mercoledì 24 ottobre 2007

LE TRE FORME

DI Daniele Lombardi

Quando Arnold Schönberg nel 1909 seppe che Ferruccio Busoni aveva trasformato il suo Klavierstück op.11 n.2 per pianoforte in una - a detta di Busoni - “Interpretazione da concerto”, commentando la cosa scrisse che la sua musica avrebbe dovuto essere “…breve, concisa! In due parole: non costruire ma Esprimere!” (A.Beaumont: Busoni the composer, Londra 1985). Busoni era intervenuto sul Klavierstück perché voleva rendere il brano maggiormente strutturato e rispondente ad una sua idea di forma che non cercava la concisione ma una organicità strutturale interna, unita a piccoli ritocchi volti a mostrare effetti sonori più appariscenti nella esecuzione concertistica, vista la sua grande esperienza di pianista.
Anche se in fondo erano soltanto piccolissime varianti, la cosa sta a dimostrare la contrastante visione di questi due grandi compositori degli inizi del Novecento, e qui sta la differenza di un approccio con le forme musicali, con processi compositivi che riproducevano la dialettica romantica tra irrefrenabile energia intuitiva e senso della costruzione, come necessità di portare l’invenzione sul piano di un linguaggio i cui stilemi sono l’impalcatura di un apparato semantico legato alle convenzioni.
Considerando oggi queste problematiche che risalgono ormai al secolo scorso, si vede come un basilare topos per l’espressività della musica risiedesse nella tensione intervallare, vale a dire che la sclerotizzazione di significati, interni a una serie di patterns armonici e melodici, che si basano appunto sul rapporto intervallare, in musica aveva trovato nell’evoluzione del sistema tonale un linguaggio compiuto ed efficace. L’aspetto grammaticale sito nel rapporto tra due soli suoni andava poi ad unirsi ad altri elementi espressivi che erano dati dalla costruzione sintattica, dai fraseggi, dai contrasti timbrici e dinamici, da tutti quei fattori che sono insiti nella prassi. Si partiva da lontano: sulla semantica dell’intervallo si era costituita nell’arco di tutto l’Ottocento una serie di solide convenzioni melodiche e armoniche che dal Biedermeyer erano andate via via arricchendo il linguaggio, ma anche complicandosi fino a un livello di entropia, finché il sistema è imploso ed esploso agli inizi del Novecento.
Schönberg, in una linea che era nell’aria già da tempo, dall’Alkan (Charles Valentin Morhange) degli Esquisses, da Frederic Chopin dei Préludes, dai cicli pianistici di Johannes Brahms, fino a quelli di Alexandr Scriabin, compose delle serie di piccoli brani, cercando in questo la liberazione da vincoli di macroforme come poteva essere un movimento di una Sonata. Questi piccoli mondi sonori rispondevano alla liberazione di gesti ed emozioni che scaturivano sempre più informalmente e si liberavano sempre più da una idea di consequenzialità che Chopin aveva lacerato irreversibilmente. Di pari passo la dialettica tra figurazione ed astrazione in musica ha percorso un cammino parallelo allo sviluppo di forme classificate e classiche, a fronte di vari escamotages quali i pezzi caratteristici, la musica a programma, quella descrittiva, altre modalità che dall’interno della struttura premevano in tutte le direzioni fino a privilegiare già dalla metà dell’Ottocento una traccia sonora di gesti emotivi interni piuttosto che la linea classicheggiante, quindi estetizzante, della quale Busoni è stato massimo cultore e Igor Stravinsky massimo deformatore: malinconia ed ironia.
Colta nell’aspetto della sua matericità, la musica è stata sempre più sentita come arte del tempo in dialettica con lo spazio, ma il mito futurista della velocità, tendente alla simultaneità, è stato rappresentato mediante i suoni in modi molto diversi da quelli delle arti spaziali, perché qualsiasi accelerazione o altro effetto scorreva comunque nel vettore tempo creando una impossibilità di sintesi di attimi. Su questo esistono molti scritti, da Henri Bergson a Filippo Tommaso Marinetti, da Alfred Einstein a Massimo Cacciari: la sostanza è nello scontro-incontro-deflagrazione-contaminazione-omissione delle due parti: quella sonora e quella visiva, per cui tanta arte e tanta musica hanno potuto concretizzare delle opere che chiedono di scambiare metaforicamente i codici.
