Il bello del catrame "ALBERTO BURRI"
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Prima che Stanley Kubrick offrisse con "2001 Odissea nello spazio" del 1968 l'esperienza di provare l'ebbrezza di silenzi siderali, c'era già riuscito un artista geniale come Alberto Burri rivelando all'immaginario collettivo la vertigine degli abissi ciechi di "buchi neri" osservabili in opere come "Rosso plastica" del '62, in cui il sipario combusto e pieno di riflessi luminosi della plastica spalancava un vuoto tanto oscuro ed enigmatico da suscitare una percezione di smarrimento. E' con questa osservazione presa in prestito da Bruno Corà, che può essere condensata la grandezza di Burri, celebrato oggi dalla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversatolo (Parma) con la mostra "Burri. Opere 1949-1994. La misura dell'equilibrio", in scena dal 8 settembre al 2 dicembre, sotto la cura, appunto, di Corà e Chiara Sarteanesi, in collaborazione con la Fondazione Palazzo Albizzini "Collezione Burri" di Città di Castello. Una rassegna fedele e attenta allo spirito creativo dell'artista scomparso nel '95 a ottant'anni, che documenta quello "scandalo" di una pittura, inizialmente figurativa ed espressionisticamente realistica, ma che dal '49 si è lasciata trasfigurare sotto l'egida della materia, come emblema di se stessa, come entità originaria, come puro spettacolo artistico da porgere allo spettatore.
Così è nata la poesia del catrame. La suggestione della pietra pomice, il lirismo della segatura e della polvere di alluminio. La forza espressiva di vecchi sacchi di juta, la fierezza di plastiche combuste, la forza ritmica di legni e ferri arrugginiti. Burri ha innescato un gioco spericolato alla scoperta della bellezza nella materia più "rifiutata". Per questo, Burri va considerato come il maestro italiano che per primo, dopo aver scontato gli orrori del secondo conflitto mondiale, ha dato dignità artistica a materiali poveri, figli di una quotidianità fino ad allora mortificata dal preconcetto della banalità. Poveri ma belli. Dopo di lui, l'arte non è stata più la stessa. Via pennelli, via colori, bando al disegno e ad una figurazione precostituita. Una sfida all'ordine, alla calma piatta dell'apparenza oggettiva delle cose. E' la genesi dell'informale. E la storia della ricerca materica, una stagione "maledetta" dell'arte, con i suoi cinquant'anni di febbricitanti ricerche e sperimentazioni, viene ripercorsa da questa bella mostra.
"Nei cinquant'anni della pittura di Burri, il dato costante che sembra avere governato il suo dispiegamento, attraverso la bandiera della materia, è il conseguimento in essa di un equilibrio sempre impredicabile consegnato all'immagine dei suoi lavori - racconta Corà - Nella nascita di ogni opera di Burri, la costruzione geometrica e l'inclinazione compositiva sono, quasi sempre, assai evidenti. La sua non è una geometria rispondente a criteri scientifici quanto piuttosto a un senso di configurazione distributiva delle forme e dei colori in buona parte istintiva, ma non perciò meno esatta. Come nella caccia o nel tiro al piattello, in cui Burri amava esibirsi - con lo scopo di verificare la propria abilità nel tempo di individuazione delle traiettorie e di stupire chi guardava - così anche nella pittura, l'esercizio compositivo mirava a mettere in risalto il suo senso della geometria. Perciò, nonostante in molte opere di Burri si possa intravedere, e talvolta persino osservare in modi espliciti, la presenza di una 'griglià di scansione dei piani cromatici o metrici, non si può attribuirne l'impiego a un interesse meditato per la norma neoplastica, quanto piuttosto a un imponderabile ricerca di rapporti, su differenti livelli, tra materia, colore, forma, spazio".
