martedì 16 ottobre 2007

Mark Rothko." La luce del nero"

DI GIUSEPPE FRANGI

La luce del nero
Una mostra a Basilea dell’artista Mark Rothko. Uno dei protagonisti dell’espressionismo astratto, movimento da cui prese le mosse anche William Congdon. L’arte come ricerca di un assoluto

Ci sono due cose che colpiscono appena arrivati alla Fondazione Beyeler di Basilea. La prima è la quantità di gente, i tanti ragazzi, spesso arrivati dall’Italia, quasi che invece di una mostra di un pittore fossero lì per la performance di una star del rock. La seconda è un quadro, messo proprio in fondo al corridoio d’ingresso della Fondazione, che ti colpisce subito, quando ancora sei in coda per i biglietti: un grande quadro quadrato, con un arancione abbagliante che ti chiama, ti chiede quasi di entrare nella tela.
Ma chi è questo artista, formidabile e misterioso, capace di attirare un pubblico così poco da museo e di stregarti l’occhio appena ne intravedi un’opera? È Mark Rothko, uno dei protagonisti di quel movimento che la critica ha chiamato espressionismo astratto, e che i lettori di Tracce conoscono, perché uno dei più grandi frutti di quello stesso movimento si chiama William Congdon. L’occasione per conoscere Rothko è una straordinaria mostra organizzata a Basilea (sino al 24 giugno), nel museo-Fondazione che uno dei più grandi galleristi del mondo ha fatto costruire a Renzo Piano. Ma chi è Rothko? Innanzitutto non è americano, anche se in America ci è arrivato poco più che fanciullo. Era nato, infatti, da famiglia ebrea, a Dvinsk, in Russia. Allora si chamava Marcus Rothkovitz. Era il terzo di quattro fratelli e non pensava di avere un futuro da pittore. Raggiunse in America il padre nel 1913. Il suo cursus di studi, più che da artista è da insegnante di disegno. E in effetti professionalmente iniziò con l’insegnare ai bambini di una scuola ebraica di New York. L’avvio all’arte è farraginoso, con tentativi figurativi e surrealisti. Ma se Mark Rothko (come scelse di chiamarsi nel 1949) fosse restato quello della prima sala della mostra, non saremmo certo qui a parlar di lui. Invece nella seconda metà degli anni 40 arrivò a imboccare una strada che non aveva davvero nessun rapporto con tutto ciò che aveva fatto precedentemente. È una specie di rinascita a 45 anni. Era morto Marcus Rothkovitz, era nato Mark Rothko.
Le sue tele si spopolano di figure e si popolano di colori. Diventano dapprima dei laghi su cui galleggiano non forme, ma macchie. Dissonanze di colori, armonie, fratture dolorose: sembrano tele che gemono in attesa di un parto. Di un qualcosa che non sono ancora loro, ma che loro anticipano.
Fuori dall’ordinario
Verso la fine degli anni 40 il parto avviene. Rothko sperimenta un astrattismo assoluto, con quadri fatti di campiture colorate, spesso su grandi dimensioni. I toni si assestano con un ordine nuovo, si semplificano, puntano verso una loro assoluta essenzialità. Sembrano zolle immense, appoggiate una sull’altra, in perenne ricerca di un impossibile assestamento. Cosa cercava quello strano personaggio, riservato, timido, chiuso dietro le lenti spesse dei suoi occhiali da miope? Cercava certamente qualcosa di grande e di fuori dall’ordinario. Con una formula un po’ semplicistica, potremmo dire che cercava l’assoluto. Ma, appunto, è una spiegazione semplicistica.
Innanzitutto l’assoluto gli interessava in quanto “cosa” con cui entrare in rapporto. Anzi, per essere più precisi, in cui entrare fisicamente, in cui calarsi, in cui consistere. Ma l’assoluto è qualcosa di imprendibile, di non codificabile in un’immagine, di non fissabile in uno stato. Così Rothko cerca nei suoi quadri la vibrazione di una luce vivente. Come se sulle tele non spargesse colori, ma organismi: invisibili e inesauste molecole che non cessano di modificare e di modificarsi.
Guardando la mostra si può fare un semplice esercizio. Visitarla a luce naturale, in diverse ore del giorno. Oppure, meglio ancora, aspettare la sera e visitarla quando nel museo si accende l’illuminazione artificiale. Non ci si raccapezza più, come se si avessero davanti altri quadri, come se si fosse in un’altra mostra. L’ultima prova andrebbe fatta con una vista nel semibuio. Probabilmente le tele di Rothko bucherebbero le tenebre, con il formicolio di quei miliardi di particelle colorate, a riprova che il loro rapporto con la luce è a due direzioni: la assorbono, ma anche la emettono. Diceva Rothko: «Di tutte le capacità che un artista può affinare con la pratica, la più importante è la fiducia di poter operare un miracolo». E poi continuava: «I quadri devono essere dei miracoli. Il loro completamento segna la fine dell’intimità tra creazione e creatore. L’artista se ne ritrova fuori». È la descrizione semplice e perfetta di un processo creativo così simile a un parto; creando, l’artista è tutt’uno con la tela. Alla conclusione, invece, sono due creature. Ma che tipo di creatura è questa formicolante di colori? Risponde sempre Rothko: «Per chi la guarda è la risposta inattesa e inedita a un bisogno eternamente familiare. È una rivelazione».
Tensione permanente
L’arte di Rothko è un’arte assolutamente religiosa. Si scorge la radice aniconica propria della cultura ebraica, che spiega i grandi vuoti dei suoi quadri. Ma più potente è forse la memoria, meno opposta di quel che sembra, della cultura delle icone. Le icone non sono rappresentazioni o racconti di un fatto, come è proprio della cultura figurativa occidentale. Le icone vivono in una tensione permanente di immedesimazione con il soggetto rappresentato. Così la pittura di Rothko vibra nel desiderio di un’identificazione con l’assoluto. È questo che la fa immensa, indescrivibile anche se fatta di nulla, praticamente irriproducibile. È questo che te la fa guardare per interi minuti lasciandoti con la certezza di aver perso la maggior parte dei particolari.
Ma arriva poi il punto in cui l’assoluto, per essere reale, per essere un conforto, ha bisogno di diventare un volto. Rothko su quella soglia si era fermato. Con onestà, passo per passo, riconosceva l’inadeguatezza di quei miracoli realizzati sulle tele. E si spingeva sempre più in là a cercare miracoli sempre più grandi. L’ultimo lo tentò cercando di riempire di luce il nero. Gli avevano commissionato i lavori per la cappella dell’università di Saint Thomas di Houston. Gliel’avevano chiesta i coniugi De Menil, collezionisti, miliardari, ferventi cattolici, desiderosi di realizzare in America qualcosa di simile alla cappella di Saint Paul de Vence di Matisse. Rothko concepì una serie di tredici grandi tele, immense varianti di nero. Oggi nella cappella, riadattata a culti ecumenici e privata dell’altare, quelle tele sembrano un grido afono, la supplica a un dio muto. Per cinque anni Rothko aveva tentato di infiammare quei neri di una presenza. Di trovare, in quel buio, una luce. Alla fine lo trovarono, morto suicida, nel suo studio. Era il 1970. Un anno dopo, quel suo tragico capolavoro veniva inaugurato. L’unica cosa che non gli era riuscita era di dare corpo a questa sua aspirazione: «Astrazione e figurazione sono una falsa questione. La vera questione è di mettere fine a questo silenzio e a questa solitudine, di respirare e tendere di nuovo le braccia».



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