domenica 28 ottobre 2007

Arte Visiva e Arte Teatrale

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

eatro dell’Opera romano. Oltre undicimila pezzi - tra costumi, disegni, bozzetti, fotografie, lettere e documenti di scena – che aiutano a ripercorrere la storia del teatro del Novecento, in cui si conferma, con le dovute differenze di posizione, l’unione tra Arte Visiva e Arte Teatrale: sotto l’influenza dell’arte contemporanea la scenografia abbandona le soluzioni più rigide e stilizzate a favore di una concezione più aperta e innovativa, dove si affida proprio al teatro e allo spettacolo il ruolo di collante tra le diverse arti.
E grazie ad alcuni momenti particolarmente fortunati della sua conduzione, il Teatro dell’Opera di Roma si rivela protagonista in prima linea nella storia di questo cambiamento, a partire dalla direzione di Emma Carelli, che tra il 1912 e il 1926 rivoluziona la programmazione invitando a collaborare la compagnia Les Ballet Russes di Sergej Pavlovic Diaghilev, in quegli anni impegnata a ridisegnare la scena del balletto internazionale grazie al coinvolgimento di importanti scenografie, fra i quali Benois, Braque, Picasso, Utrillo e compositori come Debussy, Poulenc, Prokofiev, Ravel, Satie, Respighi, Richard Strauss e Igor Stravinsky. E alla realizzazione del balletto russo de Le Tricorne-Il cappello a tre punte (1919-20), su musica di Manuel De Falla e con la coreografia di Leonide Massine, dobbiamo la collaborazione di Pablo Picasso quale responsabile delle scene e dei costumi. Il coinvolgimento di Picasso nella riuscita del balletto è totale: oltre 20 alternative per la scena, quattro varianti per il sipario e numerosi figurini per i costumi. Opere oggi suddivise tra il Victoria & Albert Theatre Museum di Londra, il Musée National Picasso di Parigi, varie collezioni private (New York, Parigi, Milano), il Wadsworth Athenaeum di Hartford, il Seagram Building di New York e il Teatro dell’Opera di Roma, che possiede ventinove interessantissimi pezzi (tecnica mista su lucido), copie di lavoro dei figurini originali ideati per il balletto nel 1919, e autorizzate dal Maestro per la ripresa dello spettacolo nella stagione 1953-54. Ma la vocazione artistica del Teatro romano si conferma con coerenza e continuità solo in seguito al rinnovamento architettonico e politico del “vecchio” Teatro Costanzi, costituito Ente Pubblico e inaugurato come Teatro Reale dell’Opera nel 1928 con l’allestimento del Nerone di Arrigo Boito. Novità assoluta per Roma, l’opera presenta le scene e i costumi di Duilio Cambellotti, figura eclettica che testimonia quell’interesse per ogni forma d’arte tipico di inizio secolo nell’ideazione di cortei all’antica e architetture maestose, in cui risulta al tempo stesso pittore, architetto, scultore, scenografo, arredatore, decoratore, incisore e ceramista.
Con Enrico Prampolini si ha il vero rinnovamento scenografico in senso figurativo: l’interdisciplinarietà predicata dall’avanguardia futurista e il progetto di Balla sull’arte totale trovano piena adesione in uno dei massimi rappresentanti del secondo futurismo e nella sua visione del teatro come arte dello spazio. Ogni legame con la concezione tradizionale viene messo da parte, si ribadisce l’inutilità dell’attore, si rifiuta il realismo e l’idea di riprodurre il mondo esterno, la creazione della scena si basa su soli movimenti di luce, atti a suggerire forme e stati d’animo sul palcoscenico, come attestano la sua interpretazione per la stagione 1941-42 del balletto La Tarantola con musica di G. Piccoli e costumi e scene quasi possedute dalla dinamicità e dalle contrazioni della tipica danza pugliese, e l’allestimento de I Capricci di Callot, prima assoluta con musica e regia di Malipiero e coreografia di Aurel M. Milloss. Ed è proprio grazie a quest’ultimo, che il Teatro dell’Opera di Roma si impegna in una programmazione sistematica di eventi creativi, anche di danza. Affascinato dalla grande pittura contemporanea e dalla statuaria classica, Millos collabora con il Teatro tra il 1938 e il 1969 nei ruoli più diversi - in veste di coreografo, primo ballerino e direttore del corpo di ballo – creando ben 67 produzioni di balletto, 2 opere-ballo e un’opera con ballo, con esiti a dir poco dirompenti.
Tra gli esempi più significativi delle scelte in senso pittorico di Milloss va certamente ricordato l’allestimento nella stagione 1942-43 del balletto La Rosa del sogno, novità assoluta con musica di Alfredo Casella, con scene e costumi di Filippo De Pisis, dove gli arredi ispirati a elementi naturali e le figure dei danzatori vestite di tutù-petali si fondono in una dimensione soave, onirica, di grazia assoluta, dominata da quel gusto per la bellezza che il pittore coltiverà lungo tutto il suo percorso. Ma la prima metà del Novecento si chiude con una frangia di artisti che, durante il ventennio fascista, risponde al ritorno all’ordine e investe l’arte di connotazioni pedagogico-sociali che coinvolgono anche il teatro, trasformandolo in teatro di massa e di propaganda.
Dopo i forti scenari di Prampolini, incontriamo Felice Casorati, che inaugura la stagione 1934-35 del Teatro dell’Opera con l’Orfeo di Monteverdi e partecipa nel 1940-41 alla prima assoluta dell’Ecuba di Malipiero, in cui risponde al recupero del passato con l’impiego di una scenografia rigorosa, in totale armonia con la musica e l’ambiente circostante dove il paesaggio risulta essere quasi congelato, bloccato. Ma il personaggio più autorevole in tal senso è Giorgio De Chirico, il grande padre della Metafisica e con essa della riscoperta del passato, che per l’Otello di Rossini (1963-64), ultima sua realizzazione per il teatro, rivela le grandi potenzialità tecniche raggiunte in una lettura a metà tra la sospensione onirica e la citazione dell’antico.

