martedì 30 ottobre 2007

Considerazioni a proposito dell'artista Gutai

Artina Corgnati

Nella decade che segue la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone condivide si può dire in tutti i suoi aspetti il destino degli sconfitti: il processo di democratizzazione, somministrato a marce forzate sotto lo stretto controllo americano, e la ferma repressione di tutti quei movimenti più o meno spontanei che potevano essere in odore di comunismo.
Il paesaggio, brutalizzato dagli attacchi convenzionali e poi, in maniera eclatante, dalla bomba atomica, denuncia tutte quelle irregolarità di sviluppo, quelle accelerazioni ad alta tecnologia e quegli abbandoni parziali e fluttuanti di speculazione, sfruttamento e degrado che in seguito diventeranno rapidamente tipici di tutte le aree industrializzate del Primo Mondo.
Con contrasti ancora più marcati e pervasivi che altrove: offerti, tra l'altro, dalle contraddizioni latenti ed esplosive innescate dal vertiginoso aumento demografico unito aduna scarsa, immatura e posticcia abitudine al rispetto dell'altro e dei diritti umani, nel contesto di un territorio ad altissimo rischio ambientale e sismico.
Insomma: una situazione straordinaria per le arti belle, che infatti accelerano il terremoto, producendo un corto circuito di prassi, pensiero, tradizione e sovversione che ne in Europa ne in America era stato possibile ottenere fino a quel momento.
In altre parole: in Giappone vengono raccolte le membra sparpagliate del linguaggio artistico che dalla Guerra in avanti si esprimeva soltanto attraverso deflagrazioni ed accensioni estemporanee, nel migliore dei casi, per individualità pulsionali, incapaci di coordinarsi in stile se non a prezzo della perdita della propria eccezionalità soggettiva.
In Giappone invece il problema dello stile è aggirato e brillantemente risolto; le membra vengono raccolte e coordinate in un corpo unico che incarna precisamente le esigenze di cui l'arte, l'arte come fatto umano, sapeva farsi carico in quel momento.
Questo corpo si chiama Gutai, cioè concreto, materializzato. Pochi dubbi, infatti, potevano restare anche ai più nostalgici, a proposito della sopravvivenza dello spirito o dell'astratto.
La sua epoca era stata conclusa da tempo, suggellata da quelli che Goya avrebbe definito i "disastri della guerra" e che continuavano a ripetersi con variazioni sempre nuove, e sempre più atroci, accuratamente predisposte dal mondo intero durante gli intervalli di pace.
Di quella condizione che di lì a qualche anno Marcuse avrebbe definito la "logica dell'irrazionale", incommensurabile per spietatezza, l'arte si fa carico attraverso una radicalizzazione del sentire effettuata nelle opere; immediata, urgente, non compromissoria.
Questo è Gutai, di cui Shozo Shimamoto è uno dei mèmbri più precoci e più attivi. Passata la fase disastrosa del terrore atomico, Yoshihara, il maestro fondatore di Gutai, scende dalla montagna, dove si era ritirato in inevitabile silenzio, per tradurre il pensiero in azione coordinando intorno ad essa l'intensa produzione sperimentale dei giovani giapponesi.
Shimamoto è fra questi. Il suo lavoro, negli anni Cinquanta, fase eroica di Gutai, si caratterizza immediatamente per una sovrana insofferenza dei limiti consustanziali allo stile inteso all'occidentale.
Il suo stile, che comunque si delinea, prende forma appunto da questa considerazione aperta dell'opera, centro di implosione e concentrazione di istanze sino a quel momento separatissime: come, ad esempio, lo sfregio, lo spazio, il quadro, la pietra, la macchina bellica, la pittura, i passi.
Sarebbe assurdo pensare a Gutai come ad un gruppo di artisti che svolgono separatamente un compitino pittorico, prossimo all'informale europeo ed americano, e una deflagrante attività di destabilizzazione scenica a base di eventi che si consumano tanto rapidamente quanto fatalmente compromettono il panorama mondiale delle arti visive, insediandovisi a viva forza, come un cuneo irresistibile.
No. Pittura e azione sono risultanti dello stesso nucleo propulsivo, dello stesso pensiero sulle cose, che tende a posizionarsi proprio sul cuore pulsante del linguaggio contemporaneo perché non ne rispetta le forme e la buona creanza, le priorità e le marginalità, le province e gli imperi.
La pittura, quindi, per esempio la pittura di Shozo Shimamoto, nasce non come modalità di espressione di istanze e di impulsi soggettivi, istanze represse e sublimate che dal corpo fisico dell'uomo trapassano al sostiate indifferente e onnicomprensivo della tela, ma come atto, anzi fenomeno di materializzazione dei materiali "in sé".
