non volendo separarsi da Blauber, i piccoli accettarono di buon grado il nuovo giocattolo per non insospettire i genitori, e fecero finta di avere smarrito il vecchio orsacchiotto. Quella notte Zuro e Flea si sentirono chiamare per nome, chi mai poteva essere?
- Zuro, Flea, sono io Blauber, questa è una notte magica dove tutti i bambini e tutti i giocattoli possono esprimere uno o più desideri e questi si avvereranno. Parlate davanti alla Luna, vedete viene giù un raggio e qui ogni messaggio viene impresso e poi realizzato.
I bambini così parlarono:
- Blauber, grazie. Noi desideriamo che la scuola sia più divertente e gioiosa e che questi adulti, oltre che insegnarci, ci sappiano ascoltare e farci anche a noi decidere qualcosa. -
E Blauber rispose:
- Ho capito il vostro messaggio e da domani tutto sarà in questa dimensione. -
Così il giorno dopo, la Luna, che aveva recepito il messaggio e il suo volere, mandò i suoi influssi non solo sulla scuola ma in tutto il mondo. Fin dalla prima mattina tutto fu diverso, il linguaggio e l’atteggiamento dei genitori era trasformato nei confronti dei piccoli, che subito lo capirono. Lo sguardo di mamma e papà era come fossero in trance e finalmente nei loro occhi si iniziarono a intravedere calore e luce. Arrivati a scuola, la maestra con i bambini e i custodi portarono via tutti i banchi e al loro posto fu messa una grande moquette, tutti poi si misero a sedere su di essa compresa la maestra Launa che chiese ai piccoli di parlare di se stessi e tutti assieme avrebbero collaborato per una crescita e ricerca spirituale. L’insegnante, dopo aver ascoltato i piccoli, così parlò:
- Miei piccoli, i bambini hanno una spiritualità immensa che poi man mano che crescono viene soffocata dal mondo in cui sono costretti ad entrare. Ora ricordo, ascoltate se lo desiderate.
Ero nata da poco, e nella mia culla filtrò un raggio di sole e attraverso lui viaggiai a velocità ultrasonica su altre costellazioni, Xun per la precisione, un mondo dove esiste solo il quieto vivere, tranquillo ed armonico, e lì mi fu assegnata la mia missione sulla terra, dovete sapere piccoli che ognuno ne ha una. Io dovevo insegnare a dei bambini i quali a loro volta, un giorno mi avrebbero aiutato a ritrovare la bambina che un giorno fui. Da qui si interrompe il mio ricordo che più non può andare oltre, per permettere a ciò che deve accadere di accadere. -
I piccoli presero per mano la saggia maestra e tutti insieme fecero un girotondo che inventarono lì per lì e diceva:
“Giro giro Mondo io giro tutto attorno e ancor dopo giro ancora come una lesta trottolina e vedo i colori tutti attorno e da tutti quanti colgo il mio frutto. Frutto frutto che lancio tutto attorno, che lancio a te e tu lanci a me e dopo sopra vi saltiamo tutti insieme per andare nel Paese del Buondì, (buon dì), ed ora a dire tocca a te”.
Furono giorni di Vita, esperienze indimenticabili e tutto attorno cambiava in modo vertiginoso. Era tutta una gran cuccagna ed ogni cosa, così trasformata, diventava piacevole. Questa libertà dell’anima dilagò a macchia d’olio. I due fratellini uscivano di casa con Blauber che era diventato il grande amico di tutti. A scuola, tutti impararono di nuovo a ridere e piangere, quest’ultima possibilità negata specialmente ai maschi perché ritenuta una debolezza. E le donne non furono più declassate come ordine sociale ma a poco a poco i ruoli si distrussero da soli. E ci fu una gioia totale di vedersi, scambiarsi e viversi: tutto era indescrivibile. Anche il direttore della scuola, un burbero classicamente temuto per la sua superbia, acquistò uno sguardo così puro che i bambini cominciarono ad amarlo e a non temerlo più. Egli iniziò a piangere di felicità, anche per la sua passata cecità, ma i piccoli che sanno vivere il presente accantonarono il passato, quando entrava tutti attorno gli gridacchiavano:
- Ciao Barol, vieni con noi a fare un girotondo? andiamo poi a vedere le stelle e insegnaci cose che ancora noi non sappiamo. -
E così tutta la vita divenne gioiosa e Zuro e Flea ne erano felici. Non avrebbero mai voluto rompere l’incantesimo, perché temevano che gli adulti tornassero ai loro vecchi ruoli solo per un vizio di ipocrisia. Essi avevano imparato il vivere felice, cosa che non esclude assolutamente l’essere adulti. Zuro e Flea credettero bene sia per loro ma anche per gli adulti, continuare a vivere in quella dimensione.
Così Blauber ebbe la concessione di tramutare quello stato di cose in modo stabile. E così fu.
Questa è solo una fiaba ma chi l’ha scritta si domanda:
- chissà se i bambini che leggono questa fiaba, sarebbero capaci poi di continuare a vivere in questa dimensione una volta adulti, o se varcato il muro dell’adolescenza si dimenticheranno di ciò e ci vorranno altri bambini ancora a ripetere questa storia. Solo a voi la risposta. -

“Anche in una situazione in cui i tuoi sentimenti sono completamente giustificati, o senti di aver pienamente ragione! Anche in questo caso sii aperto alle possibilità di qualcosa al di là di tutto ciò che hai sempre conosciuto. Esci dall’esperienza passata
e buttati in una dimensione totalmente nuova”.
Osho Rajneesh


L’Oca ferita

Abulina era l’Oca capo del villaggio e tutte confidavano nella sua estrema saggezza. Questa era un animale speciale con piume dorate e dal becco argentato, ma non solo per questo si contraddistingueva dalle altre. Si deve sapere, che ogni mille anni tra queste oche ne nasce una con caratteristiche uniche, ed è usanza reputare ciò segno del destino che vuole innalzare il diverso a illuminato e saggio del villaggio. E per tutto questo periodo l’intera popolazione vive e cresce sugli insegnamenti dati dall’Oca designata dal destino.
Già da remote generazioni, allo scadere dei mille anni ciò accadeva con regolarità estrema senza neppure il frapporsi di un secondo. Ora sarà curiosità del lettore sapere cos’era la caratteristica che la rendeva così unica.
L’Oca aveva tre zampe, con due camminava normalmente come le sue coetanee, e la terza le serviva solo nei momenti di grandi decisioni per intraprendere la via giusta. La vita nel mondo Ochinense si svolgeva tranquilla, beata, in maniera molto semplice ed equilibrata. Assai raramente accadeva un qualche importante evento, che richiedeva una risoluzione saggia e determinata. Fino allora le Oche designate avevano saputo prendere queste decisioni nella maniera più giusta. Un giorno accadde una cosa assai grave, in quel mondo così distante dal genere umano. Sapevano, da storie tramandate, che tra gli uomini esisteva un sistema di divertimento chiamato caccia, che consisteva nell’uccidere con fucili dalle pallottole mortali. Essi si vanagloriavano di questo sport dove chi riesce ad uccidere più animali è considerato il più bravo. Un tempo assai lontano, la caccia era soltanto una stretta necessità di sopravvivenza, tempo in cui ancora si rispettava l’equilibrio del tutto. Un giorno, uno strano giorno diverso dagli altri, Abulina avvertì nitidamente che stava per accadere qualche cosa di veramente orribile. Gli altri Ochinensi non riuscivano a crederle, ma dato che lei riscuoteva la loro massima fiducia su tutto, fecero ciò che la saggia Oca chiese loro, e cioè di rifugiarsi all’interno del cratere Ouli, vulcano inattivo da sempre. Lei avrebbe trovato la maniera più giusta e saggia per far sì che la pace tornasse a sorridere nel mondo delle Oche. Questo era proprio un bel guaio, e in queste occasioni così importanti l’Oca era solita andare in vetta al Monte Stero, e qui rimase tre notti e tre giorni. Al quarto giorno, Abulina andò ancora a meditare sotto il vecchio Pino Mazzuolo e mentre era in questo stato riflessivo, caddero tre pigne dall’albero che si tramutarono davanti ai suoi occhi in tre possibilità, e ognuna di esse le illustrò le varie risoluzioni.
La prima era costituita da una forza massima di pensiero, che, capace di uccidere i cacciatori, avrebbe riportato la pace tra le Oche,
la seconda era un filtro magico che avrebbe tramutato i cacciatori in oche,
la terza consisteva in un modo per arrivare al cuore di questi lazzaroni, così che gli stessi di spontanea volontà dichiarassero pace alle Oche.
Questa era la via più rischiosa ma Abulina senza indugio alcuno, con la sua terza zampa, trotterellò verso questa soluzione e lasciò le altre due. Il Pino era felice per la decisione, essendo questa la più saggia. L’Oca si affidò al potere magico della pigna alla quale chiese aiuto. Essa le offrì i suoi pinoli e mangiandoli, questi avrebbero dato ad Abulina la forza interiore per affrontare la situazione. La saggia compì tutto come in un rito magico e così impavida si incamminò verso i cacciatori. Ora l’Oca aveva in sé un potere magico grazie al quale era anche invulnerabile. Gli uomini armati di fucili, appena la videro, spararono e lei decise nell’istante come realizzare il suo piano: volle rimanere ferita dalle armi da fuoco appena gli uomini fossero andati a prenderla... e così fu. Abulina da ogni ferita riportata fece nascere Oche, e questo di certo fu per i cacciatori un’esperienza allucinante. E solo allora l’Oca si alzò e così parlò:
- Voi uomini siete venuti qui con i vostri fucili a seminare panico paura e morte, ma io e le mie compagne vogliamo continuare a vivere in pace, e quel giorno a noi designato per trapassare all’altra vita, non saranno certo i vostri fucili a sentenziarlo. E voi portatori di sterminio, rendetevi conto che neppure l’odio e la stoltezza può vincere, quando saggezza e amore gli fanno da barriera. -
E misteriosamente tutti i fucili si tramutarono in stelle filanti. Dopo questo, gli uomini non ebbero più parole se non lacrime sincere di pianto per la loro superficialità, e fecero solenne promessa che nessuno mai avrebbe più turbato Ochinense, perché loro avrebbero impedito a chiunque di farlo, persuadendolo come loro stessi lo erano stati dalla saggia Abulina. Solo allora le Oche, al richiamo convenuto, uscirono dal Vulcano e con Abulina allestirono un sontuoso banchetto, dove gli uomini furono invitati. Fu una grande festa di pace, dopo di che gli invitati fecero ritorno alla loro terra non più con preda di caccia, ma con qualcosa da insegnare a tutti.

