mercoledì 24 ottobre 2007

"Estetica " Max Loreau

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Una delle caratteristiche più peculiari e originali del pensiero e dell’opera di Max Loreau è quella di aver sempre perseguito, con ostinato rigore, un progetto teorico coerente e unitario, pur nel continuo variare delle forme di scrittura adottate, che vanno dalla poesia alla saggistica filosofica, dalla critica d’arte alla prosa sperimentale. E di tale convergenza di interessi, la raccolta di testi dispersi e, in parte, inediti, composti nell’arco di venticinque anni e che ora appaiono sotto il titolo di Les Ateliers de Max Loreau, fornisce significativi esempi: in particolar modo, attraverso questi scritti, prevalentemente di teoria della pittura e di poetica, è possibile assistere al sorgere, e seguire alcuni sviluppi, delle linee di forza principali di quel pensiero filosofico che Max Loreau riformulerà in termini sistematici nel fondamentale trattato dal titolo La Genèse du phénomène, apparso nel 1989. Ma, allo stesso tempo, considerata la stretta connessione tra i diversi piani della sua attività filosofico-poetica, essi offrono altresì preziose chiavi di lettura per accedere alla comprensione dei suoi testi letterari, a partire dal cruciale Cri. Éclats et phases, apparso nel 1973.
La riflessione sulla pittura contemporanea (ossia, tanto per intendersi, della seconda metà del Novecento), o meglio, come Loreau preferirebbe dire, sul “lavoro dei pittori”, non solo ha accompagnato nel corso degli anni la sua riflessione filosofica, ma ne ha costituito, al contempo, il pretesto, l’assillo, la posta in gioco e il banco di prova. Nell’approccio all’arte, e a ogni singola opera d’arte, Loreau non adotta infatti “un punto di vista strettamente estetico” (p. 116), come egli dichiara esplicitamente in un saggio inaugurale del 1964, dal titolo eloquente: Les cadres ontologiques de la peinture contemporaine. Il suo atteggiamento nei confronti dell’arte è l’esatto contrario di quello di chi cerca nell’opera d’arte (o poetica) una “filosofia”, ovvero un significato che trascenda l’espressione propriamente artistica. Per Loreau, l’arte, e la poesia, possono essere filosofiche, non perché siano il veicolo per esprimere una qualsivoglia dottrina (niente di meno didascalico della concezione che Loreau ha dell’arte e della letteratura), bensì perché esse inquietano, provocano, sfidano il pensiero filosofico, esibendo, nella materialità dei loro elementi costitutivi (pittorici o verbali), precisamente ciò che sfugge alle istanze intellettuali della filosofia, tradizionalmente intesa come teoria, pensiero di pensiero: la resistenza e l’irriducibilità al pensiero della materia, il “gesto vivente” dell’artista, la presenza insopprimibile del corpo. La filosofia dunque, messa in questione nei suoi presupposti dall’arte, deve ripensare se stessa e i propri fondamenti proprio lasciandosi interrogare dall’arte contemporanea, dalla sua vocazione iconoclasta, dall’enigmaticità dei suoi esperimenti.
Lo sforzo di pensare la novità radicale (e non meramente ludica e scandalistica) dell’arte contemporanea inaugura, per Loreau, un nuovo modo di ripensare la filosofia e i suoi concetti fondamentali. Altrove, egli precisa che “la pittura attuale sembra disporsi tra le discipline che sono alla ricerca di un’ontologia rinnovata. Tentare di accostarsi obliquamente a quest’ultima tramite l’arte deve permettere di gettare le fondamenta di una comprensione neutra, non partigiana, della pittura contemporanea, prima ancora della formulazione di un giudizio estetico” (p. 119). È evidente che, per Loreau, ciò che è in gioco nel suo appassionato interesse per l’arte contemporanea è la possibilità, a partire da essa, di ripensare anche i presupposti stessi dell’ontologia, che la tradizione filosofica occidentale ha ereditato dal pensiero greco, e, in primo luogo, da Platone. Nella lettura di Loreau, l’arte contemporanea diventa un momento — e certo non il meno rilevante — di quella “lotta contro Platone”, di cui già Nietzsche parlava nella pagina introduttiva di Al di là del bene e del male. Essa, infatti, viene considerata da Loreau come “eminentemente rappresentativa [di una] nuova forma di ontologia” (p. 146), così