martedì 16 ottobre 2007

Gertrude Vanderbilt Whitney(1875-19429) "Whitney Museum"

DI  Angelo Bianco

Gertrude Vanderbilt Whitney (1875-1942) ha avuto un ruolo decisivo come fondatrice, a New York, del più grande museo di arte americana. Ora, una selezione ragionata di opere dalla sua collezione (ospitata negli spazi di Palazzo Reale a Milano e curata da Marla Prather), ripropone i momenti cruciali della creatività e dell'arte del secondo Novecento, vale a dire la fervida epoca creativa detta New York Renaissance. 
Dopo il 1929, a seguito del rifiuto da parte del Metropolitan della donazione della collezione, la Vanderbilt fondò quello che sarebbe stato il primo nucleo del Whitney Museum, ingrandito sino a raggiungere, nel 1966, l'attuale sede sulla Madison Avenue con l'edificio a forma di ziggurat capovolto, capolavoro architettonico di Marcel Breuer. 
Oggi le collezioni del Museo accolgono circa 13.000 opere di oltre 1900 artisti americani dall'Ottocento fino alla produzione artistica contemporanea, vantando la presenza di molti capolavori e di fondi di singoli artisti. Dalle opere d'autori d'inizio '900 (Maurice Prendergast, George Bellows, Gaston Lachaise...) si passa ai noti esponenti dell'arte americana prima della seconda guerra mondiale (come Georgia O'Keeffe e Joseph Stella) fino a introdurre la grande epopea dell'Action Painting del dopoguerra. Infine tutti i maggiori interpreti della Pop Art, dell'Iperrealismo e del Minimalismo. Ma la collezione prosegue anche negli anni '70, '80 e '90 (con nomi del calibro di Julian Schnabel, David Salle, Erich Fischl, Jeff Koons, Haim Steinbach, Jenny Holzer, Barbara Kruger, Cindy Sherman, Robert Longo, Matthew Barney, Charles Ray, Robert Gober, Mike Kelly, ecc.). Seconda sede espositiva del Whitney Museum è il Whitney at Philip Morris, che occupa gli spazi situati al piano terra dell'edificio della multinazionale al 120 di Park Avenue: spazi dove sono esposte in permanenza alcune opere della collezione cui si affiancano mostre temporanee. Ogni due anni presso la sede di Madison Avenue ha luogo la Whitney Biennial, interessante quanto controversa mostra sulla produzione artistica americana più recente, che ha avuto il pregio di trasformare il concetto di American Art in Art made in the Americas, riconoscendo (attraverso un appropriazionismo colonialista) il melting pot e la miriade di american artist born in... che caratterizza molta arte contemporanea statunitense. Il Whitney Museum of American Art è dunque il museo d'arte moderna e contemporanea nato con l'obiettivo di sostenere, promuovere e collezionare l'arte prodotta negli USA. Parlarne è perciò come riflettere sull'intera storia dell'arte americana ("giovanissima" se rapportata a quell'europea); infatti, negli anni Venti (mentre in Europa il modernismo aveva il suo boom), negli States ancora si lavorava su iconografie da provincia culturale e pochissimi sapevano che cosa fosse il Moderno. 
Pochissimi erano i capitalisti mondani newyorchesi (quali i Rockfeller, i Goodyear, i Bliss, i Crowninshield e i succitati Vanderbilt) che fra un'aragosta Cardinal servita con insalata Grand Street e una pera Harry & David portarono il trend europeo nel paese a stelle e strisce. A metà degli anni Trenta, l'arte moderna era considerata così chic che le grandi compagnie se ne servirono per rafforzare l'immagine delle aziende. La Dole Pineapple Company inviò la O'Keeffe alle Hawaii perché "fermasse le proprie impressioni su tela", e la Container Corporation of America commissionò progetti a Léger e a Henry Moore. Purtroppo pochi sono i lavori sopravvissuti di quel periodo, eccetto quelli appesi nei musei e nelle case al mare di Long Island, dove sono stati affiancati ai letti di ferro, al set da bagno Russel Wright e alla vecchia radio Emerson; la perdita non è poi grave, nessuno di quei dipinti, ci