“Se vuoi trarre il massimo beneficio
da qualsiasi situazione, devi impegnarti totalmente.
Questo ti darà la chiave”.
Osho Rajneesh
Il ruscello fatato

Nelle lontane terre di Abaria scorreva un ruscello fatato chiamato Rufa e chiunque vi si immergeva ne usciva spiritualmente arricchito. Questa sua grande facoltà fu scoperta un giorno nel quale vi cadde dentro un delinquente incallito: e di qui ne uscì completamente cambiato, diventando una persona veramente amabile, buona, arricchita interiormente, e così fu per chiunque vi si immergesse. Per questo motivo molti studiosi avevano esaminato dettagliatamente le sue acque che risultavano del tutto normali. Gli Abariani, sfruttando le capacità delle magiche acque, chiusero le prigioni e ogni malvivente del paese fu fatto tuffare in queste acque. Il mondo, dilaniato da guerre sempre più cruenti, essendo ora venuto a conoscenza delle magiche acque si divise in due fazioni, l’una che voleva l’armonia del tutto e l’altra, per interessi economici, che le guerre continuassero ad esistere. Certo era che se i soldati e costruttori d’armi si fossero resi consapevoli di ciò che realmente è la guerra, avrebbero smesso sia di andare al fronte, che di costruire armi sempre più sofisticate. Gli Abariani e questa parte del mondo pacifista volevano veramente pacificare questa umanità piena di violenza e odio e far regnare fra tutti amore e armonia. Una notte, tutti i ricercatori di pace si accamparono sulle sponde del ruscello con rispetto e devozione chiedendogli che fosse loro indicata la via giusta. Le loro parole e pensieri, d’un tratto, presero consistenza in un fascio di luce il quale illuminò tutta la notte e come pioggia di coriandoli cadde nelle acque da cui ebbe vita Dinacodè, dimensione illusoria, che al tempo stesso può essere vissuta come reale. Essa spiegò la sua origine e tutti iniziarono a danzare attorno al fascio di suoni e colori che diventava sempre più bello. Vioux, folletto emerso dalle acque, spiegò come l’essenza potesse essere utilizzata: ogni portatore di pace doveva disporsi attorno a Rufa, tenendosi l’un l’altro per mano infondersi coraggio, e andare poi incontro a coloro che volevano l’odio e le guerre. Le pallottole sarebbero rimbalzate sui corpi dei pacifisti tornando indietro e colpendo così gli altri. In questo modo, sarebbero stati massacrati e, vivendo ciò sulla loro pelle, avrebbero capito l’orrore della guerra. E così fu. Dello sterminio fecero parte anche i batteri killer i quali uccisero i figli degli stessi inventori. Essi piansero lacrime amare e solo ora si resero conto di ciò che avevano fatto. Ah! Se fossero potuti tornare indietro le loro invenzioni sarebbero state rivolte solo per il bene.
“Che orrore la guerra”, dicevano e pensavano tutti. Maori, uno dei pochi sopravvissuti, aveva in tasca dei piccoli fiori che gli erano stati regalati dalla sua bambina rimasta uccisa dal batterio da lui stesso inventato. Si diresse verso un piccolo pezzo di terra, e qui dispose con amore i semi ricavati dai fiori, e da essi sperava ne nascesse almeno uno solo, capace di donare almeno un sorriso in quella valle di desolazione. Così ognuno dei superstiti fece un gesto d’amore, da cui nacque il desiderio di ricominciare a vivere in maniera completamente diversa, all’alba di una civiltà all’insegna della pace. Ora sì che i pochi superstiti erano legati da un qualcosa di divino! A questo punto Dinacodè capì che era il momento giusto per dileguarsi e tornare nelle acque del fiume.
Nel campo di battaglia, dove nessuna catastrofe era veramente accaduta, tornò la realtà, ed ora qui tutti i guerrafondai di prima piangevano lacrime amare perché si erano realmente resi conto di ciò che porta la guerra: distruzione e sofferenza. Con il loro pianto purificarono il loro passato e decisero l’unica cosa saggia: il passato appartiene solo al passato, ora avevano davanti a loro il presente, il futuro, e decisero che da allora in poi avrebbero inventato, tutti quanti uniti, un qualcosa di innocuo per neutralizzare ogni loro passata invenzione.
Capendo che finalmente la consapevolezza era scesa in ognuno, di nuovo Vioux e Dinacodè emersero dal ruscello e con la loro facoltà di esaudire i pensieri positivi, fecero in modo che l’invenzione potesse essere concretizzata subito e la nuova formula dell’invenzione fu così siglata: C.P.N.M.
C = consapevolezza
P = pace
N = nel
M = mondo.


“Sii consapevole che perfino quando commetti
un errore, anche quella può essere un’occasione. Quando capisci che sei andato contro la tua verità e che sei sceso a compromessi, rispetto a ciò che senti nel cuore, lascia che dentro di te le lacrime scorrano in profondità: potranno produrre una trasformazione”.
Osho Rajneesh





Come fece Babbo Delfino a trovare Dolly

Nelle lontane terre dell’Oceano Pacifico, c’era vita di ogni tipo e nelle acque l’esistenza si svolgeva in maniera tranquilla e armoniosa. Gioco, fantasia, attività quotidiane erano tutte in equilibrio così perfetto, che nessuno degli abitanti mai si lamentava della vita anche laboriosa che dovevano svolgere, specie in certi periodi dell’anno, in cui il cibo abbondava e i delfini dovevano fare provviste per i tempi più magri. Qui esistono famigliole che si raggruppano in branchi e non si dividono mai. Ognuno ha i propri compiti che con diligenza e amore ogni giorno riesce a portare a giusta conclusione. C’era una famigliola di cui vi parlerò con più precisione perché la sua storia fece il giro dell’Oceano.
C’erano babbo e mamma delfino che misero al mondo una bella delfina di nome Dolly.
Dolly era diversa dalle altre pescioline, era curiosa in maniera estrema, così tanto che ogni onda dell’Oceano la distraeva e babbo e mamma dovevano stare attentissimi a non perderla di vista. La delfina voleva bene ai suoi genitori, ma la curiosità era così forte che avrebbe fatto follie per scoprire altre verità. Man mano che la piccola cresceva, l’Oceano le diventava sempre più stretto. Era intelligentissima e sicuramente a lei si addiceva il mestiere di scienziata o ricercatrice. Voleva allargare la sua conoscenza e Dolly avvertiva, intuiva che il mondo non si limitava solo all’enorme Oceano che la accoglieva, e dentro di sé un qualcosa la spingeva a conoscere altre realtà. Così un giorno, mentre babbo e mamma Delfino nuotavano e guizzavano fuori dalle acque, Dolly in un impeto ancor più forte dell’affetto che provava per i propri genitori, con un forte guizzo, salì sulle spalle di Miron, un suo amico gabbiano, e gli chiese di portarla a fare un giro per esplorare altri mondi. E così Miron fece. Lui sapeva bene dell’innato spirito libero di Dolly e che ora lei era adulta abbastanza per decidere. Così fu che, con un sospiro, Miron accontentò l’amica. Vola che ti vola, sfiorarono l’alto dei cieli e ad un certo punto Dolly vide la terraferma. Ciò la emozionò tantissimo, non tanto perché non l’aveva mai vista, ma perché le sue teorie prendevano consistenza: esistevano altre dimensioni oltre l’Oceano. Così chiese a Miron di portarla sulla terraferma perché lei voleva esplorarla e così fece. Miron disse all’amica:
“Buona fortuna Dolly, quando hai bisogno di me, chiamami, io verrò da qualsiasi parte sia, non dubitarne mai”.
E così i due amici si salutarono affettuosamente. Dolly iniziò la sua avventura. Vide che nel mondo c’erano male, ingiustizia e soffriva di ciò. Cercò di vivere la sua avventura nella maniera più completa possibile, e fece in modo tale da lasciare un’impronta positiva in tutto ciò che qui sperimentava. Imparò anche molte cose, un giorno le avrebbe raccontate ai suoi piccoli non come una favola, ma come esperienza di vita, visto che decise di far ritorno nell’Oceano.
Ora che sapeva dell’esistenza di un’altra dimensione, vi sarebbe tornata un giorno con i suoi figli per nuove esperienze. Voleva che i suoi bambini conoscessero più realtà possibili e decidere poi in piena libertà la via preferita.
Un giorno Dolly sentì più che mai il richiamo dell’Oceano, allora chiamò Miron, il fedele amico, che arrivò puntuale come sempre. Nel viaggio si scambiarono le varie esperienze fatte. Anche Miron, dei suoi voli, aveva molto da raccontare.
Quello che si dissero! Vi dirò solo la conclusione del loro lungo dialogo. Si ripromisero di tornare assieme sulla terraferma e nell’alto dei cieli per arricchire sempre più le loro esperienze.
Ecco l’Oceano:
“A presto Miron”.
“A presto Dolly, quando sarà il momento di viaggiare ci ritroveremo come sempre”.
E Dolly con un guizzo tornò nell’Oceano. Suo padre era lì che nuotava alla ricerca di Dolly. Si voltò e finalmente la vide.


“Noi siamo il risultato dei nostri pensieri, tutto viene determinato dal nostro pensiero.
Se un uomo parla o agisce con intenzioni pure,
la felicità lo seguirà come un’ombra per sempre”.
Buddha, Pensieri




Perché le nuvole stanno in cielo

Un tempo ormai lontano un intero continente era minacciato da un pauroso terremoto che lo avrebbe raso al suolo, ma per fortuna fu scoperto dai macchinari sofisticatissimi degli Eulotoni, popolo dalla civiltà assai progredita.
Essi avevano capito che finché un solo individuo soffre, la felicità è solo effimera perché anche se così diversi, siamo tutti figli di un medesimo mistero.
Gli Eulotoni decisero così di aiutare questo continente nella realizzazione di una macchina sotterranea capace di neutralizzare il sisma.
Certo che gli Eulotoni avrebbero dovuto accantonare per un lungo periodo il loro estremo benessere. Per loro ne valeva la pena, poiché era per la salvezza di altri esseri viventi. Dopo che l’altro continente fu salvato, i due popoli vissero un lungo periodo di felicità, fino a quel giorno in cui tutto l’equilibrio si stravolse a causa di un virus, che neppure gli scienziati riuscirono a distruggere. La sua manifestazione consisteva in invidia, cattiveria, odio e rivalità e questo contagio si allargava a macchia d’olio.
Prima che contagiasse tutti, arrivò Luoxa, la scienziata che era anche chiaroveggente e per merito di questa sua dote aveva previsto tutto.
Lei aveva nascosto una sostanza capace di arginare questo virus denominato Boioc.
Le dosi del vaccino non erano sufficienti per tutta la popolazione, per fortuna però questo rendeva immuni chi lo prendeva e le persone non ancora contagiate che venivano in contatto con essi. Questa era una guerra tra Virus, che continua ancora oggi.
Luoxa ebbe il dono dell’immortalità e per questo la scienziata giurò di fare sempre di tutto per arginare il grande male.
Gli scienziati di allora e le persone rimaste indenni, piansero tantissimo nel vedere come il virus riducesse le persone, e versarono così tante lacrime che da queste scaturirono rivoli d’acqua. Un giorno ci fu un sole così intenso da far evaporare le lacrime cadute e queste arrivarono fino al cielo. Così ebbero origine le nuvole e da quelle altre ancora, nate sempre dalle lacrime di coloro che sperano che le situazioni migliorino.
Ogni tanto le lacrime delle nuvole cadono sulla terra per ricordare a Luoxa la promessa fatta, e torni così quel lontano giorno in cui gli Eulotoni avevano acquisito veramente il saper vivere.
Si avvererà tutto ciò?
Molte più assai persone si rivolgeranno fiduciose all’infinito e più questa speranza ha la possibilità di concretizzarsi.

“Non esiste il male per chi non lo commette.
Colui che non ha ferite nella mano
può toccare il veleno e rimane incontaminato”.
Buddha, Pensieri