Il tempo come quarta dimensione dello spazio rivelava in quegli anni una potenzialità evocativa che permetteva ai musicisti di pensare suoni visibili e agli artisti visivi di ascoltare le evocazioni sonore delle immagini. Questo scambio era un percorso che andava verso il teatro, e come si è visto la confluenza in uno spazio scenico ha prodotto partiture per occhi, immagini per orecchi, testi che non avrebbero avuto mise en scène, ma che valevano come progetti, tracce immaginarie di eventi: era quindi l’utopia di una comunicazione pre-audiovisiva che dalla seconda parte del secolo scorso ha poi caratterizzato la nostra epoca.
Soprattutto il Futurismo di Marinetti ha teso a creare una nuova sensibilità, una nuova possibilità di appercezione che è stata anche evocata da tutte le altre avanguardie, costituendo le premesse di quella abitudine ai messaggi audiovisivi che oggi pare scontata, un ping pong tra visivo ed uditivo che troviamo anche nella musica degli anni Cinquanta-Sessanta, quando l’informale in musica passava a volte da sistemi semiografici che volevano la partitura come luogo dell’azione, affidando a immagini, codici e testi verbali, strutture mobili, una più o meno necessaria esecuzione fisica da parte di interpreti, spesso chiedendo all’osservatore non musicista di immaginare egli stesso una soluzione alla utopia dell’autore. Ascoltare la pittura e vedere la musica: meccanismi speculativi che hanno formato nuove grandi sensibilità e hanno alluso a quella inarrestabile tendenza alla simultaneità che Stephen Kern ha così bene descritto e storicizzato nei suoi scritti. Tutto questo partì da Marinetti, che tra l’altro con le Tavole Parolibere creò un significativo precedente per i processi semiografici delle notazioni di azione che si affidavano a codici visivi, ideogrammi, che in tutto e per tutto rispondevano agli stessi criteri di visualizzazione dei Mots en liberté.
In musica dunque futurismi e cubismi venivano azzerati dallo scorrimento del tempo biologico, ma una buona strada fu possibile attraverso l’imitazione dell’isocronia della macchina, ed anche con il collage e l’improvvisazione estemporanea, mentre intanto nella prassi compositiva una nuova realtà sperimentale proponeva atonalità, dodecafonia, suono-rumore e tutte le possibili evoluzioni e contaminazioni.
Le avanguardie storiche degli inizi del Novecento hanno consumato la distruzione di un plot sonoro narrativo, lo hanno esploso determinando un’irreversibile frammentazione, il collage, la vera o falsa citazione, ed il tutto, sempre più astratto da racconti o da figure, ha prodotto un rapporto con la forma che possiamo identificare concisamente secondo tre diverse modalità:
forma sformata;
forma affermata;
forma negata.
La distruzione di una sintassi, la deformazione per ampliamento o per restringimento, sono i motori della forma sformata. La griglia concettuale latente, un’idea modernista di rinnovamento, era il filtro che rendeva la rappresentazione visiva e sonora il prodotto di una visione interna spesso in antitesi con criteri di figurazione intesi come la logica formale che si era precedentemente consolidata nella competenza comune.
Modernismo versus tradizione fecero del Futurismo, del Cubismo e di altri –ismi anche in musica il pernio sul quale girò l’opera d’arte, per prendere direzioni più o meno programmate. Il sistema tonale, reso complesso fino alla soglia dell’entropia, confluì nella politonalità, poi ancor più nella atonalità che fu il bagno di coltura della dodecafonia nel quale i tanti fiumi della polifonia furono la componente più naturale. L’informale in musica nacque nel momento in cui il suono divenne materia da indagare più da vicino, fino a considerare tale anche qualsiasi rumore, tornando alla miope ma rivoluzionaria idea di Luigi Russolo e dei futuristi, che Edgard Varèse contrastò, di imitare la nuova realtà urbana.
Dopo aver teorizzato il ready made sonoro solo un atteggiamento metafisico rese possibile che la forma, verso gli anni Venti, venisse riaffermata, con la stagione neo-classica, con forme ritrovate pur deformate, o à la manière de…, in cerca di una continuità storica che recuperasse stili e modi forse feticisti e necrofili, tra l’accademico e le seduzioni di modalità coatte in odore di asservimento più o meno consapevole e diretto a - e da - regimi totalitari, ma il neo-classicimo di Igor Stravinsky, come quello di Erwin Schulhoff, sono stati ben altra cosa, contaminando elementi jazzistici e articolando una lucida ironia che portò le loro composizioni a essere bollate come musica degenerata dal Nazismo.