Con la seconda metà del Novecento il Teatro dell’Opera vive una stagione molto dinamica, che apre le porte all’arte astratta e informale. A partire dalla straordinaria presenza di Alexander Calder che, durante un soggiorno romano nel 1967, disegna le immagini e la sequenza di eventi che danno vita a Work in Progress, una sorta di proiezione scenica del mondo fantastico, poetico e magico dell’artista. Il progetto - su musiche di arditi compositori della scena internazionale quali Nicolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna - viene concepito nelle scene e nei costumi da Calder come uno spettacolo “tutto per sé”, un grande circo, dove i suoni e la scena sono al servizio di una performance visiva e dinamica dominata dai mobiles, da piume leggere e sagome piatte che librano nell’aria, in una sorta di evocazione astratta degli elementi naturali e del mistero dell’infinito Universo: un modo nuovo di occupare lo spazio, con elementi di minimo ingombro fisico, ma di grandi potenzialità suggestive.Ma la cultura pittorica astratta entra definitivamente al Teatro dell’Opera nella stagione 1956-57 con il linguaggio forte e personale di Afro Basaldella, autore di scene e costumi per il balletto Don Chisciotte di Petrassi, novità per Roma, e per la prima assoluta Memorie dall’Ignoto su musica di Bela Bartok, con la coreografia ancora una volta di Milloss. Colore, emotività, assenza di definizione si possono scorgere nei bozzetti realizzati dall’artista che affida all’astrazione il compito di esprimere il mondo interiore dei personaggi, le loro idee, l’inesprimibile. L’arte informale trova una delle sue massime espressioni nell’arte materica di Alberto Burri, che nella stagione 1972-73 lavora alle scene e ai costumi del balletto November Steps, novità assoluta, con la coreografia della moglie Minsa Craig su musica di Toru Takemitsu. Il fondale viene concepito come un grande Cretto proiettato, in cui si esprime genialmente la sua incessante interrogazione sui misteri della materia, complice una visione complessiva dai suggestivi effetti di silenzio, dove l’energia fluisce con naturalezza e forza, intervenendo sulle forme dei corpi e dello spazio di bianco vestiti. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta la scena artistica del Teatro dell’Opera si arricchisce anche delle invenzioni di due scultori italiani, che nel corso delle rispettive carriere sviluppano ulteriormente il rapporto spazio-natura: Mario Ceroli e Arnaldo Pomodoro, entrambi molto legati al mondo del teatro, ideatori di soluzioni sceniche tra le più suggestive degli ultimi anni. Ma la vocazione artistica del teatro romano prosegue anche oggi, come dimostra il recente allestimento di Cordovano (2004), con musica di Goffredo Petrassi e scene di Gianni Dessì, artista tra i più interessanti dell’astrattismo contemporaneo, autore di alchemici impasti di luce, colore e materia, sperimentatore di un linguaggio intriso di simboli da decodificare. Un’esperienza, che prova la riuscita unione tra arte e scenografia, un percorso iniziato ai primi del Novecento, con il passaggio dall’atelier al teatro dell’artista, attirato dalla possibilità di creare soluzioni dirompenti, la cui forza si è rivelata ogni qual volta si è creata una magica corrispondenza di linguaggio tra i due ambiti: ogni qual volta cioè gli artisti abbiano saputo proporre le loro scelte e gli uomini di teatro siano riuscite a comprenderle.

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