Perché il cammello ha due gobbe

Il cammello, molto tempo fa, invece di avere due gobbe aveva al loro posto due enormi sacche capaci di contenere tante tante cose. Quest’animale aiutava sceicchi, lavoratori e qualsiasi persona ne avesse bisogno. Ma le persone, a cui lui con tanto amore si rendeva utile, si approfittavano sempre della sua enorme generosità.
Gli sceicchi mettevano nelle enormi sacche del cammello, ori, preziosi di ogni genere e il poveretto era sobbarcato sempre da enormi pesi. Allora il cammello fuggì lontano dall’uomo ricco, anche perché quando l’animale non riusciva nel lavoro e camminava più piano veniva frustato.
Pensò:
“Forse l’umile lavoratore sarà migliore. Sì, lui mi tratterà bene sapendo cos’è il duro lavoro. Andrò da lui”. E così fu.
All’inizio andò bene e il cammello ne fu felice, ma questo durò ben poco. Questi uomini avendo a loro disposizione la generosità incondizionata del cammello, credettero bene di poter risparmiare a loro stessi parecchia fatica, tanto che importanza mai poteva avere un cammello?
Questa era per loro un’occasione d’oro. Avrebbero potuto lavorare con meno sforzo faticando meno, e guadagnare di più. E il costo era ben poco: sfamare il cammello consisteva solo nel portarlo al pascolo per brucare l’erba dei campi e questa non costava nulla.
E tutti erano felici, eccetto il cammello che era ben triste della sua sorte e, un giorno in cui non riuscì a lavorare bene come al solito, ne buscò come un ciuco.
Allora, con la complicità delle notte, decise di fuggire ed andò là dove c’erano molti bambini: “Loro certo sono buoni e innocenti e non mi maltratteranno” pensò l’animale. Ma dopo ben poco capì che la sua situazione non era affatto migliorata, infatti una massa di piccoli marmocchi salivano nelle sue enormi sacche e il peso era davvero insostenibile.
I bambini, per la loro ingordigia di divertirsi, non si rendevano conto di nulla. Si sa, i bambini sono buoni ma, se nessuno dà loro il buon esempio, possono diventare davvero insostenibili. I grandi li incitavano a approfittarsi del cammello e nessuno capiva che anche lui soffriva sia nel fisico che nel cuore. Anche gli animali, che molti ne dicano, hanno un cuore, emozioni sussulti sentimenti come quelli tuoi mio piccolo lettore, e va rispettato nella sua dignità di essere vivente. Nessuno mai aveva parlato loro così degli animali e i piccoli vedevano nella bestia solo un divertimento, ma se qualcuno glielo avesse insegnato i marmocchi avrebbero compreso.
Il cammello, di nome Beniamino, capì questo e per questa ragione non voleva abbandonare i piccoli come aveva fatto con gli adulti. Loro senz’altro avrebbero capito. Avrebbe voluto aiutarli ma come? Ci pensò il caso. Proprio così, molte volte nella vita il caso scorre da solo, basta prendere l’occasione che la vita ci offre e usarla il meglio possibile. Bisogna essere sempre consapevoli di ciò che ci sta intorno, le occasioni per crescere a volte sono uniche e irripetibili e sta a noi coglierne l’attimo fuggente.
Un giorno in cui i bambini erano più temibili del solito, salirono su Beniamino in un numero assai superiore delle volte precedenti. Cammina che ti cammina, il cammello passò vicino ad una cava di pietra che sotto i suoi passi pesanti iniziò a tremolare. Ed ecco cosa accadde! Dall’enorme cava caddero delle pietre e come per miracolo i bambini caddero rimanendo incolumi e sul groppone di Beniamino caddero due enormi massi, e lui dal gran dolore svenne. I bambini, che anche se birbanti hanno un gran cuore, iniziarono a piangere, sgomenti nel pensare che il cammello fosse morto. Capirono quanto erano stati sciocchi nel loro sbaglio, infatti avevano preteso l’impossibile da Beniamino e giurarono che se l’amico si fosse salvato, non si sarebbero mai più approfittati della sua bontà. E Beniamino stava male sia a causa della gran fatica a cui da troppo era stato costretto, che nel proprio cuore, in cui sentiva il non affetto che tutti gli avevano dimostrato. Comunque sia, aprì gli occhi e figuriamoci la contentezza dei piccoli! Loro curarono Beniamino con molta dolcezza e amore. I grandi volevano liberarsi del cammello perché stava ancora male e avevano timore che desse loro troppo da fare, ma i piccoli si schierarono in massa attorno all’amico, nessuno escluso.
E altri bambini fuggendo da casa scesero da tutte le parti sapendo che gli adulti volevano uccidere Beniamino, tutti erano schierati per salvarlo. Solo allora, vedendo la compattezza unanime dei piccoli, gli adulti sentirono dentro di loro battere un cuore, cosicché dissero ai marmocchi che non avrebbero più ucciso il loro amico, ma avrebbero dato il permesso di curarlo offrendogli anche il loro aiuto. Così iniziarono tutti a curare il malato.
Ma giusto! Ho dimenticato di dirvi cosa successe a Beniamino! Che distratta! Ricordate miei piccoli lettori le due enormi pietre cadute sulla groppa di Beniamino? Dalla gran botta gli vennero al posto delle sacche due enormi bernoccoli, i quali nonostante le cure amorevoli dei bambini e degli adulti non se andarono mai più.
Da quel giorno in poi i cammelli sono nati sempre con due gobbe perché su due gobbe non si può certo mettere tutto il peso che mettevano prima nelle sacche di Beniamino.
Sì, i bambini avevano capito la lezione, ma i cammelli pensarono bene fosse meglio così, in questa maniera era eliminato ogni problema anche perché, come dice il proverbio, “l’asino non casca mai nello stesso punto”.

Quando usi il potere devi avere un profondo rispetto
per gli altri e per la totalità dell’esistenza.
Non interferire nella vita di qualcun altro
con le tue idee intellettuali. Se hai potere
non manipolare gli altri, usalo creativamente.
Osho Rajneesh

















L’Orologio cantastorie

Tic-tac, tic-tac, tic-tac ....
Di quante storie è stato partecipe quel pendolo che è tradizione di casa Flauber, tramandandosi di generazione in generazione.
Nel castello abitano ora i giovani coniugi Flauber che assai spesso devono assentarsi da casa, lasciando così la loro bambina di nome Nenè in compagnia della balia Elsa. Questa donna oltre che balia, è un tuttofare, per cui molte volte va nelle altre stanze lasciando la piccola sulla seggiola a dondolo e lì vicino vi è un pendolo, che mai si stanca di cantare la sua nenia sempre uguale.
Nenè ne è affascinata e su di lei ha un effetto magico. Quel 13 dicembre in cui faceva un freddo birbone, e la neve scendeva a fiocchi enormi, l’albero del grande giardino era stato ricoperto dal tipico manto della neve, e sentite cosa accadde a Nenè. Lei era sola davanti a questo magico scenario e il ticchettio del pendolo sembrò tramutarsi in voce.
Era sogno o realtà? La piccina si dette un pizzicotto per accertarsene. Era proprio sveglia!
- Tu sei proprio dolce e simpatica, ti voglio raccontare di cavalieri e cavalli dalle ali dorate dove portavano le proprie donzelle a visitare paesi fantastici e qui vivevano draghi dalle cui fauci uscivano, invece dei fuochi incandescenti, dolciumi e leccornie che i cavalieri portavano ai bambini poveri che vivevano nelle misere capanne sulla sponda del fiume Trioloco, essi uscivano dalle loro dimore a raccogliere i mille dolciumi lasciati cadere dai cavalieri dorati e li mangiavano a sazietà.
Felici di questo gesto d’amore, sempre più si rendevano conto della loro misera situazione e dell’ingiustizia che esisteva nel regno di Trioloco.
Si deve sapere che questi dolci erano magici ed era questo un cibo capace di nutrire corpo anima e mente.
I cavalieri assai spesso li portavano ai piccoli che, giorno dopo giorno, diventavano sempre più grandi. Fu così che un giorno, quando questi crebbero, chiesero ai cavalieri di unirsi a loro per portare la giustizia nel mondo. E così fu.
Furono procurati altri cavalli per i nuovi paladini della giustizia e i cavalieri che ora erano tantissimi, tutti uniti assieme decisero di andare a reclamare giustizia dal Re Fario.
Il Re intanto a corte era diventato sempre più ricco, più avido e sempre più solo. Ognuno dei suoi sudditi aveva cessato di amarlo.
Si deve sapere che molto tempo prima, quando Re Fario era giovane, fu amato e rispettato da tutto il popolo, egli infatti era saggio e buono, e nel suo regno si stava veramente bene.
Un giorno, un brutto giorno, arrivò un mago crudele che fece al Re un sortilegio, rendendolo così cattivo e avido, e da quel giorno in quel regno dove prima soleggiava giustizia e felicità, si conobbe il vero volto della tristezza e della miseria.
Il popolo per paura accettava sempre più ingiustizie, sempre più tasse senza mai ribellarsi, cosicché Re Fario, sicuro della sudditanza del popolo, ne metteva sempre delle altre e sempre più governava con arroganza e tracotanza.
Tutti i cavalieri che erano arrivati alla corte del Re Fario chiesero di essere annunciati e furono subito ricevuti. Proprio così, era tanto che il Sovrano non vedeva nessuno oltre i servitori, i quali anche se molto ubbidienti per paura, erano con lui freddi e distaccati.
Re Fario aveva estremo bisogno di vedere, di parlare con qualcuno perché la solitudine è assai brutta e ancor di più lo è essere odiati da tutti.
- O Sovrano -
dissero
- la tua solitudine è a noi nota e se continuerai ad essere così tiranno, di certo morrai solo, perché nessuno può amare un Re dispotico. Che tu sia il nostro Re, ma come lo eri una volta, ed allora anche l’amore tornerà attorno a te. Solo allora i tuoi sudditi ti porteranno in gloria perché tutto si può, anche essere Re, unici e decidere le sorti di un paese, ma tutto consiste nel saperlo fare, solo così potrai essere degno d’amore e di stima. -
Allora, solo allora, l’incantesimo si sciolse, e il Sovrano iniziò a piangere così tante lacrime da lavare tutti i suoi malfatti. I cavalieri, dopo aver così parlato, credettero bene andare via sui loro cavalli dorati e lasciare il Sovrano solo con se stesso.
Re Fario, dopo una grande riflessione avuta a tu per tu con la propria anima decise: chiamò a sé i suoi servitori e comandò loro di imbandire una grandissima tavola e, in ogni stanza della reggia imbandire un sontuoso banchetto a favore di tutti i suoi sudditi, e lui avrebbe parlato loro di un cambiamento nel Regno, e così fu fatto.
I cittadini di Trioloco pensarono che tutto ciò era molto strano e ubbidirono all’ordine, e nel giorno prestabilito, le porte della corte furono aperte a tutto il popolo.
Fu un banchetto ricco di ogni portata e il Re, che naturalmente era presente, tenne un discorso. Disse che dei cavalieri erano riusciti ad aprirgli il cuore fatto prigioniero, un giorno lontano, da un cattivo sortilegio e finalmente l’incantesimo era finito, e grazie a ciò sarebbe tornato a regnare con l’amore e la saggezza di un tempo. Proseguì il discorso nonostante le grida di felicità del popolo, e chiesto di fare silenzio così proseguì:
- Ciascuno di voi è in egual misura responsabile del cattivo sortilegio di cui caddi vittima, infatti nessuno fra voi, per paura, si è fatto avanti per reclamare del mio mal regno: questi prodi cavalieri disarmati si sono esposti per rivendicare i diritti di un popolo mal governato, ma in altrettanto modo vi dico vittime della vostra paura e codardaggine, a tal punto da subire cose ignobili. Tutto ciò sia a voi di lezione e a chi vivrà dopo di voi, tramandate alle future generazioni la storia di Re Fario, e spero che da oggi in poi nel mondo non esistano più le tristi sorti che fino ad oggi ho visto a Trioloco. Vi dico di parlare, non abbiate paura di ciò, siate uniti e sarete ascoltati. Ed ora andate o popolo verso le nuove vie. -
Tic-tac, tic-tac, tic-tac, e Nenè torna alla realtà.
Elsa, avendo finito le faccende domestiche, chiamò a sé la piccola che nell’entusiasmo le corse incontro dicendo:
- I cavalieri alati, i cavalieri alati! -
e la balia
- piccina mia cosa dici? -
Nenè le raccontò così la fantastica storia e la balia sopraffatta dalla stanchezza, mentre Nenè narrava la storia, si addormentò, così la bambina premurosa, coprì Elsa con una coperta e, camminando piano piano per non svegliare la balia, tornò sulla sua seggiola a dondolo vicino al pendolo e così l’orologio continuò la sua storia.
- Piccina mia, la storia che ti ho raccontato è una storia vera, io l’ho vissuta, ero lì presente nella sala dove Re Fario parlò al popolo. Sì, ero lì fiero nel mezzo della stanza e il mio cuore batteva batteva commosso di tutto ciò che stava accadendo, e avrei voluto abbracciare il popolo e Re Fario perché finalmente, era tornata la serenità e il quieto vivere nel Regno di Trioloco.
Si susseguirono così anni felici e un giorno Re Fario in tardissima età cessò di vivere. Era così vecchio che lui stesso aveva perso il conto degli anni che aveva, e così egli volò in cielo col sorriso sulle labbra e nel cuore, grazie al fatto che era riuscito veramente ad essere un ottimo Sovrano, e più che Re da quel giorno fu per il suo popolo come un buon padre.
Alla sua morte ogni cosa era giusta e la povertà nel Regno di Trioloco non esisteva più. In suo onore ci fu una solenne cerimonia dove canti e danze si susseguirono ricordando con gioia e dolore il Re con amore vero, e nella piazza principale fu costruito da maestri artigiani una bellissima statua del Sovrano.
Erano tutti profondamente commossi e salutarono il Sovrano con elogi e la sua memoria non tramontò mai.
Il trono fu ereditato dal figlio Salfo.
Il Re Fario aveva così deciso perché il figlio sembrava buono e saggio, ma ben presto il popolo si rese conto che Salfo aveva avuto questo comportamento solo per salire al trono, ma in verità egli era solo un dispotico assetato di potere.
Re Fario prima di andare in cielo, aveva ricordato ai sudditi il discorso da lui tenuto a corte, quando l’incantesimo si sciolse e si raccomandò che le sue parole fossero sempre vive, al fine di non permettere a nessuno di sopraffare la dignità di ciascun abitante del suo popolo.
Salfo, con la compattezza di tutto il popolo, fu detronizzato e messo a lavorare nei campi e a vivere in una misera casa, e non poté certo ribellarsi a questa situazione, perché proprio nessuno gli era complice così che per mangiare era costretto a lavorare sodo, cosa del tutto insolita per un Sovrano.
Negli anni Salfo riuscì a vedere e leggere nel più profondo di sé, e comprese finalmente il suo popolo e suo padre che era così ben riuscito con l’amore e la saggezza, ad innescare nell’animo del popolo la giustizia e nessuno più sarebbe riuscito a far subire soprusi a nessuno di loro.
Comprese finalmente i suoi errori e volle porvi rimedio, chiese di essere ascoltato e così parlò ai sudditi nella piazza principale, promettendo di proseguire le orme del Padre, semmai credendo alla sua buona fede lo avessero scelto in piena libertà come loro Sovrano.
Questo discorso toccò il cuore di tutti e tutti sentivano che erano parole sincere, e fu così che Salfo fu eletto all’unanimità di nuovo Re.
Di nuovo a Trioloco ritornò l’armonia e l’amore e ogni successore da allora in poi fu saggio e amato da tutti.
Come fu possibile che da Salfo in poi in ogni Re ci fosse tanta consapevolezza e amore?
Questo Sovrano divenne un grande saggio e riuscì a dare a pochi eletti capaci il compito di governare con lui il paese e di tramandare così la saggezza ai pochi che erano veramente degni di questa fiducia.
Mai più ingiustizie sarebbero dovute esistere ma solo saggezza e amore, unico strumento per un vivere equilibrato e armonioso.
Tic-tac, tic-tac, tic-tac
ed ecco i genitori della piccola Nenè che tornavano dal loro lungo viaggio.
Lei corse incontro a mamma e papà con il cuore aperto, perché questa storia le aveva regalato un qualche cosa di grande e bello, e questo dono ora voleva condividerlo con tutti.
Volle raccontare subito questa storia ai genitori, che ne rimasero completamente sconvolti e solo ora sentirono la responsabilità della grande solitudine di Nenè, e capirono che erano stati troppo severi con la figlia e i loro cuori tornarono a battere di vere emozioni.
Da quel giorno tutto cambiò in casa Flauber, i genitori trovarono più tempo per Nenè e riuscirono a esprimerle quell’amore di cui prima erano stati incapaci.
Elsa non perse mai il ruolo affettivo che aveva nella vita di Nenè, che per lei nutrì tanto amore come per sua madre.
E sì, l’amore non è una torta che si divide a fette, ma lo si può dare a tutti senza suddividerlo in porzioni.
La vita continuò il suo corso e quando Nenè ebbe a sua volta figli propri, chiese ad Elsa di fare loro da balia. E il pendolo continuò il suo tic-tac, tic-tac ed ora ha una nuova bella storia da raccontare.

