sabato 5 gennaio 2008

Jannis Kounellis (Pireo, Grecia, 1936).

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

 
  Nato nel 1936 al Pireo, Kounellis si allontana dal suo paese natale ad appena vent'anni per completare a Roma gli studi presso l'Accademia delle Belle Arti. Elegge così l'Italia a sua seconda patria.
Il suo esordio pubblico risale al 1960, con la prima personale presso la galleria romana La Tartaruga. È il periodo in cui la cultura italiana, dopo gli anni del neorealismo e dell'impegno politico antifascista, tenta di recuperare il ritardo causato dal provincialismo culturale che l'aveva caratterizzata tra le due guerre mondiali, aprendo le sue frontiere e aggiornandosi sulle tendenze artistiche più avanzate. L'espressività informale, conosciuta nell'ambiente romano tra il 1956 e il 1957, grazie al soggiorno dell'americano Cy Twombly, suscita notevole scalpore anche negli ambienti più sensibili al linguaggio delle avanguardie storiche e all'astrattismo. Anche Kounellis coglie il valore evocativo di quell'automatismo gestuale, legato alla liberazione degli impulsi interiori, e avverte l'importanza processionale presente nell'opera "aperta", non più legata al valore del prodotto finito, ma al flusso continuo dell'ispirazione; tuttavia, l'orizzonte ideale della poleis e il privilegio accordato alla funzione collettiva dell'arte gli permettono di avvertire immediatamente i limiti intimistici e decadenti, insiti in quella prospettiva.
L'urgenza comunicativa prevale, infatti, fin dalle prime tele di Kounellis, caratterizzate da segni tipografici ingranditi (Alfabeti), dipinti a monocromo scuro e fluttuanti su superfici chiare, in cui il frammento linguistico, ravvicinato e indecifrabile, viene sottoposto ad una struttura logicamente ordinata, (memore delle sintassi costruttivistiche).

Nelle tre mostre tenute a Roma durante il 1967, Kounellis svolge le premesse del proprio linguaggio creativo in sintonia con la comunità artistica dell'Arte Povera, presentata al pubblico da Germano Celant. In queste occasioni espositive l'uso di materiali e oggetti prelevati direttamente dal reale, denota immediatamente una disposizione autoriflessiva e meditata sull'arte: essa non rappresenta, ma è; l'artista, quindi, non imita ma crea:
«Niente è più mitico del fuoco, niente è più mitico e greco della lana: il filo delle Parche, le capre e i pastori, le zampe irsute dei satiri e di Pan». Inoltre, le sue installazioni invadono lo spazio della galleria, per cui lo spettatore non si trova più di fronte ma dentro l'opera, in modo da farlo sentire parte integrante. In particolare nella terza esposizione, tra otto vasche di metallo, riempite di terra e piante grasse, fanno la loro comparsa un acquario e un pappagallo: la natura viva viene contrapposta polemicamente alla natura morta tradizionale, evocata per metonimie e antropizzata dalle presenze "fredde" dei materiali di fattura industriale e dall'ordine geometrico della disposizione.
Parallelamente al succedersi delle opere, si sviluppa e si articola il linguaggio dell'artista, come rinato dalle ceneri del nulla, da un'originaria lallazione, con implicazioni minime, essenziali. Gli uccelli aleggiano lievi su questa res publica della creatività, come messaggeri di libertà. Il fuoco, simbolo di processualità, di trasformazione e di rigenerazione compare nella Margherita di fuoco come un eliotropo "rovesciato", generatore di energia, evanescente nella sua natura ossidrica, contrapposta alla "pesantezza" della bombola a cannella.