L’altra strada, quella che passa successivamente da Olivier Messiaen e poi dai suoi allievi Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, è quella di uno sviluppo formale che porta con sé l’utopia di una qualità analitica nell’ascolto che oggi appare poco probabile. A fronte di brani di estrema complessità strutturale, l’impatto estemporaneo con l’orecchio, non guidato dall’itinerario della lettura della partitura, provoca la sensazione di informale, e qui si apre un problema non risolto: la soglia tra percezione della forma e scivolamento nell’entropia, per chi non esegue o conosce approfonditamente la partitura che sta ascoltando. Ciò che appare informe è frutto di un incredibile lavoro di aggregazione, non sempre desunto dall’accostamento orizzontale o verticale dei suoni, ma prodotto da fatti extramusicali, come per esempio il caso di Structures I di Boulez, che partì da un lavoro di interpolazioni numeriche per approdare ad una revisione, Structures II, che veniva dal raccordo con una rinnovata concentrazione sul risultato fonico.
In questo senso il compositore forse più emblematico è stato Jannis Xenakis, che però ha anche trovato una terza via, perché se è pur vero che molte sue composizioni hanno una origine formale nell’applicazione ai parametri musicali di procedimenti stocastici, desunti quindi dalla trasposizione delle altezze dei suoni in numeri, il pensiero sintattico del suo procedere compositivo aveva sempre davanti a sé una necessità di aggregazione che viveva i suoni in una metafora dello spazio, affidando alla materia sonora una finale corporeità che era il contrario dell’informale.
Su tutto questo la forma negata, l’informale, storicamente necessario, è passato in musica attraverso i procedimenti aleatori. Questi veri azzeratori della semantica dell’intervallo che la dodecafonia aveva soltanto eluso, ma non deluso, furono il trampolino che permise di saltare nella estemporaneità di un gesto sonoro, dunque più o meno fissato sulla carta, che cercava lo spazio della forma in alleanze tra la percezione uditiva e suggestioni cromatiche come tracce di azioni. Ciò implicava una dimensione sempre più teatrale, di una scena immaginaria che poteva essere la partitura stessa o l’azione estemporanea dell’esecutore.
Informale come negazione della forma? In questo senso il grado zero della musica, che possiamo considerare il brano di John Cage 4’33”, tacet any instrument or group of instruments, è il gesto massimo di rispecchiamento di un silenzio che fa davvero entrare la vita con la sua estemporanea imprevedibilità nel concetto di opera. Questa provocazione massima è stata con l’happening l’ultima spiaggia di un atteggiamento appassionato che tendeva a rendere visibile, udibile, comprensibile, quella energia allo stato creativo, la sorgente di una invenzione che dalla fine del romanticismo Marinetti aveva lanciato come messaggio in una bottiglia di champagne che eplode. Cage può oggi essere collegato con un filo diretto a Marinetti, attraverso lo stesso lavoro di inventore, di creatore di strategie di gioco che in qualche modo coinvolgono la vita quotidiana nelle astrazioni di un sistema culturale ed artistico che portava sempre ogni espressione sul piano di una rappresentazione che doveva filtrare la reatà. Il tempo futuro, quindi, del quale possiamo prevedere soltanto lo scorrimento, ma nel quale ogni evento, incapaci a prevederne i nessi logici e formali, è un accadimento, tra la volontà di un gesto e la passiva contemplazione.
Lo scossone dato da Cage non lasciò indifferenti i musicisti darmstadtiani di area romana ed è bene ricordare Franco Evangelisti, i cui frammenti sonori appaiono oggi più che mai frammenti di informale, in contrappunto con l’afasica tensione al silenzio di Anton Webern, seguendone la stessa strada. Particolare significato in questa panoramica viene assunto da Aldo Clementi, con i suoi Informel I, II e III, e il suo sviluppare una idea di informale che egli ricollegava a Jean Fautrier e Antony Tàpies, con il bisogno di evadere dalla percezione del singolo intervallo o qualsiasi altro dettaglio ben definito, oltre alla necessità di annullare ogni articolazione formale, fino a quello che si poteva definire materismo statico.
