giovedì 17 gennaio 2008

Oriente e Occidente tra Zen, Arte e Filosofia (III parte)

Di Ryosuke Ohashi , RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
) Dal 27 aprile al primo maggio 2007 a Bologna Traduzione a cura di Enrico Fongaro
29 aprile mattina
Il Maestro Ēsai fu colui che portò il Chan dalla Cina al Giappone, dove prese il nome di Zen; fu un suo allievo a rispondere a Dōgen, quando questi gli pose la propria domanda [“Se possediamo già tutti la natura di Buddha, perché praticare?”], dicendogli: “I Buddha dei tre tempi non lo sanno. I tassi e le vacche bianche lo sanno”. Questa frase sembra dire che chi sa non sa, chi non sa invece sa.
Ma cosa significa sapere? Torniamo a Socrate e ai Sofisti: mentre il primo non fa che porre domande (“Cos’è il Bene? Cos’è Bello?”), il nome dei secondi rimanda immediatamente alla sophia, alla sapienza: presumono quindi di avere delle risposte, e alle domande di Socrate rispondono subito con degli esempi, fermandosi all’individualità. Ma Socrate si riferisce all’essenza del Bello: una conoscenza meramente empirica come quella dei Sofisti non può colmare la questione da lui aperta. Cercando il Bello in sè, Socrate cerca l’oceano, mentre i Sofisti ignorano questo livello, non conoscendo che le onde; il primo si riferisce al livello dell’idea, i secondi semplicemente non lo concepiscono. Ora, gli interlocutori di Socrate non conoscono l’idea, e Socrate sa che essi non la conoscono: a questo punto, chi sa e chi non sa?
Questi sono i dialoghi giovanili del primo Platone, ma c’è anche un altro Platone, che mette a confronto Parmenide e Socrate (ritratto come più giovane di Parmenide) sulla questione dell’Uno (to hen): Parmenide afferma che tramite il logos è possibile fare esperienza dell’Uno; il fatto è che, se si tenta di cogliere l’Uno attraverso il logos, emergono sempre delle contraddizioni. Si delinea cosí l’impossibilità intrinseca dell’Uno di essere conosciuto; dai Sofisti, al contrario, il “non sapere” di Socrate era interpretato come momentaneo, un non sapere ancora. Tuttavia, Socrate sa entrambi questi “non sapere”!
Tracciando un parallelo fra Platone e Dōgen, si nota che se per il filosofo l’analisi resta a un livello di nous, di mente, per Dōgen il discorso coinvolge sempre corpo e kōkōrō [mente-cuore].
Leggiamo il quarto frammento dello Shōbōgenzō:
4. Nella pratica, essere presenti ai diecimila dharma salvando se stessi, questa è errare; i diecimila dharma si presentano e testimoniano me stesso nella pratica, questo è risveglio. Rendere l’erranza il grande risveglio: [questo fanno] i Buddha. Errare in grande nel risveglio: [questo fanno gli esseri sofferenti]. Inoltre ci sono uomini che raggiungono un risveglio oltre il risveglio e ci sono uomini che errano ancora di più nell’erranza.
Cosa significa che i diecimila dharma vengono a me, e non piuttosto il contrario? Ad esempio, è un po’ come quando ci si impegna in qualcosa: quel qulcosa mi attira, sono trascinato da quel qualcosa.
Ora, leggendo questo brano si ha spesso l’impressione che l’erranza abbia un carattere negativo: questo è un errore, perchè anche l’erranza è uno dei diecimila dharma! Ma allora perchè Dōgen la introduce? Egli scrive: “Rendere l’erranza il grande risveglio: [questo fanno] i Buddha”, ovvero: “Risvegliare grandemente l’erranza”. Si tratta di comprendere profondamente e completamente l’erranza, di rendere l’erranza un satori, e non di rifiutarla: questo è ciò che fanno i Buddha.
Gli esseri che soffrono sono i principianti: quando essi cominciano ingenuamente a praticare si trovano già sullo stesso cammino in cui si trova anche il Maestro. Si parla di erranza e risveglio, e questi due termine sembrano essere in contrasto; tuttavia, tassi e Buddha si aggirano nello stesso mondo; il terzo dei primi tre brani che abbiamo affrontato propone un andare al dilà di entrambi i mondi, della loro distinzione: erranza e risveglio sono modi d’essere della realtà cosí com’è, per questo Dōgen scrive “nonostante le cose stiano cosí”.
