RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Il 5 Aprile del 2002 nell’ambito di una lezione di Storia dell’Arte Contemporanea dedicata all’arte in
rete, viene proiettata sulla parete di un’aula dell’Università la Sapienza, tra molte altre immagini,
anche quella della prima opera elettronica venduta all’asta nel 1996. La relatrice Sara Roccheggiani
spiega che i proprietari dell’opera hanno ricevuto un codice d’accesso segreto per poterla visionare,
e ci mostra solo la parte che ha potuto ottenere. L’immagine proiettata rappresenta una sorta di
cornice policroma, il bordo esterno di un’opera di Fred Forest intitolata “Parcelle/Reseau”, forse il
5% dell’intera superficie.
Inoltre ci spiega che molti degli artisti che usano la rete lavorano in gruppo e spesso preferiscono
rimanere anonimi.
Credo che il primo input a questo lavoro sia partito da quella lezione. Dalla volontà di indagare i
motivi e i meccanismi per cui una delle esperienze artistiche più recenti, che fa dell’interazione il
suo punto di forza e d’innovazione, possa dar luogo ad una contraddizione così evidente
impedendo la visione di un’opera. Su questo cono d’ombra che esercitava già una forte attrazione,
cresceva durante gli studi il peso ingombrante dell’assenza del nome scelta da quegli artisti, fino a
determinare l’indirizzo di questo lavoro.
Questo lavoro non risponde a tutti i quesiti possibili su quegli argomenti, anzi ne può provocare altri,
ma è il tentativo di offrire un contributo all’indagine su una delle trasformazioni più attuali dell’arte. E
seppure con una consapevolezza ancora incompleta rappresenta la volontà di accogliere l’invito
lanciato dai nostri insegnanti:
“Fare in modo che la storia delle immagini artistiche, -materia prima- dei linguaggi multimediali,
mantenga da una parte la sua fisionomia e dall’altra sia malleabile, arricchibile di informazione
valida e verificata, adatta all’interazione è un’impresa che gli storici dell’arte possono (devono)
affrontare con piena consapevolezza”. Sbrilli, in”Storia dell’arte in codice binario” 2001.
L’arte degli ultimi decenni fonda sempre più la propria esistenza sulla partecipazione dello
spettatore fino a farlo diventare parte integrante del lavoro, ed utilizza i nuovi media nella
produzione e fruizione artistica e nel suo meccanismo di scambio.
Attraverso forme artistiche anche volutamente ai margini del sistema ufficiale come Mail art,
Neoismo e Plagiarismo, i movimenti più recenti rimettono in gioco il dissenso proponendo
nell’orizzonte del dissolvimento dell’arte nuove problematiche legate ai concetti di autore e
copyright, identità e individualità, originale e copia, vero e falso.
Una posizione, spesso anche estrema, di superamento dell’arte e di totale integrazione fra arte e
vita che trova i suoi presupposti in una tradizione utopica che attraversa molte avanguardie del
Novecento, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, COBRA, Lettrismo, Situazionisti, Fluxus, arte
Cinetica o Programmata.
Un modo di intendere l’arte contrario al sistema di mercificazione e di sacralizzazione della figura
dell’artista e sempre più aperto alla partecipazione dello spettatore/coautore, che negli anni
Settanta entra nella pratica comune di quel grande movimento di contestazione che Calvesi ha
chiamato avanguardia di massa. Un modo collettivo di fare arte e un rifiuto sempre più deciso
dell’autorialità dell’autore, che ha trovato nell’uso del Nome Multiplo un sistema pratico per
organizzare attorno ad un progetto comune chiunque fosse interessato, e infine nel digitale un
eccellente strumento per condividerlo in tempo reale e per creare infinite identità virtuali.
L’uso dei nomi multipli è una pratica che si perde nella notte dei tempi e nel campo artistico dopo
una prima particolare esperienza nel dada berlinese, conosce un grande successo negli anni
settanta, nell’ambito della Mail-art, arrivando a coinvolgere con l’ etica hacker migliaia di
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rappresentanti del lavoro immateriale negli anni ottanta-novanta, quando centinaia di nomi multipli
legano sempre più la loro sorte a quella del progetto per cui nascono, muoiono e rinascono.