Il cuore può parlare alla roccia ....
l’amore totale rivela questo mistero.
Sii folle dal cuore.
Osho Rajneesh







Il secchiello fatato

Ramona, una ragazzina molto infelice e altrettanto buona d’animo, compiva quel giorno 12 anni. La sua vita era assai triste e per rallegrare le sue giornate, andava sempre in riva al mare e qui stava ore e ore a parlare con ogni elemento della natura, solo così il suo cuore trovava refrigerio, ma tornata alla vita normale la tristezza albergava sovrana dentro di lei.
Non si confidava mai con nessuno perché già così piccola, si era chiusa al mondo, e grazie alla generosità dell’esistenza, per il giorno del suo compleanno conobbe Sara, una bambina di sette anni con la quale strinse una profonda amicizia.
Subito appena la vide, Ramona grazie alla sua estrema sensibilità, seppe riconoscere in lei una persona eccezionale che nascondeva in sé qualcosa di veramente bello e magico.
Fu così che le giornate di Ramona tornarono a sorridere e il suo piccolo cuore indolenzito da un grande dolore, ne fu riscaldato.
Ramona confidò alla sua grande amica il dolore che da tanto tempo albergava in lei.
Le raccontò che fino all’età di cinque anni aveva vissuto con sua madre e suo padre vicino ad un piccolo ruscello, e delle giornate felici con la madre in cui spensierate andavano a rincorrere le farfalle nei prati, e a volte spiandole da lontano senza recar loro disturbo le osservavano, in tutto il loro magico splendore. Queste avevano colori stupendi che riuscivano a toccare il cuore, lasciandovi una sensazione indescrivibilmente meravigliosa. Tra queste in particolare c’era una farfalla da loro chiamata Isotta, ancor più bella delle altre, e sembrava veramente metterle in contatto con qualcosa di veramente profondo; era azzurra con riflessi gialli, arancioni e puntini trasparenti: essa le accompagnava nelle loro lunghe passeggiate e poi, quando madre e figlia rientravano a casa, lei si innalzava nel cielo volteggiando, disegnando nell’aria magici disegni, e pareva desse loro appuntamento per il giorno successivo.
Ramona raccontò poi a Sara delle giornate felici trascorse nel giardino della loro casa, dove c’era un’altalena e mamma, papà e figlia giocavano felici: il babbo Gabriele spingeva l’altalena dove stava la figlia, verso sua moglie Anna, e appena l’altalena arrivava dalla mamma, questa la spingeva di nuovo verso il papà, proprio come nel gioco della palla a volo, e Ramona ne era elettrizzata.
Ma un giorno Isotta non si vide più e neppure la mamma Anna. Il babbo, con gli occhi lucidi di pianto, spiegò a Ramona che la madre era volata in cielo sulle ali di Isotta. La bambina tutti i giorni andava al ruscello, cercando di sua madre e di Isotta, ma non le trovò mai, se non nei fantastici stupendi ricordi che arrivavano dalla mamma, che era volata in cielo sulle ali meravigliose di Isotta. La piccola immaginò che le due fossero fuggite assieme in un mondo lontano, rapite dalla bellezza l’una dell’altra. Chiamò Isotta, perché portasse anche lei in quel mondo dove avevano trovato la nuova dimora, ma a nulla valsero le sue affannose invocazioni.
Ora che mamma Anna non c’era più, era tutto tremendamente triste e fu così che Gabriele, decise di trasferirsi con il consenso della piccola in un altro posto vicino al mare, dove il ruscello sfociava: la sua Anna amava torrenti fiumi e mari e fu qui che Gabriele si volle trasferire, per rendere omaggio alla partenza prematura dell’amata.
Ramona ebbe sempre più uno stretto legame con il mare, e le pareva che dalle acque venisse la voce della mamma e che le onde, infrangendosi sulla sponda, fossero le mani di sua madre, che così la raggiungevano per accarezzarla ancora.
Sara fu veramente commossa dalla storia di Ramona, ma misteriosamente Sara scomparve per una settimana. Eppure le aveva detto che sarebbe tornata, che cosa mai era accaduto? Forse anche questa aveva preso il volo come Isotta e sua madre? No, non voleva perdere anche questa cara persona, così ogni giorno fiduciosa e speranzosa tornò in riva al mare aspettando. E dopo una settimana finalmente ritrovò Sara e le due amiche si corsero incontro.
Ramona le domandò:
“Perché non sei più venuta, credevo che anche tu fossi andata via sulle ali della farfalla Isotta!”.
Sara le rispose che le era stato impossibile arrivare pri-ma, perché era andata a cercarle un regalo speciale, e pose nelle mani di Ramona un secchiello dicendole:
“Questo è per te, è fatato e solo tu potrai usarlo e solo con te egli potrà sprigionare i suoi poteri”.
Ramona era stupita da ciò che le stava accadendo, non aveva mai immaginato che una fata potesse nascondersi in una bambina, nonostante questo le credette: il secchiello rimase tra le sue mani e Sara scomparve.
Ora solo a Ramona spettava trovare la maniera per far uscire la magia dal secchiello fatato. Provò a stropicciarlo forte forte come aveva letto ne “La lampada di Aladino”, ma non accadde nulla. Guardò poi intensamente nel fondo del secchiello, per vedere se ne uscisse un genio, ma non successe nulla. Come fare per far sì che dal secchiello uscisse la magia? Le novelle non le furono di nessun aiuto e aspettò che accadesse un qualcosa in lei capace di risvegliare il magico secchiello. Lo custodì gelosamente in un cassetto, aspettando fiduciosa quel giorno e sempre lo portava con sé in riva al mare: fra lei e il secchiello si creò un legame e sentiva in sé nascere di nuovo l’amore per il mondo e la vita. Forse era questo il lato magico del secchiello: aver fatto tornare in lei quel cuore aperto di cui aveva tanto bisogno. Forse era questo il suo lato magico e sentiva che comunque fosse, questo era un secchiello non comune, e sapeva che solo lei poteva vedere e sentire questa cosa. Ma la tristezza per la scomparsa prematura della madre non l’abbandonò mai.
Sara da quel giorno era svanita nel nulla, ma Ramona ne sentiva la presenza costante, respirava la sua esistenza in ogni sussurro di vento, parlava con Sara come fosse fisicamente presente e mai a nessuno raccontò questo lato della sua vita. Aveva compreso che le grandi emozioni e le cose veramente importanti, non vanno sciupate con inutili parole, ma vanno custodite strette strette nel cuore, così che ci facciano crescere spiritualmente. Ramona cresceva ed era sempre più bella, i suoi occhi stupendi racchiudevano la profondità dell’oceano e la dolcezza infinita dei suoi primi cinque anni di vita, le avevano lasciato una dolcezza senza limite che si tramutò sempre più in un perfetto equilibrio tra mente e cuore: per questo era amata da tutti e a tutti lei riusciva a dare qualcosa di veramente grande. Anche il ricordo di Sara era per lei motivo di gioia infinita. Non sapeva quando, ma prima o poi sentiva che l’avrebbe incontrata di nuovo.
Un giorno, dopo tanto tempo che non lo faceva, portò il secchiello fatato in riva al mare e lo riempì d’acqua dopo di che, dentro l’acqua apparve l’immagine di Sara, era bella più che mai ed ora aveva 9-10 anni, il suo volto era l’immagine della purezza proprio come Ramona lo ricordava e così le parlò:
“Sara, amica mia, dove eri mai finita? Dove sei stata? Quanti ricordi mi evoca la tua immagine”
e Sara così le rispose:
“Amica mia, sono là dove la terra lascia spazio allo spazio senza che esso sia invaso da nulla, se non dal desiderio di essere tale. Lì ogni cosa bella è realtà, ogni realtà è possibile se buona. Come ti dissi, questo secchiello è fatato e tu ora ne hai scoperto la magia ed è tempo che essa si possa concretizzare, e se lo vuoi esprimi un desiderio ed esso si avvererà: versa un po’ d’acqua e di rena in questo secchiello e di’:
- Sabbia magica io ti spargo su quest’acqua limpida e pura come il mio desiderio innocente. Fa che io possa...”.
Ramona portò a termine il rito magico e disse:
“Fa’ che io possa giungere là su quella terra su cui tutto si avvererà, ciò che è buono e saggio”.
E sulla scia di un raggio di sole, si ritrovò in una dimensione dove il pensiero aveva forma e colore e così pure i sentimenti e i desideri. Erano colori dalle forme stupende e disparate e tutti assieme formavano un girotondo che girava tutt’intorno a Ramona, e lei aspettava, estasiata da una simile bellezza, che anche le sue forme-pensiero prendessero consistenza.
Lì tutto era fantastico e al tempo stesso reale.
E senza neppure accorgersene, le uscirono dalla bocca queste parole “vorrei vedere mia madre, dove vive e come sta, la vorrei stringere ancora una volta a me e attingere, in un attimo, ogni frazione di tempo non vissuta con lei, riportarla con me sulla terra, se la mamma lo vuole”.
E mamma Anna apparve in tutto il suo splendore in una luce dorata con riflessi arancioni celesti e gialli e mille altri colori, che non hanno corrispondenza con nessun colore esistente sulla terra, ma tutti nati da una luce che solo la purezza fa scaturire. E la madre così parlò a Ramona:
“ Figlia mia come sei bella! Io ti avvolgo nella mia luce e ti farò dono della pace del tuo cuore, pace che perdesti quando io caddi nel sonno eterno, così come lo chiamano i terrestri. Quante volte avrei voluto parlarti, ma i tuoi occhi velati di lacrime erano un ostacolo fra i nostri due mondi, e così lo sarebbero rimasti fino a che tu non mi fossi venuta a trovare in questa dimensione da cui ora attingo luce”.
Fu un abbraccio indescrivibile dove le mani non si stringevano, dove l’abbraccio inteso come abbraccio non si tocca, ma fu uno stringersi in un tuono di luce, musica e colore. L’intensità fu molto forte e tutte e due le donne ne uscirono arricchite di esperienza, saggia maestra di vita. Non si dissero nulla perché molte volte le parole annullano la magia dell’attimo che si sta vivendo. Questo Anna e Ramona lo sapevano bene. Furono le anime che si incontrarono e si scambiarono parole segrete senza limiti di dolcezza, e Ramona capì che il suo soffrire era il non aver mai saputo dove sua madre aveva trovato dimora.
“Ramona” - disse mamma Anna - “rimarrai sempre nel mio cuore, ora che sai, torna nel mondo, il tuo viaggio non è ancora terminato. Hai ancora molte albe da vedere e da vivere nella dimensione terrestre. Ora il dolore non sarà più tuo fedele compagno di vita, potrai rifuggire da esso perché non hai più motivo di versare lacrime di dolore per me, ora che sai. Io aspetterò altro tempo, poi in altre sembianze tornerò sulla terra e ci rincontreremo, poi alla fine dei tempi ci ricongiungeremo in un’unica possibilità di amore. Io tornerò e sarò vicino a te di nuovo, non più come madre. Più non ti dirò”.
E Ramona disse:
“Madre io ti lascio in questa dimensione, non più con il cuore infranto ma con la gioia dell’anima perché so che la tua essenza vive in altri mondi e so dell’amore che ti circonda. Non più addio ma solo un arrivederci madre mia, in un dove e quando senza mai più altri addii”.
E così un altro raggio di sole riportò Ramona sulla spiaggia. Il secchiello era ancora pieno d’acqua con dentro un fondale di sabbia dorata, e l’acqua le sorrideva e sempre lì, costantemente l’immagine di Sara e anche della cara farfalla Isotta. E così Sara parlò:
“Ramona, poni quest’acqua come fosse rito magico nel mare e diamoci solo un arrivederci. Io sarò con te e quando lo vorrai saprai come fare, ed io sarò sempre lì, in un’immagine che si concretizza dalle acque magiche del mare”.
E con un devoto rispetto e movimenti e apertura dell’anima e del cuore, Ramona gettò l’acqua del secchiello nel mare. Il sorriso di Sara fu una scia che si dipinse nelle acque marine e si dileguò nelle profondità oceaniche.