La frase alla fine del quarto passaggio parla di un “risveglio oltre il risveglio”; il livello della perfezione, dello scopo, è quello più insidioso: il pericolo è quello di fermarsi, di collocarsi. Per quanto sia difficile, è necessario fare un altro passo: esso consiste nel comprendere che la conoscenza raggiunta è non-conoscenza. Ma che tipo di conoscenza è questa?
Nel quinto passaggio si legge:
5. Quando dei Buddha sono proprio dei Buddha, non devono essere consapevoli di se stessi in quanto dei Buddha. Nonostante [questo], la testimonianza del Buddha consiste in ciò: di testimoniare continuamente il Buddha. Sebbene con entrambi corpo e mente si guardano dei colori, con entrambi corpo e mente si odono dei suoni, per quanto da vicino uno li coglie, non è [questo cogliere] paragonabile a uno specchio che accoglie l’immagine dello specchio, non [è paragonabile] alla luna nell’acqua. Mentre un lato si mostra, l’altro rimane oscuro.
I Maestri non hanno bisogno di sapere d’essere Maestri: questo è il passo successivo. IlMaestro è per se stesso “altro”: dire “io so me stesso” significa dire “io non so me stesso”. L’esserci non può essere oggetto di conoscenza: questo certifica di essere un Maestro.
Il non-sapere socratico è diverso da quanto esposto finora riguardo Dōgen: il non-so di Socrate è ancora logico, poiché si riferisce ad un sé e all’Uno; la non-conoscenza di Dōgen non può essere conosciuta come oggetto, cioè “io” non sono conoscibile a me stesso in quanto oggetto (“Sebbene con entrambi corpo e mente si guardano dei colori, con entrambi corpo e mente si odono dei suoni, per quanto da vicino uno li coglie, non è [questo cogliere] paragonabile a uno specchio che accoglie l’immagine dello specchio, non [è paragonabile] alla luna nell’acqua.”). L’ultima parte del frammento propone la differenza fra acqua e luna, fra coscienza e oggetto; tale differenza non esprime il Vero: piuttosto, sé e dharma sono una cosa sola.
Quando si è raggiunta la meta, l’altro lato resta oscuro: cos’è l’altro lato? La conoscenza in termini filosofici, giunta alla meta, si ferma; si tratta tuttavia di superare tale meta con un passo... Possiamo pensarci impegnati in un kata di kendō: in questo momento ogni altro kata, che non stiamo praticando, resta sullo sfondo, cosí come non è possibile mettere a fuoco contemporaneamente un oggetto vicino a noi e uno più lontano. Quando realizzo questo “passo”, la realizzazione ne fa uno indietro.
Ricorriamo ai termini heideggeriani: prendendo in considerazione Sein e Seiendes (“essere cosí come si è” e “cosa, entità”), ci accorgiamo che, quando si fa esperienza di essere in sé, le cose rimangono sullo sfondo.
Leggiamo il sesto brano:
1. Apprendere la via del Buddha significa apprendere se stessi. Apprendere se stessi significa dimenticare se stessi. Dimenticare se stessi significa essere da sé [cioè: che va da sé] testimoniati dai diecimila dharma. Essere da sé testimoniati dai diecimila dharma significa lasciar cadere corpo-cuore di me stesso come anche corpo-cuore d’altri. La traccia del risveglio può sparire, alla traccia del risveglio [si deve] dare risalto a lungo, a lungo.
I vincoli fra corpo e kōkōrō cadono, sono abbandonati: questo significa lasciar cadere corpo e mente. Nel caso di Socrate e Platone, corpo e mente non vengono lasciati cadere; spesso Platone afferma che “il corpo è il carcere dell’anima” (che si libera con la mente), mentre per Dōgen corpo e mente si abbandonano durante la pratica.
Per Socrate l’idea si può conoscere solo dopo la morte; per Dōgen la “caduta” di corpo-cuore avviene nella pratica, e comincia cosí ad agire grandemente. La non-conoscenza di Dōgen è per lui il punto di partenza, quella di Socrate è la parte conclusiva del suo pensiero e delle possibilità di quest’ultimo.

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