mercoledì 24 ottobre 2007

La dichiarazione di Picasso — “Non dipingo le cose come le vedo, ma come le conosco”— si rivela in definitiva......

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La dichiarazione di Picasso — “Non dipingo le cose come le vedo, ma come le conosco” — si rivela in definitiva solidale a quel dualismo ontologico che, secondo Loreau, la pittura contemporanea nelle sue espressioni più rigorose tende invece a rimettere in discussione: a partire dalla premessa che Picasso tacitamente accetta, non è infatti possibile cambiare “nulla di fondamentale alla struttura entro cui l’apparenza (l’oggetto visto o conosciuto) è presa” (. Nell’interpretazione che Loreau fornisce di alcuni celebri passi platonici (della quale qui non si può dare conto con tutta la precisione che meriterebbe la sua originalità, , ma si vedano anche le prime due parti del suo trattato La Genèse du phénomène), l’ideale di conoscenza (del vero), che Platone ha lasciato in eredità alla cultura occidentale, si fonda su una concezione del conoscere che è innanzitutto ed essenzialmente un vedere, più precisamente la visione (ancorché intellettuale) di un eidos, ossia di una forma evidente, definita, eterna. La conoscenza (la visione) è resa possibile da una luce originaria (il Bene, la Verità), che, pur non essendo visibile in sé, è la condizione e il paradigma di ogni conoscenza (visione), anche di quella sensibile, e perciò fallace, dei fenomeni. A partire da una simile premessa, l’apparenza potrà essere colta soltanto come il riflesso (o l’ombra, secondo la cavernosa metafora) di qualcos’altro, il quale, se anche resta invisibile come cosa in sé, ne determina nondimeno le modalità di apparire e di essere fissata in immagine come oggetto percepito e visto, cioè come una forma circoscritta e definita: in breve, la rappresentazione pittorica (il disegno) e la conoscenza della realtà si fondano in tal modo su una medesima contraddizione, che consisterebbe nell’ostinarsi a trattare, o nel non poter fare a meno di trattare, “l’apparenza come se essa non fosse ciò che è, ossia: apparenza” (p. 83). La visione d’essenza resterebbe dunque il modello di ogni rappresentazione (mimèsi) — anche di ciò che, per definizione, appartiene alla sfera dell’accidentalità inessenziale. Entro questo “quadro ontologico” della rappresentazione è rimasta presa tutta la nostra tradizione pittorica (almeno quella successiva al Rinascimento: sarebbe infatti interessante sapere come Loreau giudicasse la pittura medievale cosiddetta primitiva, ovvero antecedente a Giotto). E a tale orizzonte non si sottrae nemmeno Picasso, la cui opera, e in particolare i disegni, costituiscono, agli occhi di Loreau, “in qualche modo il trionfo di Platone”
Ma a fianco, o piuttosto contro Picasso, Loreau individua nell’opera di Jean Dubuffet il tentativo (non sempre del tutto consapevole) da parte dell’arte di mettere in crisi tale “quadro ontologico”. Svincolandosi dalle, e opponendosi alle, convenzioni (culturali) della tradizione pittorica, Dubuffet si è fatto carico del mandato che l’arte contemporanea è chiamata ad adempiere. La sua pittura rivendica infatti (e non è una mera provocazione) di essere “anticulturale”, ed è noto il suo interesse per quella che egli chiamava art brut. Loreau ha meditato a lungo sul grido di battaglia di Dubuffet, secondo cui “l’arte è anticultura” (su ciò si veda anche il lungo saggio del 1968 Art, culture, subversion, raccolto in La peinture à l’œuvre et l’énigme du corps). La cultura, come la tradizione, “è legata, per essenza, al trasmissibile, dunque alla forma: la forma è lo scopo della sua intenzione, il suo fine stesso” ). Per questo, opporsi alla previa definitezza della forma rappresentativa fa tutt’uno con il rifiuto della cultura, e dei suoi presupposti e pregiudizi. L’arte, negando l’apparenza come forma definita, e dunque rappresentabile in uno spazio geometricamente dato, nega con ciò stesso la forma in quanto prodotto finito: la posta in gioco ora non è più la rappresentazione di un oggetto dato, in conformità a uno spazio della visione precostituito (l’essere della forma), ma il formarsi concreto dello spazio stesso nell’apparire progressivo dell’oggetto (l’apparizione del fenomeno). Per Loreau, i diversi esperimenti pittorici intrapresi da Dubuffet, nel corso di più di trent’anni d’attività, costituiscono altrettanti tentativi che dischiudono queste nuove “modalità di apparizione del reale”; in altri termini, “questa pittura, che mostra non la cosa creata ma la creazione stessa, come unità originaria