“Usa la tua intelligenza per cercare le cose là dove sono, anziché dove non sono, anche se è buio. Guarda all’interno”.
Osho Rajneesh






La rana volante

Nel Bosco delle Fate Rezine esiste un pioppo magico che riflette la sua immagine nelle acque del ruscello Brio, il quale costeggia tutto quel fantastico mondo. Qui i rami degli alberi accarezzano il cielo in maniera tale da dare la possibilità agli uccelli di avere il loro nido fra le nuvole, e la vita esistente in questo luogo è in perfetto equilibrio e tutto ha una collaborazione perfetta con ogni cosa. Le fate Rezine ad ogni alba eleggono Re o Regina un abitante del Bosco e ciascun abitante può raccontare una fiaba e quella che è reputata la più bella dà la facoltà a chi l’ha narrata di mettere le ali. In questo luogo ameno, dove c’è posto per tutti, non esiste la morte e qui tutti convivono in armonia.
Dal ruscello escono pesci dai mille colori che dialogano con le onde, le quali sono avvolte da una miriade di moscerini e tutti attorno vi danzano felici. L’unico essere che ancora non vi ha saputo trovare spazio è Maron il Drago delle acque, la sua comparsa annuale faceva tremare tutto il pacifico vivere dell’Isola e il giorno fatidico stava avvicinandosi.
Quel giorno Veta, la rana del ruscello, era in pericolo e nessuno mai l’avrebbe salvata se non il volare in alto per sfuggire a Maron. Nel fondo del ruscello vi era un mondo dove la vita si svolgeva tranquilla fino al risveglio del Drago. Perché proprio la Rana era in pericolo?
Maron nel sonno parlava e faceva con chiarezza il nome della sua prossima vittima, e questa volta aveva fatto il nome della Rana.
Quel giorno anche Veta doveva raccontare la sua favola ma se questa non fosse stata la più bella storia, mai avrebbe potuto mettere le ali, unica sua ancora di salvezza. Se fosse stata capace di farlo, avrebbe poi costruito un pensiero positivo per far sì che Maron smettesse di seminare panico e morte in quel luogo così pacifico.
Ancora non sapeva come fare per concretizzare il pensiero positivo se mai avesse messo le ali, ma di sicuro avrebbe trovato la maniera.
Veta chiese che la sua favola fosse ascoltata e nell’Isola cadde un silenzio profondo, simbolo di rispetto per la narratrice. Ed ecco qui la favola:
“C’era una volta un lontano paese governato da una Regina amata e rispettata da tutti per la sua estrema saggezza, e tutti si affidavano a lei fiduciosi. Anche se molti suoi comportamenti non sempre erano compresi, venivano sempre rispettati perché questi risultavano positivi, intelligenti e costruttivi.
Vicino a lei viveva un Rospo assai brutto, per il quale aveva fatto costruire un trono intarsiato dalle gemme più preziose e rare. Tutti accettavano anche senza capire il comportamento della Sovrana, fiduciosi che prima o poi come sempre avrebbero capito. Il Pavone Nurdoc, sordo alla voce della saggezza e dell’umiltà, un giorno andò a Corte per farsi annunciare alla sovrana Niash. La vecchia saggia lo accolse nella stanza dove era solita ricevere ospiti.
E Nurdoc iniziò il suo discorso:
“O mia Regina, Sovrana a cui io umile Pavone mi inchino, io vostro umile servitore sono venuto fin qui perché il trono da voi fatto intarsiare per il Rospo Calian, a mio parere, dovrebbe essere onorato da una bellezza che rendesse onore alle sue pietre preziose. Il Rospo è di una bruttezza simile alla schifezza e offende il trono su cui siede. Vorrei onorare io, simile bellezza visto che lo splendore delle mie piume è simile ai riflessi delle gemme preziose di cui questo è intarsiato”.
La sovrana, dopo aver ascoltato attentamente il discorso di Nurdoc così rispose:
“Mio caro amico, ti ringrazio per la devozione da te espressa e per farti dono delle mia riconoscenza, offro a te questo scettro di rubini e diamanti e ti farò condurre in un’abitazione degna di un sì devoto suddito”.
Così fatto il superbo Pavone, gongolante della sua vittoria si inchinò e salutò con rispetto la sua Sovrana. Fu così trasportato in una lettiga dorata alla nuova dimora e ne era tutto elettrizzato.
Che scherzo era mai questo? Fu portato ad abitare in una capanna costruita apposta per lui, fatta di paglia e mota con un umile giaciglio, e tutt’intorno il paesaggio era brullo e grigio. Infatti si deve sapere che nel regno di Niash ogni suddito viveva in grande agiatezza e anche le loro dimore erano assai confortevoli. Nella misera capanna, la Sovrana aveva fatto porre una sedia regale intarsiata di gemme preziosissime e rarissime. Tutt’intorno c’era solo terra da coltivare con il sudore della fronte, il minimo indispensabile per sopravvivere.
Il Pavone era infuriato, e voleva tornarsene da dove era venuto, ma a nulla valsero le sue grida. Imprecava contro la Sovrana per quell’affronto, meglio la morte che una simile umiliazione. Voleva essere giustiziato: per questo inveiva, ma nel regno della Regina già da tantissimo tempo tutto ciò era solo passato, superato grazie alla saggezza dei vari sovrani susseguitisi. Nurdoc portava alla sua umilissima tavola bacche trovate dopo ore e ore di faticoso lavoro. E sapete a cosa serviva lo scettro al superbo Pavone? Le sue pietre, lucenti anche quando calava il buio, illuminavano le notti. Egli era sempre più offeso da un simile trattamento.
Non potendo più vivere nell’agiatezza di cui potevano disporre tutti i sudditi, la bellezza di cui tanto si vantava, andava sempre più sbiadendosi.
Iniziò la cattiva stagione e con questa i freddi. Povero Nurdoc, non aveva mai patito freddo perché nel regno di Falosè non esisteva niente che recasse disagio ai propri abitanti. Come fare? Così iniziò a raccogliere più legna possibile da ardere nel piccolo camino e la sera, il povero Pavone era così distrutto dalla fatica che dormiva come un sasso.
Le uniche cose di valore erano la seggiola e lo scettro ma non poteva venderli, perché quel luogo era completamente disabitato e chissà mai dove avrebbe potuto trovare un’anima viva. E poi, ammesso e non concesso avesse anche trovato una persona, nessun suddito avrebbe tradito un volere della Sovrana, non per paura, ma perché sapevano bene che le sue decisioni avevano sempre un senso logico.
A che gli serviva una seggiola così regale se poi assiderava dal gelo? E se il suo povero stomaco a fatica era ricompensato dalle fatiche giornaliere? E se non aveva un tepore a cui riscaldarsi, se non un fuoco quasi sempre spento? A che gli serviva una seggiola e uno scettro così sontuosi? Almeno lo scettro a qualcosa gli era utile. Il suo cuore iniziò a provare un qualcosa, ma ancora non riusciva a decifrarne il messaggio. Una notte, sognò di essere a corte e vedeva Calian, il Rospo, circondato da mille attenzioni ma negli occhi del brutto Rospo, intravide una strana luce che riuscì a toccargli il cuore.
Si risvegliò con gli occhi umidi di pianto e si ritrovò a singhiozzare come un bambino. E si diceva ad alta voce:
“Come sono stato ottuso, ho finalmente capito la lezione della Saggia Regina, ma a questo punto è troppo tardi e morrò qui solo e abbandonato da tutti, solo in compagnia della mia stupida vanità. Tutti si ricorderanno di me come uno stupido arrogante e insulso Pavone. O bel Rospo, o Calian, ora finalmente ho compreso, la tua vera bellezza è nel cuore, tu sei veramente degno del trono su cui siedi. Io invece che mi ritenevo bello, che me ne sarei fatto dei diamanti se poi avevo il gelo nel cuore? Se potessi almeno dimostrarti tutto ciò che ho capito, potrei lasciare questo mondo più sereno”. A questo punto, il povero Pavone credette veramente di rendere l’anima a Dio, perché si sentì innalzare verso il cielo e credeva fosse la sua anima a lasciare il suo corpo.
Erano amici volatili della Sovrana i quali erano andati a riprendere Nurdoc che finalmente era riuscito a superare e oltrepassare l’invidia la stupidità e la superficialità. Nurdoc si ritrovò nella sfarzosa corte della Regina, proprio nella stanza reale in cui si trovava la Sovrana, anche lei in lacrime, che lo accolse con mille onori. Finalmente il Pavone aveva capito la vera essenza della bellezza e così parlò:
“O mia amatissima Regina, è Calian degno del trono che gli hai donato, non io povero sciocco che umilmente ti chiedo perdono”.
E Niash a questo punto così rispose:
“Pavone Nurdoc, io posso solo darti la mia sincera amicizia. Come potrei io incolpare un cieco di non vedere? Posso solo gioire con lui quando ha riconquistato la vista. E per dimostrarti la mia gioia, da oggi dividerai il trono con Calian”.
Vissero tutti felici ancor più di prima perché finalmente anche Nurdoc, aveva conquistato l’assopita bontà e nel regno più nessuno fu sciocco ma tutti assieme collaborarono per la felicità del quieto vivere...”.
Splash! Splash! Splash! Il bosco era un vibrare di applausi ed essi erano così intensi, che anche il cielo li udì e il tutto risuonava di pianti e gioia.
La favola era piaciuta tantissimo e le Fate con il consenso di tutti, commosse, dettero a Veta le ali con cui lei volteggiò felice nell’aria. Dalle acque del ruscello emerse il Drago Maron ed ora il panico stava prendendo il sopravvento. Chi andava di qui chi di là, chi urlava, chi chiedeva aiuto e nella foresta ci fu un gran rimbombo: era il Drago che starnutiva e le acque del ruscello aumentarono di volume. Che cosa stava mai succedendo? Maron stava piangendo, sì, mentre stava emergendo per mangiare la sua vittima, si era fermato incuriosito a fior d’acqua per ascoltare la novella che finalmente gli aveva toccato il cuore. Egli ora gioca con ciascun abitante del Bosco e fa del suo dorso un enorme vagone su cui trasporta tutti a navigare e porta tutti a visitare il magnifico mondo sottomarino. E da quel giorno in poi, nel Bosco delle Fate Rezine, regna solo l’Amore e l’armonia e ora anche Maron concorre per avere le ali.
Ma questa è un’altra storia.

