giovedì 18 ottobre 2007

  Michelangelo Pistoletto

  Intervista  a cura di Luciano Marucci

Luciano Marucci: Pistoletto, se non sbaglio, fin dall'inizio i tuoi quadri specchianti non registravano passivamente la realtà come nella Pop-Art americana; erano opere che, sia pure a distanza, cercavano di dialettizzare con l'esterno. In questo senso tendevano già a uscire dalla virtualità per rapportarsi con lo spazio vitale. 

Michelangelo Pistoletto: Che posso dire? Sento che parli della Pop-Art e fai un raffronto tra i miei quadri specchianti degli inizi anni Sessanta e questo movimento. La cosa che in quel momento si sentiva come urgente e ha indotto a creare certi lavori, i miei e quelli della Pop-Art, era la necessità di rioggettivizzare il rapporto tra artista e arte come fase successiva al lavoro importantissimo fatto prima, ma di carattere prevalentemente soggettivo. L'espressionismo astratto e l'action painting portavano alla sigla individuale. La mia necessità di oggettività non era legata a un sistema socio-economico specifico, come per gli americani che riconoscevano l'oggettività nel sistema avanzato della pubblicità e del consumismo. Io pensavo, in maniera più vasta, a una oggettività filosofica, scientifica, spirituale e, quindi, a un'idea complessiva di quello che è il pensiero di matrice europea. Non per assumere un'etichetta europea; tutt'altro, la mia era una visione globale che non nasceva da un fatto personale, ma dalla volontà di capire come muovermi nel mondo, cosa pensare. Le risposte che mi dava la società non erano sufficienti. Cercavo una dimensione di globalità in quanto situazione comune, oggettiva; una visione comprensiva della socialità. Partendo dalla necessità di collocarmi sulla vasta scena del pensiero, anziché produrre un gesto soggettivo, mi sono messo a guardare me stesso oggettivamente. Nel momento in cui ho scelto di trasformare la tela in specchio, mi sono riconosciuto non solo nell'autoritratto, ma ho realizzato l'autoritratto del mondo, aperto alla partecipazione di tutti. L'individuo non è più un soggetto unico e totalizzante, ma è uno insieme a tutti gli altri. Appare nell'opera insieme alla moltitudine, la fluidità, il movimento, la trasparenza e la differenza. Tutto questo diventa trascrizione di oggettività. 


LM: Ciò si è ben focalizzato col passare degli anni... Oggi possiamo dire che, grazie alla tua versatilità linguistica e alla prolificità intelligente - che ti hanno portato a transitare dall'oggettualità all'installazione e alla performance - ci sia stata una trasformazione dello specchio, appunto, per andare incontro al mondo... 

MP: Lo specchio ha riaperto una porta, una prospettiva che si era chiusa alla fine dell'Ottocento. La prospettiva rinascimentale che conduceva alla scientificità del progresso aveva in quel tempo raggiunto l'obiettivo finale. La capacità dell'arte di essere prospettica era diventata prerogativa della scienza, della tecnologia, della speculazione economica, della pubblicità; di tutti quegli elementi che gli americani hanno raccolto come modello. Non più una prospettiva dell'arte, ma esterna ad essa. Io, invece, volevo recuperare la prospettiva interna all'arte stessa, rivolta al mondo, è per questo che lo specchio è diventato una porta che bucava il muro, aprendo la nuova prospettiva di direzione opposta a quella rinascimentale; è cambiata completamente la prospettiva, prima basata sull'avanzamento assoluto, sul progressismo, sull'avanguardismo. Con lo specchio ho mostrato che tutto ciò che noi possiamo produrre davanti a noi è una responsabilità del passato, perché esso ci mostra ciò che sta alle nostre spalle. C'è allora una prospettiva che è anche retrospettiva. Un arresto dell'idea unica di progresso, in una doppia direzione prospettica che poi si è chiamata post-moderna. Bisogna guardare anche al passato per una nuova azione verso il futuro. Il DNA che oggi ci compone è carico di responsabilità, sia positive che negative. Per me si tratta di fare il punto della situazione guardando avanti e indietro nello stesso tempo. Su questo profilo io ho portato avanti le mie azioni, ho cominciato a incontrarmi con gli altri, a praticare una creatività interpersonale, a considerare l'arte come atto di responsabilità. 

LM: Un tracciato non programmato, ma lineare e progressivo, che sottende una filosofia personale... 

MP: È la ricerca che continua. Quando uno arriva a trasformare l'icona pittorica nell'icona specchiante, fa scattare una nuova forma di pensiero che non permette più di tornare al vecchio credo; la porta dello specchio rimane aperta e io sono diventato in qualche modo il suo guardiano. Tenere lo specchio aperto, per poi penetrarlo e indagarlo, ha significato capire quanto - sia il pensiero scientifico, sia quello filosofico - sono legati al pensiero artistico. 


LM: Probabilmente a far maturare il tuo laboratorio culturale ha contribuito l'atteggiamento analitico e progettuale che ha sempre caratterizzato il tuo lavoro... E non è mancata una certa 'volontà' di interagire col sociale. 

MP: Direi di sì. A partire dagli anni Sessanta l'interazione col sociale è stata la parte più attiva del mio lavoro, anche se ciò non ha escluso che io facessi un'analisi approfondita del fenomeno speculare; dello specchio come mezzo di ricerca. In tal senso ho portato avanti due aspetti: la riflessione e l'azione, l'una complementare all'altra. Due sono state le situazioni importantissime che hanno determinato la base teorica per le azioni seguenti: la divisione e la moltiplicazione dello specchio e gli oggetti in meno, i quali apparentemente sembravano distanti dalla forma fisica dello specchio, ma che, invece, facevano parte della stessa ricerca. Entrambi mi portavano a capire quanto importante fosse la differenza davanti a una concezione generale dell'arte in cui l'artista doveva essere assolutamente omogeneo nella sua formula. Gli oggetti in meno mi hanno permesso di fare un passo successivo oltre lo specchio, di fare il passo nella dimensione della differenza che oggi è diventata l'alternativa alla globalizzazione. 


LM: Per finire, come vedi il fenomeno della globalizzazione? Sei anti o pro- global? 

MP: La globalità oggi esiste e non si può fare a meno di pensare che, data la velocità della comunicazione, il mondo debba essere visto come un'unica regione. Questa idea di global - l'ho già detto prima - può essere assolutamente accentratrice nel senso di individualità economica forte, oppure basata su una situazione di differenze climatiche, culturali, storiche, locali, tradizionali che sono il vero sapore della terra su cui viviamo. Vedo una globalità di differenze e non di uniformità. Io ho coniato uno slogan: eliminare le distanze e mantenere le differenze. 


LM: ...E il rapporto individuo-società? 

MP: La società deve essere fatta di individui ai quali riusciamo a dare la stessa autonomia che l'artista ha guadagnato per sé nel ventesimo secolo. Se oggi si può dare anche ai non artisti la capacità di definire sé stessi, come punto tanto centrale quanto differente rispetto agli altri, abbiamo una moltitudine di individui coscienti che producono nuova società umana. 


LM: L'ecologia che posto occupa nei vostri programmi? 

MP: È lo sbarco sul nuovo pianeta. Non avendo più terre da conquistare, dobbiamo riappropriarci della terra che abitiamo da sempre. Ecologia vuol dire ritrovare a ritroso la Terra su cui viviamo. Noi andiamo sulla Luna, su Marte, ma il paesaggio terrestre è la prima estetica che dobbiamo riconsiderare. 


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