della cosa e dello spirito, implica una nuova concezione dei rapporti tra soggetto e oggetto, e, al contempo, una nuova concezione del soggetto e dell’oggetto” . È evidente che, proprio sotto questo aspetto, la pittura di Dubuffet si congiunge al progetto filosofico di Loreau: “ora, per il pittore, il mondo non è più guardato [conformemente a categorie prestabilite], ma vissuto e costituito nel movimento del gesto vivente. E il pittore, nell’atto di dipingere, fa appello alla totalità interiorizzata di un’esperienza del mondo, di cui ordina gli slanci interrotti e dispersi sottomettendoli alla temporalità unificante del gesto” (p. 133). Il concreto atto di dipingere infrange i codici della rappresentazione con lo stesso gesto, brusco e imprevedibile (non pre-determinato), con cui la filosofia dovrebbe, secondo Loreau, liberarsi del modello platonico della conoscenza come apprensione dell’eidos, come visione formale (intellettuale) dell’essenza. A questo punto, Dubuffet, con il proprio fare artistico, avrebbe saputo spingere la critica nei confronti dell’arte tradizionale (e del “quadro ontologico” che le è sotteso) oltre quel limite che Picasso non seppe (o non volle, o non osò) sorpassare: fare in modo, cioè, che, d’ora in avanti, nell’arte “sia questione, non più come in precedenza, di una creazione circoscritta che si limita a esplorare qualche nuova possibilità all’interno di un’essenza data (nel caso particolare, la rappresentazione), ma invece finalmente della creazione stessa e della sua possibilità in generale” (p. 85). Naturalmente, in questa impresa di dissoluzione delle forme date, Dubuffet ha avuto importanti predecessori: in primo luogo, ovviamente, Cézanne, che, pur lavorando più sul colore che sul tratto, aveva elaborato una nozione di “sensazione colorante” (l’espressione è di Cézanne stesso) la quale, a sua volta — secondo l’interpretazione di Loreau —, dissolve la polarità di soggetto e oggetto: in Cézanne, il colore non serve a riempire forme date (oggettive) a un soggetto, e la “sensazione colorante” agisce allora come quel “processo interno che produce il colore” (p. 257).
Ciò che dunque Loreau cerca ostinatamente nell’arte (e nella poesia) non è la perfezione dell’opera, l’eventuale riuscita estetica, ma il lavoro di formazione dell’artista: in breve, l’arte non come prodotto, ma come produzione; non come forma, ma come formazione. È questa che, nella concretezza del fare artistico (o della scrittura poetica) apre una diversa prospettiva al pensiero — e non solo al pensiero sull’arte (alla filosofia dell’arte), ma al pensiero filosofico, inteso come impresa di rimodellamento delle modalità di darsi del fenomeno, al di fuori delle categorie ontologiche ereditate dalla tradizione. In quest’ottica, diventa allora filosoficamente rilevante proprio ciò che la forma compiuta dell’opera come prodotto ha sempre occultato, cancellato: il gesto vivente dell’artista. La prassi artistica tradizionale, informata al primato della visione, ha sempre pensato se stessa e il proprio compito in funzione della rappresentazione (imitazione, mimèsi) di un “essere da vedere” (eidos) già dato, oggettivo, al quale conformarsi. Nei pittori contemporanei su cui si sofferma il suo sguardo critico — da Dubuffet alla poesia e ai disegni mescalinici di Henri Michaux o alle opere degli artisti del gruppo COBRA —, Loreau cerca soluzioni artistiche alternative, in grado di sottrarsi a, e anzi di rovesciare le fondamenta di, questo modello costruttivo, cui perfino Picasso è rimasto fedele. L’arte non è più rappresentazione di un altro da sé (l’essere, l’essenza, la verità, la realtà), ma presentazione della traccia nell’atto stesso di essere tracciata. Per designare questo atto, Loreau ricorre sistematicamente a due termini francesi di ardua resa in italiano: traçage e tracement, che designano appunto l’azione e il gesto di tracciare nell’atto di essere compiuti. In conclusione, l’arte diventa esibizione del gesto di produzione dell’arte; e la traccia di tale gesto vivente è il segno colto nel suo apparire (signe apparaissant), di cui Loreau fornisce una definizione accuratamente non semiologica: “il segno è una sorta di visibile che non si lascia pensare né percepire in termini d’apparenza e di realtà; esso è l’atto d’inscrivere e di far apparire che non rimanda ad altro che a se stesso. […] In esso coincidono assolutamente l’atto di tracciare, l’apparizione e il visibile” (p. 166). Il superamento del dualismo ontologico non può che comportare anche il superamento del dualismo di significante e significato.
