sabato 13 ottobre 2007

La pedagogia del “Che”

DI Sergio Cararo
 (prefazione al libro "Il Che e i giovani", edito dalla Città del Sole, 2005)

20 ottobre 2005 - La Costituzione Rivoluzionaria di Cuba, varata nel febbraio del 1976, decise che a sedici anni i cubani dovevano essere considerati pienamente cittadini ed esercitare i loro diritti politici, incluso quello di voto. Dunque a Cuba i giovani “entrano” in società due anni prima dei loro coetanei in Italia. Nello stesso anno – il 1976 – in Italia si ottenne per la prima volta il voto ai diciottenni che prima ne erano esclusi.
 Visitando l’Istituto Cubano di Biotecnologia, uno dei più avanzati dell’America latina e forse del mondo, si può rimanere sorpresi nello scoprire che l’età media dei ricercatori è di ventiquattro anni. Nel nostro paese l’età media è più alta almeno di un terzo.
 Cuba, nonostante la vulgata anticastrista, resta una rivoluzione giovane e che investe gran parte del proprio patrimonio politico, storico e scientifico sulle nuove generazioni.
 Gli scritti del “Che” sui giovani e sull’università raccolti in questo libro, ci aiutano a capire meglio questo nesso tra i giovani e la Rivoluzione Cubana Si tratta dell’ investimento sul futuro di un piccolo paese in via di sviluppo che sin dall’indipendenza ha dovuto fare i conti con i limiti oggettivi delle proprie risorse e con quelli soggettivi dell’aggressione permanente da parte dell’ incombente e ingombrante “vicino” del nord: gli Stati Uniti.
 Ai capitali finanziari e alla supremazia militare degli USA, Cuba ha saputo contrapporre e difendere un sistema di coesione e giustizia sociale che il resto dell’America Latina e del terzo mondo gli riconosce ed invidia, ma soprattutto ha saputo contrapporre la dignità della propria indipendenza sul piano morale ed un elevatissimo capitale umano sul piano politico/economico.
 Di questo ci si accorge subito scorrendo gli scritti ed i discorsi di Ernesto Che Guevara diretti ai giovani e agli studenti nelle università di una Cuba ormai resasi politicamente indipendente con la Rivoluzione del 1959 ma non ancora indipendente sul piano economico e commerciale.
 Il Che Guevara che parla agli studenti delle università di Santiago o di Las Villas non è più solo il comandante guerrigliero che “tutta Santa Clara si sveglia per poter vedere”, ma è anche il più giovane ministro dell’industria dell’America Latina alle prese con una enorme mole di problemi concreti da risolvere e con l’ambizione di dotare una isola di dieci milioni di abitanti della propria indipendenza economica.
 I suoi rimbrotti agli studenti (bianchi nella stragrande maggioranza) che si ostinano a voler studiare giurisprudenza piuttosto che le facoltà scientifiche, sono il segno della estrema necessità del paese di avere a disposizione tecnici, ingegneri, chimici per poter sviluppare le forze produttive di un paese totalmente dipendente dalla monocoltura della canna da zucchero e dal monopolio statunitense sul suo commercio.
 La Cuba dei primissimi mesi della Rivoluzione è un paese che ha un disperato bisogno di capitale umano. Quello assicurato dalla borghesia bianca o creola ha già preso o sta prendendo la strada per Miami. C’è urgenza quindi di formare una nuova generazione che abbia le sue coordinate morali e le sue ambizioni individuali ma che sappia anche sintonizzarle con quelle dell’emancipazione della società nel suo complesso.
 Per fare questo c’è bisogno che le università svolgano la duplice funzione di fornire il capitale umano indispensabile al paese e di promuoverne l’emancipazione sociale. Il primo passo è l’accesso ai giovani neri fino ad allora esclusi dall’istruzione. “Che l’università si tinga di nero, che si tinga di mulatto, non solo fra gli alunni ma anche tra i professori, che si tinga di operaio e contadino, che si tinga di popolo” invoca il Che parlando all’università di Las Villas.
 Il “Che” spende la sua autorevolezza e la sua fama tra i giovani anche per convincerli a studiare le materie tecniche e scientifiche. Lui, così attento alla dimensione morale e talvolta sociologica dei processi sociali, non può sottrarsi all’impellenza di dotare la Cuba rivoluzionaria delle forze produttive capaci di renderla indipendente dagli Stati Uniti. Le necessità lo costringono a farsi pedagogo nonostante egli stesso ammetta  la sua difficoltà dato che “tutta la pedagogia che ho praticato è stata quella degli accampamenti militari, delle parolacce, dell’esempio feroce?”