E' un piccolo grande corpus di lavori, datati dalla fine degli anni Quaranta, quando l'artista umbro di Città di Castello, debuttò con i suoi rivoluzionari sacchi vecchi e logori, pieni di dozzinali cuciture e rammendi, raggiungendo subito, in barba a scandali e polemiche, una affermazione internazionale, per approdare al '94, ad un anno prima della sua morte, toccando le varie fasi creative legate essenzialmente ai materiali. "Il fatto è che Burri - dice ancora Bruno Corà - era nato a Città di Castello e, nel processo formativo della propria 'autonoma individuazionè alla pittura, il ruolo giocato dall'aria respirata in quel luogo negli anni giovanili è stato di imponderabile valore. Delle architetture di Angiolo da Orvieto o delle pitture di Raffaello, Piero della Francesca, Signorelli o altri ivi risieduti o transitati, Burri ha 'respiratò l'aria e qualcos'altro che lo ha dotato - come pochi - di un senso della misura, della proporzione, dell'armonia, ma anche della 'forza', restituiti metabolicamente nella sua opera, pur con le debite diversità, in gradi non certo inferiori a quelli mostrati dai maestri vissuti negli stessi luoghi".
L'aspetto più intrigante di Burri, è la sua capacità di rinnovarsi, di dinamicizzare il suo approccio alla ricerca. Lui che aveva studiato medicina e che la guerra prima lo confina diciotto mesi in Tunisia prigioniero degli inglesi, poi lo catapulta altri diciotto mesi nel campo di prigionia americano di Hereford, nel Texas. Lui che comincia a dipingere le desolate e infuocate distese di terra che vedeva al di là del recinto di detenzione, ma che poi ha preferito degradare la pittura a prelievo della materia per renderla sublime, recuperando l'idea dei collage cubisti di Picasso e quelli futuristi di Prampolini, e quelli dada di Schwitters. In mostra sfilano tutte le sue creature. I suoi Neri, i suoi Gobbi - i quadri con rilievi prodotti da protuberanze disposte dietro la tela - le sue Muffe, fino ai Sacchi, laceri, logori, strappati, ricuciti, rattoppati, icone diun'esistenzialismo contemporaneo, seviziato dalle guerre, intriso di sangue e ferite di genocidi e stermini, acme dell'Informale materico che scorreva burrascoso tra vecchio e nuovo continente. La svolta più audace nell'arte degli anni Cinquanta. Ancora, le sue Combustioni, dove subentrano le plastiche bruciate sulla tela e Burri introduce l'uso del fuoco come mezzo espressivo.
Ecco nuovi materiali come i Ferri, quando dalla ricchezza cromatica sontuosa e "barocca" passava ai monocromi delle lamiere traslucide, oppure trasfigurate col fuoco in lastre opalescenti dal riverbero acceso. E i legni, carbonizzati, travi da imballaggio, riciclati ad arte, con ancora incisi simboli di una genesi di schietta quotidianità. Le Plastiche bruciate che giocano con l'effetto della stratificazione, come a voler creare un effetto tridimensionale dello spazio scenico della tela. I cretti, misture di caolino, vinavil, e Cellotex, pigmenti tipici degli anni Settanta. La mostra vanta la presenza di opere significative come il Catrame (1949) in cui ben si caratterizzano entro i campi cromatici e di materia già vistosamente impiegata le ricorrenti 'formazionì circolari, evocanti una germinale morfologia cellulare. Di quelle forme tondeggianti presenti già in alcune 'composizionì a olio su tela del 1948 la ricorrenza sarà costante in molti 'catrami', nel Sacco SZ1 del '49, con il tessuto a stelle e strisce, nel celebre Gobbo del 1950 con la tela sagomata nel retro da una struttura di rami incrociati, nel Nero (1951) presente in questa mostra, nel Pannello FIAT (1949-50).
Insomma una mostra che ripercorre l'intera produzione di Burri, partendo da quel "Sacco" del '54 acquistato con devozione e convinzione da Luigi Magnani che tanto piacque incredibilmente a Giorgio Moranti. Una sera di aprile del 1960, raccontano le cronache della Fondazione, il pensiero di Luigi Magnani ondeggiava tra la soddisfazione per l'acquisto di quel Sacco, in cui Burri ostentava oramai l'abbandono di ogni metafora mimetica della pittura, e il timore di "scandalizzare" Giorgio Morandi che sarebbe venuto in visita a Mamiano il giorno successivo. Il collezionista quasi arrivò a pensare di toglierlo dal muro per nasconderlo al pittore. Ma alla fine il Sacco rimase dove si trovava, e Morandi, di fronte all'opera, si complimentò con Magnani, evidenziando con grande sensibilità e senso critico una caratteristica che non era ancora tra quelle più riconosciute all'opera di questo grande maestro, il massimo rigore progettuale e spaziale.
LAURA LARCAN
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