Il senso dell’opera si istituisce nell’immanenza del gesto formante e si risolve in quella “forza e affermazione perentoria” che fanno “irruzione” nella pittura (p. 165). Il senso è, alla lettera, un vettore di forza, che agisce e agita dall’interno il fare artistico (l’arte come produzione), e non il significato ideale dell’opera, trascendente rispetto al significante concreto, meramente estrinseco (formale). Attraverso l’enfasi posta sul “gesto vivente”, che è non-forma, forza perentoria, imprevedibile e imprevista, ossia non determinata da una visione essenzialmente rappresentativa e rappresentabile, Loreau ritrova infine il corpo, che la tradizione metafisica, fondata sul primato della visione e della luce che rende oggettivamente visibile la forma (l’essenza), ha ridotto “al rango di mezzo” (p. 56), ossia di strumento di una visione intellettuale, che peraltro, nella sua forma suprema, può e deve poter prescindere dal corpo.
La “pittura perentoria” di Asger Jorn, e degli altri esponenti del gruppo COBRA, e in particolare i logogrammi di Christian Dotremont, realizzano per Loreau “lo scatenamento di una spontaneità che si rivela una de-forma — libera avventura di una forma dis-ordinata” (p. 218). Anzi, detto senza parafrasi, l’“equazione di COBRA”, che Dotremont ha risolto con i suoi logogrammi, si riduce a: “scrittura uguale spontaneità” (p. 250). E qui il pensiero di Loreau raggiunge il nucleo magmatico della creazione, che ne costituisce al contempo il paradosso sconcertante. Lo spontaneismo, che egli riscontra nella pittura di COBRA (come nei movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta, si veda al proposito il simpatetico articolo intitolato Effervescence scritto a ridosso del Maggio 68, pp. 181-183), non può essere la risposta ultima alla sua ricerca di una “genesi del fenomeno” e di un “altro cominciamento”, affrancato dai vincoli della tradizione metafisica. L’apologia dell’irrazionalismo non è lo scopo della ricerca di Max Loreau. Se il mito dell’immediatezza e della spontaneità è una tentazione cui Loreau come poeta non sembra poter resistere, come filosofo, egli non può evidentemente cedere a esso senza condizioni. In uno dei suoi ultimi scritti, apparso pochi mesi prima della sua scomparsa — una breve presentazione del lavoro pittorico di Gabriel Belgeonne (p. 272) —, Loreau invoca “una forma superiore di spontaneità, più dominata, più controllata, più misurata”, rispetto a uno spontaneismo che finisce per tradire se stesso, quando si abbandona a quel qualcosa che la spontaneità ha in sé, per sua natura, “di caotico, di agitato, di febbrile, di falsamente selvaggio e di abbozzato, in cui essa si perde invece di raggiungere se stessa”. È per questo che la spontaneità rischia di ritrovarsi “incapace di produrre”, e dunque muta, inespressiva, smarrita nel caos che essa stessa ha contribuito a scatenare. Lo spontaneismo è sempre regressivo (Loreau conosceva troppo bene i meccanismi della dialettica hegeliana per non saperlo): la forma di spontaneità cui egli pensava “ha bisogno che operi in essa, intimamente, la resistenza della misura e della regola”. È solo nel contrasto con i modelli ereditati che la spontaneità può esprimere quella forza critica ed espressiva capace di superarli: non nel loro brutale annullamento. Questa dialettica però deve essere sempre ripresa e ricominciata dall’inizio: il gesto vivente può (e deve) rimetterla in moto ogni volta, ma non potrà mai risolverla e placarla, definitivamente, in una mitica innocenza ritrovata. L’arte, come la filosofia, ciascuna con gli strumenti a sua disposizione, è incessantemente chiamata a ripensare questa sfida. L’“altro cominciamento” non smette mai di cominciare. (Loreau, di certo, lo sapeva). In ciò consiste, ancora oggi, la vitalità del suo pensiero.
Nota di Riccardo Campi

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