fornisce, del periodo, una testimonianza efficace quanto quella offertaci dalle teorie dell'arte elaborate allora. In merito ai dipinti, "i gusti sono gusti", ma le teorie, ripeto, erano geniali! Più che teorie, esse erano delle autentiche architetture mentali costruite dietro il nervo ottico, assimilabili ai pindarici "salti concettuali" della Scolastica medievale. Autori di questo miracolo teorico-concettuale furono due grandi critici americani: Clement Greenberg e Harold Rosenberg, entrambi amici di numerosi artisti. L'astratto stile di Greenberg, (farcito di terminologie in stile Scuola di Gottinga quali: essenza, purezza, otticità, fattori formali), accompagnava la sua teoria che affondava le radici in quello che già avevano rilevato i cubisti europei: gli effetti tridimensionali della pittura erano illusioni e il dipinto non era una finestra attraverso la quale guardare il mondo, bensì una semplice superficie piatta di supporto al colore (si elabora così il concetto estetico di flatness caro a tutta la scuola americana). La maggior parte della teoria artistica, fino al 1950, fu dunque greenberghiana, fino a quando Rosenberg propose una nuova sintesi fra la purezza ricercata da Greeenberg e l'empatia dei vecchi dipinti premoderni. Nasceva l'Action Painting: il dipinto attraverso l'azione del pittore diventava evento. Intorno al 1963 Leo Steinberg decretò la fine dell'Espressionismo Astratto per la new wave della Pop Art. Insieme al teorico-collezionista William Rubin, descrissero i lavori pop come una nuova sintesi della superfice piatta che accoglieva elementi iconografici piatti per la loro stessa natura d'immagini già esistenti; il concetto di flatness era salvo. La Minimal Art compare mentre la Pop Art era ciò che i Beatles rappresentavano nel business della musica; dopo essersi liberati del realismo ottocentesco, della terza dimensione e delle complicate costruzioni stile Hard Edge, Color Field e Washington School, i minimalisti nel 1965 iniziarono a prediligere nuances quali il "rosso Shell", il "verde azienda tranviaria", il "grigio cemento" liberando l'arte da ogni sinestesia. Da quel momento in poi il colore si chiude in forme rigide e geometriche, Frank Stella manipola l'intelaiatura della flatness, inizia l'era delle "tele sagomate". Da qui numerosi artisti come Steiner, Morris, Andre, eseguirono delle enormi sculture stereometriche progettate per dividere lo spazio rendendolo così parte integrante della scultura, nasceva l'installazione. Alla fine degli anni Sessanta, prigionieri di questo moto vorticoso della teoria d'arte, si affacciarono sulla scena artistica i concettualisti; essi decretarono che non la durata o i colori Winsor&Newton costituivano l'opera d'arte, bensì il genio e il processo creativo. Più tardi decisero che anche il genio era superfluo. In questo fulmineo excursus storico-estetico-sociale, spero si sia evinto che guardare e capire un quadro d'arte americana è un fatto più mentale che visivo; una mostra sull'arte storica americana più che mettere in primo piano artisti come: Pollock, de Kooning e Johns, dovrebbe "indottrinarci" su Greenberg, Rosenberg e Steinberg. 
Nelle sale espositive non quadri ma brani esplicativi di grandi dimensioni (2.50 x 3.30) che riportino i concetti cardine delle teorie di quel periodo: un po' di flatness qui, un po' di Action Painting là e un po' di all great art is about art da questa parte. Il tutto accompagnato da proiezioni dei più importanti illustratori delle teorie di quegli anni: Motherwell, Louis, Noland, Stella e Olitski... La gente capirebbe così, come gli artisti di più generazioni abbiano dedicato la loro carriera a comprendere la "teoria", spogliandosi della loro immaginazione e della loro abilità tecnica quando risultava superflua al concetto. 
Angelo Bianco 


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