“Orienta la tua consapevolezza verso una direzione positiva, verso la fiducia che qualsiasi cosa ti venga data è assolutamente giusta, e con questa fiducia,
lasciati andare e danza con gratitudine”.
Osho Rajneesh





Il bosco dei pomi dell’amore

In un pianeta lontano lontano anni luce dalla terra, vive un popolo molto simile al nostro, assai progredito e qui non esiste nessuna forma di violenza e di povertà. Ma non sempre era stato così: qui, molto tempo fa, a loro spese capirono che la violenza è solo generata dalla miseria e dalla ignoranza e che il benessere di ognuno è strettamente legato a quello di ciascun singolo individuo. Iniziò così una nuova era in cui tutti erano felici perché l’armonia del tutto regnava tra tutti. Ma ancora qualcosa turbava il loro cuore: come mai la Terra, pianeta che aveva avuto la loro stessa origine, era ancora succube di una logica tanto perversa? Avrebbero voluto indicare anche a loro il perfetto equilibrio. Ma come fare? Loro sapevano bene che non c’è maestro di vita più potente della consapevolezza: siamo solo noi con il nostro senso della vita gli artefici della nostra storia.
C’era fra di loro un sapiente di norme Altur al quale essi si rivolsero chiedendo come fare per aiutare gli abitanti del pianeta Terra. Egli così parlò:
“Noi possiamo dare loro solo il seme per un nuovo modo di essere. Solo a loro sta farlo germogliare e crescere: nulla si può imporre tanto meno la consapevolezza poiché se questa è effimera, evapora proprio come l’acqua che bolle. Se non si sa usare il cuore, tutto sarà vano ed inutile. Scenderà sulla Terra la bella Fasta, lei porterà in dono ai terrestri questi semi, si mescolerà a loro come una di loro e solo quando li avrà seminati tutti, farà ritorno fra di noi. Chiamate suvvia la Donna che potrà accettare come suo questo compito. Fasta acconsentì molto volentieri. Chiese solo come avrebbe potuto far ritorno su Terion e il saggio rispose che, al momento giusto avrebbe calato un raggio di sole, il quale in un solo attimo, con il suo intenso calore l’avrebbe ricondotta sul Pianeta. I semi avrebbero germogliato quando anche una sola creatura avesse dimostrato a Fasta un cuore libero da ogni impurità, totalmente aperto e ricettivo. E così su un raggio di luna la donna arrivò sulla Terra. Nonostante la serenità di cui il suo cuore era capace, la vita su questo Pianeta la ferì tantissimo. Molte volte pianse per le assurdità che qui esistevano e che la dilaniavano. E pensava:
“Perché mai non si rendono conto della vera essenza della vita? Eppure anche qui ci sarà chi ha capito in parte, forse troppo pochi per poter cambiare la storia”.
Vagò per molto, ma non trovò nessuna persona che rispondesse alle qualità richieste. Un giorno, incontrò una giovane la quale era in riva al fiume in posizione meditativa e guardava nel vuoto ad occhi chiusi. Fasta, con i suoi occhi capaci di guardare oltre i limiti consentiti agli umani, trovò ciò che cercava nella Donna che era lì, imponente di fronte al cielo.
Fu così che le due donne si ritrovarono l’una davanti all’altra. Solo allora i loro sguardi si incontrarono e nell’atto magico, i semi caddero, da loro crebbero a dismisura arbusti dai piccoli frutti colorati e il loro intenso odore si diffuse nell’aria, avvolgendo e travolgendo l’intero Pianeta. Fu un richiamo per tutti coloro i quali desideravano una nuova storia. Un raggio di sole irradiò il Bosco e Fasta su di esso fece ritorno a Terion, con lei la Donna del fiume, con la quale aveva dato origine al Bosco. Da allora in poi è rimasta la leggenda di Fasta e l’altra misteriosamente scomparse su un sorridente raggio di Sole. Fu un tuono di luce e le persone veramente desiderose di un Mondo Aperto al Cuore crebbero sempre più.
Ora questi arboscelli colorati magicamente nascono a dismisura sul nostro Pianeta, essi non muoiono mai, nell’intento di dare inizio a una nuova Era dove regni consapevolezza e Amore universale.


“È tempo di aprirsi, di smettere di essere avari,
è tempo di dare il meglio che puoi e il meglio che hai,
dai a piene mani, dona la ricchezza del tuo amore
e del tuo cuore che esistono in te”
Osho Rajneesh






La mano nera

Werter, un ragazzino di otto anni, già da molto tempo faceva lo stesso sogno e questo sembrava tanto vero da essere entrato a far parte della sua vita. Il sogno si svolgeva così:
Werter si trovava spettatore in mezzo ad una folla di persone le quali correvano correvano, per raggiungere e toccare l’idolo d’oro che era risaputo essere magico e chiunque lo sfiorasse, questo fortunato diventava onnipotente, ma ancora nessuno vi era riuscito.
L’enfasi di arrivare all’idolo era tale che se qualcuno fosse caduto nell’intento di raggiungerlo, non avrebbe mai ricevuto soccorso. Quest’idolo d’oro era sempre più lucente ed emanava essenze di profumi indescrivibili, ma si deve sapere che chiunque stesse per raggiungerlo, era sempre fermato da un’enorme mano nera che fiera si stendeva come a proteggerlo.
A questo punto del sogno, Werter si svegliava sempre e sempre aveva la sensazione che il sogno volesse insegnargli qualcosa.
Il ragazzino frequentava la terza elementare ma non aveva un amico vero e proprio con il quale parlare liberamente, perché Werter era molto più maturo dell’età che aveva. Per fortuna aveva un cugino di nome Loris, con il quale poteva aprire il proprio cuore e parlare liberamente, ma i due si incontravano poco frequentemente, perché Loris svolgeva un lavoro per il quale doveva andare in terre molto lontane, dalle quali portava al cugino sempre dei regali studiati in modo scrupoloso intelligente e sensibile.
Una volta, donò a Werter una meravigliosa conchiglia raccolta all’imbrunire con devota gratitudine nell’Isola di Mauritius che simile ad un puntino si affaccia nell’Oceano Indiano. Era stupenda, con colori magnifici, accostata all’orecchio aveva un suono estasiante che pareva racchiudere tutta la musicalità del profondo Oceano. Un’altra volta Loris, che era un uomo molto ricco, aveva acquistato in Australia un totem costosissimo, assai antico e pareva racchiudere in sé la storia di secoli e secoli e portare dentro l’anima le emozioni la vita di ogni appartenente alle tribù che l’avevano posseduto per chissà quali riti magici. Certo, riconsegnare il totem al suo popolo sarebbe stata la cosa migliore, ma nulla si sapeva della sua provenienza altro che era Australiano. Loris sentiva le energie positive di questo oggetto magico e voleva farne partecipe Werter, e così gliene fece dono.
Ogni regalo che veniva da lui donato al cugino, aveva un valore inestimabile, questo Werter lo sapeva e apprezzava ogni cosa ricevesse alla stessa maniera.
Loris già da tempo era andato per lavoro nell’Africa Nera e non sapeva quando mai avrebbe fatto ritorno. Intanto Werter cresceva e con lui anche il suo lato spirituale si arricchiva sempre più. Conduceva una vita normale, giocava a pallone con i suoi amici e si divertiva anche, ma non capiva molte cose dei suoi coetanei. Sapeva benissimo che specialmente per un bambino il gioco è importante, ma altrettanto la crescita interiore che va sempre curata, arricchita ed anche questa va accudita con gioia e amorevolezza. Questo è il perfetto equilibrio.
Con la sua forte personalità riuscì in poco tempo a far sì che Ibram fosse accolto da tutti i suoi compagni di classe, prescindendo dal colore della sua pelle e fece vivere a tutti i suoi compagni, la diversità come bella e arricchente per un mondo sempre migliore. Il lato fisico, qualunque esso sia e qualsiasi sia la diversità, è sciocco che crei divisione.
Nella classe regnava l’armonia e la maestra Edith, sempre più amata da tutti, dava ai suoi alunni un modo di crescere pulito e consapevole, sperava che la vita lasciasse loro quella pienezza che avevano, anche quando adulti avrebbero dovuto affrontare un mondo difficile.
Gli anni passarono e Werter e Ibram divennero amici inseparabili: finalmente il nostro ragazzino trovò un compagno con il quale poteva parlare proprio di tutto come con suo cugino. Nella sua vita, era sempre presente il sogno della mano e Werter ora sapeva che molto presto gli si sarebbe rivelato il mistero. In quel periodo Loris fece ritorno dal lunghissimo viaggio, i due cugini si incontrarono e si abbracciarono e Loris disse:
“Come ti trovo cresciuto” - egli era infatti alla fine della V elementare.
Werter, aveva uno sguardo sempre più intenso e il suo aspetto fisico andava cambiando. Non aveva più l’aspetto di un bambino e ancora non si poteva definire un ragazzo, stava attraversando quella fase di tutti gli adolescenti e Werter ne assaporava la trasformazione, studiando con attenzione tutti i passaggi del suo corpo e della sua anima. Sentiva che stava per entrare in un’altra dimensione, quella di adulto, ed ora stava a lui essere il solo vero artefice del proprio destino. E Loris pensava che suo cugino era davvero una persona eccezionale, gli aveva portato come al solito un regalo, un referto archeologico che con il permesso delle autorità del luogo aveva avuto come segno di gratitudine per il buon lavoro svolto in Africa. Era una mano di bronzo aperta in segno di pace e fratellanza, così almeno la interpretava Loris. In quella mano una potenza indescrivibile sembrava portare in sé un grido millenario di giustizia fin dai tempi in cui iniziarono ad essere deportati i primi schiavi neri. In essa, non esisteva rancore ma c’era impresso il diritto all’esistenza e la dignità di ciascun essere umano alla vita.
Così essa fu regalata a Werter che appena la vide ne rimase folgorato riconoscendo la mano dei suoi sogni e cadde in uno stato di semi incoscienza. Sì, era lei, nel palmo della mano aveva come intarsiato un sole e una stellina piccola piccola proprio identica alla mano del sogno.
E Loris, vedendo cadere il cugino in uno stato totale d’estasi, gli chiese cosa stesse succedendo e Werter così rispose:
“Lo sentivo che sarebbe accaduto molto presto qualcosa, questo è il sogno che ho fatto fin da piccolo, non ne ho parlato mai a nessuno, ma a te lo devo proprio dire, perché mi hai regalato la mano dei miei sogni”. E così glielo raccontò.
I due si strinsero forte e rimasero nel silenzio più assoluto e la sacralità, l’intensità di quel momento, rimase sempre il loro segreto. Non una parola in più uscì dalle loro bocche, ci fu solo un susseguirsi di sguardi abbracci e lacrime.
Werter, andò sulla collina dalla quale nel sogno la mano nera si estendeva e fece un rito: innalzò al cielo quella regalata e mentre faceva ciò il cuore gli batteva forte forte.
Così lentamente unì la sua mano con quella di bronzo, e accadde!
Un’esplosione in un’altra dimensione, quella del sogno, che andava così materializzandosi e in questa realtà c’erano Loris, Ibram, Edith, che con lui erano spettatori del sogno-realtà. Ora, la corsa all’Idolo d’oro, non era più sfrenata ma tutto si trasformò in una ricerca interiore dove non c’era concorrenza ma solo collaborazione.
Così, la mano di bronzo si innalzò nel cielo liberandosi nell’aria e si dileguò fra le nuvole. Ancora una volta apparve nella sua sfolgorante maestosità per scomparire per sempre nello spazio infinito.
Werter si svegliò sulla collina come da un viaggio spaziale e si sentiva più leggero. Accanto a sé non trovò più la scultura della mano di bronzo che nessuno avrebbe potuto portar via.
Tornando al paese sapeva che qualcosa era certamente cambiato, infatti spesso vedeva la gente volgere il proprio sguardo al cielo in maniera diversa da sempre, e anche il loro comportamento stava cambiando.
Da quel giorno Werter scelse senza esitazioni la sua strada, anche lui un giorno sarebbe andato nell’Africa Nera come suo cugino Loris che qui si trasferì, come più tardi fece Werter che ebbe dei bambini da una donna nera e il loro colore fu quello dell’Amore.