La mia ricerca si concentra sull’esperienza del Luther Blissett Project che mi è sembrata coniugare
al meglio l’uso dello pseudonimo e alcune tra le ultime trasformazioni del modo di fare arte. In bilico
tra il linguaggio mobile e mutante dell’arte contemporanea e un linguaggio adatto a descriverne
funzioni e funzionamento, ho indagato alcune teorie ed opere, o meglio operazioni blissettiane, che
potrebbero indicare queste trasformazioni; sapendo che un’indicazione non è mai definitiva, e lo è
ancora meno se riferita a degli eventi che si stanno ancora compiendo.
Luther Blissett è un progetto nato, alla fine del 1994, come nome multiplo per creare un network
degli eventi col quale assaltare la cultura, così preciso da stabilire la sua data di scadenza, alla fine
del 1999.
E’ il nome di un condividuo che tutti possono usare e che centinaia di persone hanno usato, per
firmare testi, immagini, azioni, raggiungendo un grado d’apertura pressoché infinito, un’inclusività
impensata che gli ha permesso di intervenire nella cultura transnazionale a 360 gradi senza
limitarsi al campo dell’arte. Ed è proprio a causa della sua ricca composizione che diventa
impossibile tentare di definirlo o trovargli un’ascendenza senza incontrare la resistenza di chi ne ha
utilizzato il nome.
Blissett ha portato un felice assalto alla cultura fino ad entrare nella fortezza dell’industria culturale
Ha predicato l’ Elettronic Revolution di Burroughs coniugandola con l’ Intelligenza Collettiva di
Pierre Lévy. Ha seminato il panico nei media, ha beffato giornali e televisioni, la casa editrice
Mondadori, la Biennale di Venezia e il Vaticano.
Luther Blissett si è nutrito di tutte le eresie, quelle del comunismo otto-novecentesco e quelle del
cristianesimo riformato più radicale del XVI secolo. Dalla Gemeinwesen (la teoria marxiana
dell’essere comune), alle comunità degli Spiriti Liberi (come gli Antitrinitaristi di Michele Serveto e i
Sociniani di Fausto Sozzini).
E’ stato attento al dibattito filosofico del ‘900, schierandosi con la tradizione pragmatista e
verificando le proprie ipotesi nella prassi. Ha lottato contro l’identità e l’individualità superando
anche il dividuum di Nietzsche, per giungere attraverso l’antipsichiatria e le macchine desideranti di
Deleuze a dar vita al condividuo.
Blissett ha utilizzato tutte le tecniche delle avanguardie, a partire dal nome multiplo, la deriva
psicogeografica, il detournement e il plagio, fuggendo però da qualunque paragone con le
avanguardie del novecento e dai tentativi di storicizzazione, contestando la sua “inclusione
arbitraria” in una mostra sulla crisi della rappresentazione e iconoclastia nelle arti, e la scheda
“caso Luther Blissett” nel Rapporto Italia 1999 dell’EURISPES.
Non avendo l’intenzione di costruire una tesi contro lo stesso “soggetto” studiato, su Blissett
malgrado lui/esso, e sentendomi quasi sfidato dalla disattenzione manualistica nei confronti dei vari
COBRA, MIBI, Lettristi e Situazionisti, ho ritenuto doveroso dedicare un ampio spazio della mia
ricerca proprio a questi movimenti che attribuiscono all’arte il compito di contribuire a trasformare la
società, e cambiare la vita sia in termini individuali che collettivi. Un cambiamento tentato creando
delle situazioni, dei momenti di vita organizzati collettivamente, che presentano un modello
alternativo improntato sul desiderio e sul gioco. L’arte come critica della vita quotidiana, contro la
riduzione della vita a spettacolo della società dei consumi, contro l’urbanistica repressiva e
l’ideologia.
Al di là, ma non troppo, delle possibilità concrete che Blissett ha offerto ad alcune nuove realtà, più
o meno artistiche, che si stanno affermando, mi piace pensare che il Luther Blissett Project è
stato/è/sarà questa critica della vita quotidiana, arricchita dal tentativo concreto di realizzare tante
piccole alternative, finché un mondo diverso è possibile.
mercoledì 2 gennaio 2008
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