Nei fatti questo è stato realizzato da Clementi, anche nelle opere successive, attraverso linee polifoniche: una idea di tempo circolare come slittamento con uno scorrimento della materia sonora tra episodi sovrapposti ed un gioco di tensioni non consequenziali, ma eludendo costantemente e paradossalmente la coazione a ripetere di queste possibili strutturazioni con gesti e con una interpolazione aleatoria.
Un altro esempio di estemporaneo gesto informale è dato dalle composizioni di Domenico Guaccero, che racchiudeva in sé un atteggiamento sperimentale nei confronti del gesto esecutivo e della traccia sonora da esso determinato, il tutto tra una idea aleatoria di interpolazione del materiale e uno spiccato senso del teatro – azione sonora come azione mimica - che si manifestava vivamente nei tanti concerti nei quali l’improvvisazione aveva un ruolo centrale, concerti cui ebbi a volte la possibilità di partecipare anche come esecutore. Roma negli anni Sessanta aveva un ruolo importante per questa visione musicale ed artistica, e bisognerebbe indagare più a fondo su questi compositori tra i quali Egisto Macchi, Vittorio Gelmetti, ma anche sulle composizioni di Giacinto Scelsi, spesso illuminazioni scritte di eventi estemporanei da lui suonati, in una modalità simile a quella operata negli stessi anni dall’altra parte del mondo da Leo Ornstein, e su tutto ciò che girò intorno alla costituzione e ai primi anni di attività di Nuova Consonanza, associazione della quale questi compositori furono soci fondatori e protagonisti.
In quegli anni era nato anche il Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, che eseguiva concerti più o meno basati su precomposizioni schematiche di carattere aleatorio, gruppo che era il sintomo di una fuga dalla forma strettamente prefissata, grammaticale e/o sintattica, verso l’esperienza diretta sulla espansione timbrica e su sottili stati d’animo. Anche queste cose hanno un forte legame con il Futurismo, se si pensa al Manifesto della Improvvisazione musicale, che nel 1921 fu firmato dai musicisti romani Mario Bartoccini e Aldo Mantia, per non parlare delle teorie di Francesco Balilla Pratella sullo stato d’animo generatore che mosse in lui un cammino sulla libera forma, anche se il suo linguaggio non mostrò l’audacia che i suoi manifesti avevano promesso.
Dunque la parabola della creatività musicale ha visto nella seconda metà del secolo scorso intrecciarsi una grande molteplicità di realtà foniche: l’invenzione e l’arbitrio linguistico parevano la molla della modernità in progress, per cui non è esistita una nuova musica, ma ne sono esistite molte che hanno interagito con esiti a volte tanto straordinari quanto inascoltati.
Come per le arti visive il grande numero di differenti produzioni musicali può essere visto oggi come una sconfinata biblioteca di suoni nella quale il solo approccio dell’ascolto induce a pensare che una grande quantità di questi suoni stia oltre la soglia dell’entropia. C’è da fare un monumentale lavoro di carattere musicologico per creare dei ponti con la competenza comune, per identificare ciò che sta dietro le evidenze sonore, le tante linee che compongono la matassa aggrovigliata che è la musica del nostro tempo.
Di questo intreccio le tre forme sono i tre poli che potrebbero essere utili a dare una chiave di lettura, ma il problema è che gli ascoltatori dovrebbero conoscere sia l’evoluzione dei linguaggi che a queste realtà foniche hanno portato, sia quale è il rapporto tra autore ed esecutore, che si identifica nel progetto grafico della partitura, quasi sempre non conosciuta all’atto dell’ascolto.
Ma in ultima analisi l’impatto con una idea dell’informale in musica è l’impatto fisico con una materia sonora in tutto e per tutto analogo a quello con una materia pittorica o plastica, in quanto sono in gioco gli stessi preconcetti di figurazione-astrazione, di costruzione e di Gestalt, di fascino o repulsione. Ma non c’è stato in musica un vero e proprio movimento informale. In molte opere si ravvisa però un corto circuito con l’energia creativa, sia essa nel segno, nel gesto o nel suono, che fa dell’opera un divenire più o meno irripetibile. Tutto questo non può prescindere dal rapporto con una competenza comune che dall’impatto con queste opere dovrebbe aprire orecchi e occhi per un’immersione che è sconsigliata a chi non vince pregiudizi simili alla incapacità di concentrazione o a chi soffre della psicosi dell’apnea.

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