La pittura è al servizio dei materiali, come l'olio o lo smalto, è la prassi di scoperta e valorizzazione delle loro qualità intrinseche. Adottando un simile punto di vista, già intorno alla metà degli anni Cinquanta, Gutai precede, almeno nei lineamenti teorici, artisti come Piero Manzoni eYves Klein, anche se la sua sintassi resta sostanzialmente apparentata a quella dell'informale.
D'altra parte, una volta rimosso qualsiasi equivoco di ordine estetico, una volta posto l'accento più sul processo di esecuzione dell'opera che sull'oggetto che ne deriva, fatta piazza pulita da ogni chimerico chiacchericcio a proposito dell'astrazione ribadendo che le opere Gutai non sono astratte, non appare ancora necessario liberare la superficie anche dal colore, anche dalla macchia, anche dalla traccia delle violenze subite ed auspicate, per immergerla semplicemente nel vuoto, trasparente ed afasico.
Non a caso nell'informale europeo, e soprattutto in quello che scimmiotta talentosamente proprio la scrittura e la gestualità giapponese come accadde a Mathieu, Gutai riconosce ed apprezza un certo clima naive, insofferente di forme precostituite e pieno di tensione verso l'origine delle cose.
L'informale, in realtà, questa formula abusata ed incomprensibile, in realtà probabilmente non è naive ma per certi versi è sicuramente liberatorio e decongestionante, almeno nell'immediato.
Con la differenza che la liberazione di certe istanze soggettive e pulsionali caratteristica dell'espressionismo astratto tende a risolversi in una fruttifera operazione di mercato, in una banalizzazione del linguaggio e in una chiusura sempre più serrata verso la ripetitività più stantia e demoralizzante e solipsistica, a fronte della quale la piazza pulita tanto del "vuoto" metafisico Kleiniano quanto del "pieno" ironico e caustico manzoniano appare come una cura necessaria, inevitabile e non sufficiente.
Gutai invece carica l'intervento pittorico di una speciale forza centrifuga che tende a risolvere l'oggetto nell'azione, a dilatare il significato e la possibile portata espressiva del materiale ponendolo in relazione con il corpo dell'artista.
Per questo, in area Gutai, non risulta necessario attraversare un processo di azzeramento che elida l'eccesso soverchiante di materia umorale e ben presto priva di alcun senso storico. Non c'è compiacimento. L'opera va intesa non come sublime compimento di una ricerca estetica e linguistica ma come testimonianza, profondamente concreta e per così dire vissuta, di un accadimento traumatico, portatore e foriero di "altro" esistente: altro da pensare, da toccare e da sentire.
Conseguentemente l'artista occupa la scomoda ma interessante posizione del testimone, il primo a sorprendersi, ad allarmarsi, a soffrire di quanto viene accadendo sotto ai suoi occhi. L'intervento sulla superficie porta alla creazione di uno spazio imprevisto, di fronte al quale ogni preconcetto stilistico appare inaffidabile e limitato.
Alla luce di queste considerazioni, il gesto automatico va riferito non alla mano o all'inconscio ma alla materia, alla carta, agli smalti. L'artista semplicemente li lascia fare, senza preoccuparsi dell'esito.
"L'automatismo" ha scritto Yoshihara, "necessariamente sorpassa l'immagine dell'artista". Niente di astratto, quindi, se ancora ci fossero dubbi in proposito.
Una carta lacerata ed accesa di prevaricante energia cromatica e segnica giace senza residui ne rimandi ne riserve accanto ad una passerella di assi instabili, traballanti e minacciose che tentano i passi del viandante, costringendolo all'attenzione nei confronti di tutto ciò che gli appare normale, e non lo è, minando la sua tranquillità di uomo sicuro del proprio cammino nella storia.
E giace accanto ad una pietra immobile che si comporta come e meglio del pennello o della spatola e spacca bottiglie intere di colore liquido lanciatole contro in un gesto altamente ritualizzato e pieno di consapevoli richiami alle tradizioni marziali, a sua volta equivalente del cannone che spara contro tele inermi getti furiosi di colore.
A tutto questo e molto più, Shozo Shimamoto ha assistito in pochi anni.
I suoi interventi, i suoi lavori assomigliano tutti ad altrettanti modi di lasciare che le cose si compiano: una delle poche armi efficaci per non arrecarsi come un morto su un formulario di successo e non perdere di vista la posizione etica dell'artista in un mondo sempre più conseguente con le proprie recenti e lontane, spaventose premesse.

Martina Corgnati

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