“Che bisogno c’è delle Nazioni?
Che bisogno c’è dei Passaporti?
Visti e confini?
Questa intera terra ci appartiene.
Osho Rajneesh





La donna di legno

Il vento quel giorno sibilava nell’aria con voce roca e tenebrosa e ogni abitante di Siofà trovò rifugio nella propria abitazione: l’un l’altro si tenevano stretti stretti nel terrore che il vento così infuriando potesse spazzarli via. In questa terra esisteva l’invidia, la totale inconsapevolezza, nessuno poteva fidarsi del vicino perché era legge la non legge e i sentimenti di crescita non solo erano spenti, ma nei loro cuori era solo annidato il non sentimento e l’indifferenza. Se si tenevano stretti stretti il motivo era solo uno: se non l’avessero fatto, ognuno sarebbe stato spazzato via da questo vento furioso. Ognuno in cuor suo pregava per la propria salvezza e per l’altro non vi era nessuna preoccupazione. Molti infatti, in cuor loro, si auguravano che quel vento spazzasse via chi più gli stava antipatico e intralciava i propri affari. Ma che mondo era mai questo?
Non era sempre stato così. Un lontano giorno qui regnava l’amore più assoluto e l’alba era sempre stata accolta da ogni suo abitante con un sorriso.
“Chi sa mai cosa se ne faranno di questo cuore aperto” diceva Bolo, il folletto che era stato scacciato dal paese a causa della sua perfidia.
Ope, il re della città della distruzione il quale abitava nel profondo della terra, così parlò al folletto:
“Se vuoi entrare a far parte del mio regno, devi dimostrare di esserne capace, per cui ti affiderò un incarico quasi impossibile.
Sappi che nessuno di noi c’è riuscito: porta la distruzione a Siofà, e fa che ogni abitante diffidi del proprio simile in modo tale da debellare per sempre l’armonia che vi regna. Per svolgere questa impresa, potrai contare solo su te stesso e nulla più. Se fallirai non potrai mai far parte del mio regno e vagherai per sempre errabondo.
Ma bada bene, non dovrai fallire assolutamente con nessuno. Questo è il patto e con questo ti saluto.”
Così Bolo, sicuro di sé, pensò subito una tattica infallibile. E sapete cosa escogitò il manigoldo? Egli aveva il potere di tramutarsi in ogni essere e prendere le sue sembianze; si sarebbe sostituito via via ad ogni singolo abitante (che avrebbe fatto sparire nel nulla e poi fatto ricomparire quando il suo piano fosse innescato), badando bene che il malcapitato non ricordasse nulla, intaccando per prima cosa la fiducia che ognuno riponeva nel proprio simile, portando così la menzogna e la maldicenza nel pacifico e ignaro popolo di Siofà.
E così ben presto nei Siofesi nacque la più totale incomprensione.
Bolo tornò da Ope e non solo fu accolto con grandi festeggiamenti, ma gli abitanti vollero lui come loro sovrano e Ope fu degradato a semplice consigliere del Re, ma in cuor suo covò sempre la vendetta, simulò a tal fine una totale ubbidienza e sudditanza al sovrano in carica.
Ma come esistono le forze oscure, esistono anche quelle della luce. Gli Edoniani, abitanti della lontana città di Edo, non si davano pace per come era stata ridotta la terra di Siofà e tentarono di far tornare l’amore di prima in questa città. Ma ormai l’odio e l’indifferenza si erano incancreniti nei loro cuori e gli Edoniani, nonostante i loro innumerevoli sforzi, dovettero rinunciarvi. Rimaneva ora una sola unica possibilità.
Esisteva un vecchio di particolari doti, e nessuno più sapeva quanti anni avesse. Nella sua sfera di cristallo, vedeva cosa succedeva in ogni mondo e solamente quando lo reputava opportuno, interveniva. Gli Edoniani chiesero al saggio un intervento, al che lui così rispose:
“Da tempo so cosa succede nel mondo di Siofà ma ancora non è ora che io intervenga: lo farò solo quando sarà giunto il momento”.
E così il vecchio si pose in un silenzio assoluto e più non rispose a nessun’altra domanda.
La storia proseguì ancora per un arco di tempo nessuno sa quanto lungo, ma un giorno il vecchio Saggio vide nella sua sfera di cristallo che era giunta l’ora, così costruì una donna di legno, il cui volto era di una dolcezza infinita, sembrava vera da quanto era stata ben costruita e fu situata di notte nella città di Siofà. Questa iniziò a piangere e le sue lacrime erano così calde che, scivolando sul petto, iniziarono a far battere il suo cuore se pur di legno. I singhiozzi furono sentiti fin dentro le dimore e in tutti ci fu un attimo di umanità: ognuno si riversò nella strada principale nonostante la bufera in corso di cui ho parlato all’inizio, e come d’incanto in un solo attimo tornò il sereno.
Ope, che vide questa scena credette che Bolo lo avesse ingannato, così diffamò subito il nome del Sovrano in modo tale che fu cacciato e Ope salì di nuovo al trono. Ma ora, gli abitanti della città della distruzione si stancarono di questo tenore di vita e fuggirono via e la loro malvagità si dileguò in un solo attimo, per cui nella città dell’inconsapevolezza rimasero solo Ope che qui fece ritorno, e Bolo, solo loro due a contendersi il trono, ma il loro regno da allora in poi non ebbe più sudditi.
Nella città di Siofà ora regna di nuovo l’amore e la vita è tornata sorridente.
La donna di legno è lì, monumento nazionale e si dice che chiunque smarrisca la via, si rechi da lei per riconquistarla, e la dolcezza del suo sguardo fa nascere in chiunque la osservi un bene assai grande: la consapevolezza.


Più di tutto veglia sul tuo cuore
perché da quello sorge la vita.
Buddha, Pensieri





















Ago e Forbici

Tazio era un mercante di stoffe, ne aveva di ogni tipo e colore con ricami stupendi, disegni che nell’insieme creavano effetti magici: stoffe per ricchi, per poveri, per bambini, per adulti per chiunque insomma. Le stoffe destinate ai ricchi tenevano caldo nei lunghi inverni, ed erano leggerissime, tanto da sembrare una seconda pelle; scivolando addosso pareva entrassero a far parte della persona che le indossava. Molte avevano ricami d’oro fatti a mano, per le lunghe torride estati e chiunque se ne vestisse ne provava un refrigerio senza paragoni.
Sembrava fossero fatte di fresche albe mattutine che refrigeravano corpo e spirito.
Plautilia era la città in cui Tazio si riforniva di lana, seta, filo da tessere, e il mercante avrebbe venduto queste stupende stoffe anche ai mendicanti, ma questi non avevano abbastanza denaro neppure per mangiare a sufficienza. Sopraggiunse un rigido inverno e le stoffe del mercante erano in continua richiesta: la fredda stagione non faceva certo paura affrontata con la calda lana di Plautilia, mentre i poveri si trovavano ad affrontare una difficilissima stagione gelida senza vestiti adatti.
Abner, un povero mendicante fra i tanti, era veramente stanco di vedere queste ingiustizie, ed era assai addolorato anche per i suoi piccoli che, quando era inverno, avevano tanto tanto freddo e a causa di questo erano quasi sempre malati.
Così notte tempo, si introdusse nel campo di Tazio che era risaputo, avere un sonno assai profondo e quasi nulla era capace di svegliarlo: così Abner, avvalendosi di questa debolezza del mercante, indisturbato si introdusse nella sua dimora. Il pover’uomo, fuori di sé per la gran miseria che lo attanagliava, aveva portato con sé un paio di forbici e iniziò a tagliuzzare tutte le stoffe, senza distinzione sia quelle dei ricchi che quelle dei poveri in strisce piccolissime e così come erano non potevano servire più a nessuno. Dopo questo scempio, furono da lui riposte accuratamente nel loro carro e Abner si avviò a casa soddisfatto e si andava ripetendo, per convincersi sempre più, “mal comune mezzo gaudio”.
Ma in lui c’era qualcosa, come se... ma, oltre questo, nulla più riusciva a spiegarsi
“e che diamine”
si andava dicendo
“da domani anche i ricchi e i loro figli patiranno freddo! Cosa hanno loro in più di noi e dei nostri bambini?”
E così andò a dormire con il rancore nel cuore. Fece sogni agitatissimi: un drago quella notte nel suo incubo sorvolava sulle case di Marpressa, il suo paese, gettando dalle enormi fauci, carboni incandescenti che bruciavano sia le povere case dei mendicanti sia la corte del Re, sia le sontuose abitazioni dei ricchi.
Ora invece gettava dalle fauci acque gelate e scroscianti, che inghiottivano chiunque e qualunque cosa si trovasse nel proprio cammino, bambini ricchi poveri animali e case.
Con terrore, madido di sudore e tremante, sobbalzò sul letto, quando la lava incandescente e gelata stava per travolgere lui, sua moglie e i suoi piccoli.
Quel giorno come al solito tornò al lavoro nei campi apparentemente come nulla fosse, ma dentro un qualche cosa di misterioso lo faceva sentire in estremo imbarazzo con se stesso.
Ma cosa succedeva a Marpressa? Tazio rimase folgorato dallo stupore dell’incredulità e dallo sgomento quando, andato in paese per vendere la merce, vide lo scempio fatto alle sue stoffe.
Che inverno sarebbe stato quello? Egli aveva investito nelle stoffe quasi tutto il suo capitale. E i suoi piccoli? E sua moglie? Come mai avrebbe potuto sfamarli?
Nel paese era un subbuglio generale, sembrava una rivolta, un tumulto. Poveri e ricchi iniziarono a picchiarsi per accaparrarsi i brandelli di stoffa, ma che cosa mai avrebbero potuto ricavarci se non copridita? Erano tagliati in pezzetti così minuti, che solo a questi sarebbero serviti, ed era panico generale. Le cose erano molto serie e presto sarebbe corso del sangue, perché il popolo non voleva patire più di ciò a cui era solito, e i ricchi non volevano di certo rinunciare alle loro super comodità, ed era un saccheggio generale di stoffe in ogni casa di Marpressa, sia di quelle prima tanto disprezzate e derise (perché si sa, quando il bisogno è tanto ci si arrangia con tutto), sia di quelle nelle case dei ricchi. Nel tumulto generale, di molti vestiti rimasti fu fatto scempio gettandoli nel rogo improvvisato nella piazza principale.
Una notte allora, Iania, la figlia più piccola del mercante, con la complicità di Zarima figlia del Re di Marpressa, presero ago e forbici e insieme dettero inizio al loro progetto. Gida, la strega del paese, con un filtro magico, fece cadere tutto il paese in un sonno profondo per una settimana, durante la quale le tre donne cucirono pazientemente le stoffe rimaste pezzetto per pezzetto. Nel loro lavoro di cucito ci fu comunque un’innovazione: le tre sagge donne cucirono assieme sia le belle stoffe di Plautilia sia le stoffe dei poveri, in modo tale che ogni vestito non si poteva classificare né in un modo né nell’altro.
L’incantesimo svanì al termine della settimana e le tre sagge donne tornarono nell’anonimato, senza svelare a nessuno il loro segreto, e nessuno si era accorto dell’incantesimo di cui erano stati vittime.
Quel giorno faceva un freddo tremendo, iniziava a nevicare e la gente sia ricca che povera implorava aiuto a Tazio che sgomento, scoprendo il baule delle stoffe, disse:
“amici miei, vorrei aiutare voi tutti ma... ma...”
e l’incredulità del mercante non fu certo minore di quella degli altri.
Allora tutti si misero in fila per comprare i vestiti che finalmente non avevano più differenza di prezzo.
La lezione fu così imparata.
E da quell’inverno nessuno più soffrì freddo a Marpressa e non solo esteriormente.