 Una pedagogia che farebbe scorrere i brividi la schiena ad una sinistra europea ormai omologata più sul politically correct che su una pedagogia della liberazione.
 Questa omologazione eurocentrista è la stessa che da anni alimenta ostinatamente una leggenda metropolitana - riesumata anche di recente in una serie di lunghi saggi apparsi su Liberazione - si tratta della leggenda di un Che Guevara puro che rompe con un Fidel Castro avvitato sul caudillismo, di un “Che” rivoluzionario “senza se e senza ma” che si lascia alle spalle la deriva della Rivoluzione Cubana per andare ad animare il fuoco guerrigliero in Colombia. E’ lo stesso Che Guevara a rivelarci che la stessa operazione era stata tentata anni prima dalle potenze coloniali nei confronti degli “eccessi della Rivoluzione” e dello stesso Fidel Castro ritenuto dalle stesse “un patriota ingenuo che non era responsabile e che poteva essere salvato”.
 La manipolazione della storia, dunque, si ripete.
 L’aver ridotto il Che ad una icona adattabile al ribellismo giovanile ma in funzione anticomunista ed anticastrista, è una operazione piuttosto articolata che va dai pamphlet degli ex innamorati di Cuba alle bancarelle dei mercati. Depotenziare la Rivoluzione dai suoi protagonisti – soprattutto se ancora viventi, attivi ed indipendenti come Fidel Castro – è diventata una ossessione piuttosto diffusa sia negli establishment imperialisti che nella falsa coscienza della sinistra europea.
 La coscienza a cui si richiama il Che è cosa radicalmente diversa da quest’ultima. E’ il motore che “deve dirigere le azioni dell’uomo verso un fine predeterminato, con una ideologia predeterminata, con una conoscenza predeterminata ed una fiducia predeterminata nell’aumento della produzione, per mettere a disposizione tutti i benefici di questi miglioramenti tecnologici che dobbiamo raggiungere”. Potrebbe sembrare il ragionamento di un apparatcik sovietico ed invece è il ragionamento avanzato dal Che agli studenti dell’Università de L’Avana nel 1962. Un ragionamento che – pedagogicamente – riprende l’invocazione di Gramsci a chi aveva accesso all’istruzione o voglia di emanciparsi “studiare, studiare perché questa è la funzione fondamentale del rivoluzionario nel ruolo di studente universitario”. Ma se qualcuno avesse intenzione di strumentalizzare il Che per legittimare “i secchioni” riceverebbe una delusione dal passaggio successivo che invita a "cercare risposte agli interrogativi di questo momento, a cambiare l’atteggiamento verso tutta una serie di problemi fondamentali che può avere il giovane studente",  tra questi il Che include anche i pregiudizi intellettuali verso il lavoro manuale.
 Nel 1964 il Che non esita ad esortare i giovani comunisti convocati in una assemblea al Ministero dell’Industria a vincere l’indifferenza del Ministero ed a combattere la mancanza di comunicazione. In questa esortazione c’è un segno della maturità dell’esperienza rivoluzionaria cubana. “Il Partito deve essere sempre all’opposizione, anche quando è al governo” sembra dirci il Che. Ma le stesse parole e lo stesso concetto, ce li ha espressi trenta anni dopo Josè Eloy Valdès, giovane guerrigliero sulla Sierra Maestra e per un periodo collaboratore del Che al Ministero dell’Industria, ambasciatore cubano in moltissimi paesi e per anni direttore del prestigioso Centro Studi Europei di Cuba.
 Le generazioni si sono alternate a Cuba come in ogni altro paese, hanno condiviso momenti esaltanti e situazioni di enorme difficoltà (basta pensare al “Periodo Especial” nei primi anni Novanta), ma hanno potuto contare sulla continuità di un patrimonio storico,umano, politico e morale che è comune a tutta la nazione e alla Rivoluzione.
 Ancora oggi molti si domandano: come sarà il dopo Fidel? Le nuove generazioni politiche cubane, reggeranno o verranno cooptate nel sistema di dominio mondiale dell’imperialismo oggi egemone?
 La formazione che hanno ricevuto può anche aver manifestato qua e là delle derive burocratiche, ma il germoglio piantato dai Guevara, dai Fidel Castro o dai Camillo Cianfuegos ha prodotto alberi forti dentro quella società, anche perché nel patio trasero degli Stati Uniti hanno innescato nel popolo quel senso di autostima che ne ha liberato la coscienza dalla subalternità morale, una condizione questa che rende gli uomini liberi per sempre.
                                                                                         

 

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