come, d’altra parte, la tradizione pittorica europea, paradigmaticamente incarnata dall’arte rinascimentale, può essere assunta come “eminentemente rappresentativa” di quell’ontologia, che ha informato per secoli il sapere occidentale. Con formula sintetica Loreau precisa che, “nella nostra tradizione, la pittura è stata centrata sulla forma come visibile nel reale sensibile; essa ha costituito un’arte della forma intellettuale che opera a partire dalla realtà percettibile e attinge le proprie occasioni e i propri spettacoli nel sensibile” . Di questo atteggiamento nei confronti del reale, la pittura del Rinascimento italiano, e fiorentino in particolare, ha notoriamente fornito non solo gli esempi più celebri, ma anche le giustificazioni teoriche più consapevoli e articolate: il trattato Della Pittura di Leon Battista Alberti è esemplare, perché permette a Loreau di evidenziare i due momenti che presiedono alla costruzione (e all’essenza) dell’opera d’arte tradizionale: in primo luogo, infatti, Alberti “costruisce in abstracto la struttura geometrica della propria tela indipendentemente da ogni riferimento al contenuto espressivo che l’animerà. È solo in seguito che intervengono le preoccupazioni di ordine emotivo, le quali dipendono unicamente dal modo di trattare il colore e la luce. In altri termini, la forma è indifferente al contenuto. Tale prospettiva è responsabile del dualismo di forma e contenuto che caratterizza la nostra tradizione estetica” . E che questo dualismo non faccia che raddoppiare il dualismo ontologico implicito nei presupposti di una visione matematizzante del mondo, sarà del tutto banale constatarlo a proposito delle teorie pittoriche di Alberti.
Assai meno banale, invece, è perseguire, e ritrovare ancora all’opera — come fa in maniera stringente Loreau —, questi stessi presupposti nella pittura, e soprattutto nei disegni, di Pablo Picasso. L’intenzione che anima l’ampio studio, fino a oggi inedito, ma risalente alla metà degli anni Sessanta, e dedicato a Le dessin et le renversement de la métaphysique (pp. 19-111), è appunto quella di dimostrare come l’opera di Picasso non costituisca una frattura, e dunque un rovesciamento dei fondamenti ontologici della visione pittorica occidentale — come sovente viene affrettatamente ripetuto —, ma ne costituisca semmai il coronamento, per quanto problematico e inquieto. Se la fase del cubismo analitico picassiano rappresentò, in effetti, il momento culminante del processo di dissoluzione dell’oggetto percettivo come oggetto di una coscienza unitaria, creando così le condizioni per il rovesciamento del tradizionale rapporto tra essenza e apparenza, tra soggetto e oggetto, Picasso — fa rilevare Loreau — scelse di non seguire fino in fondo questa possibilità, che pure la sua stessa pittura aveva contribuito a rendere praticabile: piuttosto che sovvertire definitivamente l’idea di rappresentazione come apparenza di un essere stabile, immutabile, sostanziale, “la strategia picassiana perviene a un rafforzamento dell’oggetto, a un consolidamento della forma tradizionale come presenza globale. L’eidos — l’essere da vedere — è il quadro primario entro cui si esercita il lavoro delle variazioni”. In questo processo di consolidamento dei presupposti metafisici della pittura (e della visione), il disegno si offre a Picasso come lo strumento artistico più adeguato, poiché in esso il grafismo (il tratto grafico), per quanto si allontani dalla riproduzione di un oggetto “reale”, agisce tuttavia come principio formale, ossia come quel principio che definisce le diverse forme all’interno di uno spazio geometrico previamente dato, il quale è “ la manifestazione di ciò che è in generale [l’essere della tradizione platonica, che necessariamente preesiste a ogni atto di visione] e pone le coordinate dell’apparenza” (p. 39). È questa d’altronde la tendenza del disegno tradizionale: essere “puro logos” in quanto “il grafismo ha come fine di de-finire (di limitare e informare) la concettualità informe della luce, di realizzarla in un con-cetto che finisce (pone un termine) e, con ciò, raccoglie (con-cipere) e porta a compimento la sua idealità indefinita”
Nota di Riccardo Campi

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