“Guarda dentro di te e osserva se sei integro. Le forbici assomigliano alla mente, esse tagliano, dividono. L’ago assomiglia all’amore: unisce e guarisce ciò che è lacerato.
Apri il tuo cuore e l’amore ti renderà integro”
Osho Rajneesh








Pit e Pat

Pit e Pat, due magici uccellini, liberi volavano nel cielo immenso e, grazie ai loro poteri magici, erano capaci di assumere qualsiasi sembianza. In verità questi avevano origini antichissime e quelle più remote da loro ricordate, erano quelle di foglie. Un dì, nel pianeta in questione dove era sempre giorno, calò la notte e dalla nuova alba, splendente più del solito, ebbe origine l’albero e questo aveva due enormi foglie di un verde sempre più smagliante che non ingiallivano né cadevano mai. Erano enormi e lo ricoprivano totalmente. Ancora dopo un’altra interminabile notte, misteriosamente erano nati innumerevoli alberi che sfioravano il cielo con i loro rami ma essi non avevano neppure una foglia, eccetto Vanoi il primo albero del Pianeta.
L’uomo iniziò ad usare la natura che era ben felice di rendersi a lui utile, ma presto questo esagerò abbattendo ancor più alberi di quelli a lui necessari. Così accaddero cose strane. Da ogni albero abbattuto ne nacquero tre, il primo in memoria del sacrificato, il secondo per ricordare lo scempio e il terzo magicamente nato da questi due. Da una delle due foglie di Vanoi ebbe vita un essere assai strano, con becco e ali per volare, e dall’altra un essere a lui simile, affinché il primo si sentisse meno solo e fosse per lui compagno di vita, e Pit e Pat fu il loro nome. Il canto degli esseri alati era una dolce melodia. Cantavano dicendo che l’essere umano doveva imparare ad essere in armonia con tutta la natura, anche lui ne fa parte e nessun equilibrio dovrebbe essere intaccato.
Ma l’uomo fu sordo al loro canto, per cui Pit e Pat decisero di incarnarsi in esseri umani, sperando così di insegnare queste verità.
Furono due donne che ebbero dei compagni e dalle loro unioni nacquero due bambini, uno per ciascuna donna.
Ora si deve sapere che Pit e Pat erano vincolati a un giuramento fatto a Pilot il mago del cielo: mai a nessuno dovevano rivelare la loro capacità di trasformazione, inoltre ogni tanto anche nella vita presente dovevano tornare ad essere volatili.
Un giorno rivelarono ai loro compagni il segreto, per cui Pilot dispiaciuto dal loro comportamento, fece rimanere Pit e Pat per sempre volatili. Pit e Pat non erano dispiaciuti di questo, perché il cielo è uno spazio libero, ma sentivano molto la mancanza dei loro cari.
I figli di Pit e Pat avevano ereditato dalle rispettive madri gli stessi poteri e il mago Pilot svelò loro questo mistero al momento giusto. Essi ne furono felici e chiesero a Pilot di dare anche ai padri il loro stesso dono e il mago che aveva un buon cuore ed era veramente saggio, acconsentì. Pit e Pat non credettero ai loro occhi quando li videro tutti e quattro volare nei cieli e insieme felici iniziarono a cinguettare.
Da quel giorno nacquero altri volatili dalle infinite specie che con il loro canto rallegrano le nostre giornate.
Essi cercano con il loro cinguettio di rendere l’animo umano più sensibile e nobile e di renderlo, così, capace un giorno, per un mondo migliore dove tutto vivrà in perfetta armonia.
“Sei parte del tutto, appartieni all’esistenza.
Non lasciare che l’attaccamento a una parte
ti impedisca di entrare in una totalità più grande”
Osho Rajneesh




La vera storia di Walter, il pesciolino rosso

Walter, il pesciolino rosso protagonista della nostra storia, non conobbe mai le libere acque dell’Oceano prima di quel giorno in cui tutto accadde. Ma per saperne di più vi racconterò tutta la storia.
Era una giornata come tante altre, serena tranquilla e pacifica. Placido, il capo dei pesciolini rossi, aveva iniziato un gioco conosciutissimo tra di loro, ma nonostante ciò accolto sempre con entusiasmo e gioia. Placido rincorreva una banda di pesci e chi veniva toccato dall’inseguitore perdeva e, per punizione, doveva salire fino alla superficie delle acque, dare un guizzo e poi tornare di nuovo giù, dove a sua volta conduceva il gioco.
Forse ai nostri lettori sembrerà un giuoco banale, ma i pesci rossi sono animali molto semplici e questo era per loro un grande divertimento, anche perché fare attività ludiche tutti assieme è per loro stimolo di vita. Da tempo sulla terra un uomo di nome Barna escogitava un modo facile, anche senza scrupoli, per far soldi. Egli molte volte andava con la sua barca nelle libere acque dove vivevano i pesci rossi e qui se ne stava per ore, sia per trovare refrigerio dal caos della vita cittadina, sia per pensare a come fare più denaro possibile. Molte volte aveva visto i pesci rossi guizzare su dalle acque e man mano qualche idea stava balenandogli in testa.
In città ogni novità aveva successo, perché le persone travolte e sconvolte da una vita sempre più frenetica, avevano bisogno di divertirsi, non aveva importanza con cosa, e questo Barna lo sapeva con certezza. Egli aveva molti soldi, ma nessuno gli voleva bene. Gli unici a stare vicino a Barna erano i quattrini, ma nessun essere umano gli aveva mai dato calore ed amore. Tutto ciò era un circolo vizioso: più Barna era avido e più gli altri lo scansavano, più gli altri lo scansavano più lui diventava avido. Così, un giorno, credette buona idea mettere in un sacchetto di plastica con l’acqua i pesci rossi e venderli in città, per la felicità dei bambini.
Fu un giorno nefasto nel mondo delle libere acque in cui Placido felice giocava con i suoi amici. Il nostro pesciolino rosso aveva tutto ciò che al mondo si poteva desiderare, la libertà e una compagna di nome Lisa, la quale era la più bella e cara pesciolina di tutto quel mondo, una vita assai piacevole dove assaporava la gioia dell’esistenza attimo dopo attimo. Anche Lisa quel giorno, come del resto molto spesso, partecipava ai giochi. Iniziarono a rincorrersi tutti quanti, era proprio una bella compagnia! Per primo vinse Arturo, ma aspetta aspetta non tornava. Perché mai? I pesci non riuscivano a capire il motivo. Allora Ines non vedendolo far ritorno, decise di salire in superficie per richiamarlo e insieme sarebbero tornati giù. Ma anche questa non si vide più. Che diamine mai succedeva? Che scherzo era mai questo? I pesci rossi, si deve sapere, sono assai burloni e la cosa non destava troppa preoccupazione. Allora salì Placido ma fu la stessa cosa. Lisa andò subito a vedere cosa mai stesse succedendo. Era realmente preoccupata perché conosceva bene l’amato e sapeva che in quell’occasione non avrebbe mai scherzato. Dopo di lei ne salirono molti altri ma fu la stessa cosa. Era un vero mistero, che cos’era mai? Una burla? Se era uno scherzo quella volta era di pessimo gusto. I pesci incominciarono a insospettirsi, così, siccome l’unione fa la forza, salirono in massa.
Ad attenderli c’era Barna con un grosso retino e prima ancora che loro se ne potessero rendere conto, l’uomo li aveva già tutti catturati in quella terribile rete. I poveretti erano impauriti e a nulla valeva dimenarsi. Lo sciocco era felice di essere riuscito nel suo losco scopo. Chissà quanti soldi ne avrebbe ricavato! Erano lì i poveri pesci rossi: dalle grandi acque si ritrovarono in sacchetti piccoli piccoli dove Barna ne metteva uno o due. Che cosa mai sarebbe accaduto di loro?
Placido e Lisa, nella sfortuna, la sorte volle tenerli vicini: infatti Barna li mise nello stesso sacchetto. L’uomo sentiva in sé qualcosa che non sapeva spiegarsi alla vista di tutta quella “merce” e credette di sicuro fosse la frenesia del facile guadagno. Ma sì, erano solo dei piccoli stupidi pesci.
In effetti il guadagno fu molto cospicuo. E ogni volta che finiva la “merce” da vendere tornava nelle acque libere, territorio dei pesci rossi e ne faceva di nuovo incetta. Era una giornata molto piovosa, ma Barna non avendo più materiale da vendere, volle tornare ugualmente a pescare i pesciolini. Prese la sua moto-scooter e si avviò! La frenesia di arrivare lo costrinse ad accelerare fino a superare il limite massimo. Ad un certo punto le ruote slittarono sull’asfalto piovigginoso e Barna, dopo aver volteggiato tante volte nel tentativo di fermarsi, cadde giù dalla moto nel burrone circostante. Barna era veramente in brutte condizioni. Chi mai l’avrebbe soccorso? Egli perse i sensi. Quanto tempo mai passò? L’uomo fece un viaggio assai strano: tutto era offuscato da un velo di nebbia e le nefandezze fatte a causa della sua cupidigia ora erano tutte lì presenti, davanti ai suoi occhi. Ma quella era stata la sua vita e ora non poteva fare altro se non prenderne solo coscienza. Si vide davanti Nicolas il bambino povero a cui, quando faceva il gelataio, negò un gelato poiché i soldi non gli erano sufficienti. Era lì davanti a lui con quegli occhioni neri, tristi e sconsolati. E poi altre immagini si susseguirono ancora, tra cui anche una carezza, un sorriso a lui negato da tutti. E poi vide quei pesci rossi: disperati nella loro vaschetta, surrogato delle grandi acque. Barna, consapevole delle cupidigia della sua vita, avrebbe ora voluto rimediare a tutte le nefandezze fatte. Si presentò a lui una Signora vestita di colori stupendi, che sempre più gli veniva incontro porgendogli le mani e così lo accarezzò! Da quanto tempo egli non riceveva un gesto gentile? Barna pianse, le sue ruvide guance erano ora solcate da lacrime che sgorgavano sincere. L’uomo era veramente dispiaciuto da ciò che aveva fatto. L’ultima sua ignobile corsa verso il denaro era causa della sua morte.
Quella Signora era molto bella, sorrideva dolcemente e rivolgendosi all’uomo disse:
“Barna, hai un desiderio da esprimere? Ricorda che stai morendo. Se lo dici puoi anche tornare a vivere”
e l’uomo rispose:
“O mia bella Signora, potrei anche tornare in vita, troppe malefatte ho commesso e proprio non me la sento di ricominciare. Non sono riuscito ad aprire il mio cuore ed esso si è ritirato sempre più facendomi diventare una persona arida. Se potessi esprimere un desiderio, vorrei che tutti quei poveri pesciolini a cui ho rovinato l’esistenza tornassero ad essere liberi. Sì, ero invidioso della loro libertà e semplicità, cose che io non mi sono mai concesso ed è questo il vero motivo per cui li ho catturati, venduti, rendendoli schiavi. Tu che sei una fata, esaudisci questa mia preghiera, almeno ricorderò la sola buona azione di cui sono stato capace”. La buona Signora esaudì questo desiderio dettato dal cuore. Ma non a questo si limitò.
Il giorno di poi il corpo di Barna fu trovato senza vita. “Strano, quel vecchio zoticone ignorante, lo abbiamo trovato con un sorriso sulle labbra. E i suoi occhi, inespressivi in vita, hanno ora una dolcezza infinita.”
E tutto il paese parlò di Barna e non solo, ma anche della misteriosa scomparsa di tutti i pesciolini rossi dalle rispettive vaschette-prigioni.
La Bella Signora, che aveva letto nel più profondo di Barna, sapeva che lui sarebbe stato felice di essere un pesciolino che finalmente libero poteva nuotare nelle acque, e lo esaudì. Intanto qui era tornata la vita e la serenità. Placido e Lisa e gli altri erano tornati al loro abituale gioco con i loro cari amici e, tutti quanti festeggiarono il loro magico ed inaspettato ritorno, di cui nessuno riusciva a spiegarsi il motivo. Forse che i desideri si avverino?
Ora c’era un nuovo amico nella loro compagnia, venuto da molto lontano, Walter, il nome datogli dalla bella Signora, e tutti assieme festeggiarono il nuovo arrivato.


“Sii consapevole della tua mente delle sue avidità e della sua mancanza di fiducia.
Attraverso la consapevolezza giunge l’opportunità di trasformare l’avidità”
Osho Rajneesh

“Sii pronto ad assumerti la responsabilità di aver creato la tua infelicità, la gioia, la negatività, la positività,
l’inferno e il paradiso, quando comprendi
questa responsabilità e l’accetti, le cose cominciano
a cambiare. Sii aperto a nuove possibilità”
Osho Rajneesh