Burri. Opere 1949-1994. La misura dell'equilibrio
DI D. PICCHIOTTI
Informale, neoplastico, barocco, classico, barbarico, sperimentale, concettuale, la critica ha spesso usato categorie antitetiche per definire Alberto Burri (1915 - 1995), grande protagonista dell'arte del secondo Novecento.
A fronte di questa molteplicità di indirizzi interpretativi si trova la sorprendente coerenza di indagine e di poetica di Burri.
Per il medico umbro, diventato pittore durante la prigionia in Texas nel 43, l'arte significava ricerca dell'equilibrio. Un equilibrio da ritrovare dopo l'esperienza tragica della guerra che aveva azzerato ogni codice. Per tornare a guardare la realtà e porgerla agli altri, Burri doveva individuare nella pittura un veicolo di rigenerazione oggettiva. Un'esigenza che segna l'inizio la ricerca sui materiali poveri visti come testimonianze organiche ed elementari della vita.
Prima di lui, Picasso con i suoi collages cubisti e Schwitters con quelli dada-surrealisti avevano inserito nel quadro materiali extra-pittorici per trasgredire le convenzioni dell'arte, ma è Burri a fare il passo estremo: spoglia la materia di ogni significato simbolico o concettuale e ne rivela l'implicita bellezza, le insospettabili prerogative formali, e ci fa scoprire quello che esisteva da sempre e che non avevamo visto. All'inseguimento di un equilibrio compositivo, di un canone aureo da rintracciare nei materiali più poveri e banali - prima i catrami e le muffe ancora assimilabili per consistenza agli impasti pittorici, dopo i sacchi e i gobbi e le combustioni, poi i legni, i ferri, le plastiche e i cretti, fino ai grandi cellotex intonsi o nei neri in cui la materia stessa sembra scomparire dal quadro - Burri costruisce la propria statura di artista "classico".
Una classicità e un equilibrio costruiti attraverso cinquant'anni di febbricitanti ricerche e sperimentazioni, attraverso gesti, colori e materiali trasformati in spettacolo artistico da porgere allo spettatore.
La rassegna allestita presso la Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo ripercorre la biografia artistica dell'artista umbro, dagli esordi figurativi alla scoperta della bellezza nella materia più povera e negletta.
In mostra sfilano una sessantina di opere, a cominciare da Catrame del 1949 con quelle formazioni circolari, evocanti una germinale morfologia cellulare, la cui ricorrenza sarà costante in molti catrami, nel Sacco SZ1 del 49, con il tessuto a stelle e strisce, nel celebre Gobbo del 1950 con la tela sagomata nel retro da una struttura di rami incrociati, nel Nero del1951 presente in mostra, nel Pannello FIAT del 1949-50, in molti Sacchi, nelle Combustioni, nei Legni, nelle Plastiche, nei Ferri, nei Cellotex.
Fino a Nero e Oro del '93, composto da 10 cellotex, che esprime la scelta linguistica degli ultimi anni della ricerca di Burri: l'apertura all'astrazione dell'oro rimanda ai fondi dorati bizantini e rinascimentali facendo pensare più ad un inizio che a una fine del percorso.
Un percorso che si è svolto all'insegna della "misura dell'equilibrio". Nel corso di una conversazione avvenuta nel 94, poco prima della sua scomparsa, Burri aveva affermato: "La pittura deve essere decorativa, deve cioè rispondere a dei canoni di composizione e di proporzione (...) Come può essere un quadro sproporzionato, "cadere" da una parte ...o uno ce l'ha questo senso dell'equilibrio, oppure (...) Equilibrio delle forme che si pongono nello spazio (...) almeno questo ... equilibrio che può avere delle trazioni terribili da una parte o dall'altra, però sempre in equilibrio (...)". Successivamente, a sottolineare come tutta la tensione all'equilibrio e all'armonia provenisse a lui dai luoghi della sua terra, aveva aggiunto: "Io l'Umbria ce l'ho dentro perché l'ho respirata. Questo è il punto".
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