Nel 1969, sempre presso L'Attico di Roma, espone i Cavalli, agganciati alla corda come quadri sulla parete. L'installazione, indistinta ormai dalla performance, contempera l'estemporaneità e l'evanescenza dell'atto creativo con la presenza ingombrante, greve, imbarazzante degli animali, conciliando - al sommo del paradosso - le opposte nature dell'idea e della realtà. L'effetto straniante degli animali, decontestualizzati dal loro ambiente e posti in una galleria d'arte, rievoca i rapporti problematici tra natura e cultura, tra raffigurazione e aspirazione all'altrove, tra urbanizzazione e riconciliazione con un'originaria naturalità: i piani d'interpretazione sono molteplici e complessi, suggeriti più che enunciati, mentre l'intervento ideativo dell'artista appare ridotto al minimo, "povero", appunto, nonostante l'evidente impegno richiesto dall'allestimento.

Tra gli anni Sessanta e Settanta si accentua la vis polemica dell'artista poiché, come afferma Celant, «la comunità dell'arte condivide il sogno, ma soccombe se lascia la società immutata». Ne è emblema la porta chiusa con pietre presentata a San Benedetto del Tronto nel 1969, in cui l'uso di materiali ormai consueti per l'artista, sorprende comunque per l'inedita collocazione, tale da impedire l'accesso all'ambiente che gli era stato riservato per accentuare il senso di rifiuto, la volontà di denuncia e d'insofferenza nei confronti di quelle forme di fruizione dell'arte e degli spazi espositivi, modellate sugli esempi del consumo immediato e superficiale, tipico della civiltà di massa. Riproposta a Roma nel 1971 e a Mönchengladbach nel 1978, la porta murata lascia fluttuare nel tempo le sue molteplici implicazioni, superando l'iniziale connotazione negativa nell'aspetto di un conglomerato cementizio - segno di quella cultura rurale e artigianale che si oppone alla "borghese" parete stuccata e tappezzata - oppure configurandosi come una "maschera", una "facciata" figurativa che, velando il mistero della creazione artistica, preserva la sfera privata dall'invadenza del mondo esterno. Ancora nel 1980 a Roma, Baden-Baden, Londra, Colonia, la porta è ripresentata con numerose varianti costituite da calchi di statue e di busti classici accumulati come memorie solidificate e stratificate di una eredità la cui profondità appare impenetrabile e invalicabile.
ellis si propone stando seduto, con la maschera sul volto e in compagnia del flautista attorno ad una tavola sacrificale, imbandita con i frammenti di una statua classica e con un corvo impagliato (non più animali vivi!), messaggero di morte e dissoluzione.
Sono gli anni del riflusso ed è il momento della disincantata e amara constatazione del fallimento dell'utopia. A partire dal 1976 l'uso del fuoco cede il passo alla fuliggine, la mobilità luminescente della fiamma ossidrica all'immobilità scura dello sporco. A Torino, nel 1979, i due uccelli imbalsamati, trafitti da frecce, sospesi sulle linee di un elementare paesaggio urbano trasmettono tristi presagi della fine di ogni immaginazione liberatrice. Sulla parete, disegni sommari di case in prospettiva riecheggiano gli ambigui ritorni figurativi della transavanguardia.
Nell'ultimo periodo la produzione di Kounellis è caratterizzata dal recupero sincretico di tutto il lessico maturato nei decenni precedenti, combinato in ampie e complesse sequenze narrative, secondo una monumentalità corrispondente all'originaria vocazione della sua creatività su scala urbana. In piazza Plebiscito, a Napoli, nel 1995 tornano, ad esempio, le bombole a gas con tubi a cannella, montate su un grande tabellone metallico; nel colonnato della chiesa di San Francesco vengono esposti su mensole frammenti consunti di barche, emblemi del viaggio come condizione dell'esistenza, mentre vengono appesi alle volte mobili d'antiquariato, posizionati in modo tale da non essere percepiti dall'esterno.
Infine nel 2002, dal 7 maggio al 14 luglio, presso la Galleria nazionale di arte moderna di Roma, Kounellis inscena il suo "Atto unico", invadendo i corridoi e le sale della celebre istituzione con un immenso labirinto di lamiere di ferro lungo il cui percorso posiziona le sue note "carboniere", le "cotoniere", i suoi sacchi di iuta, i mucchi di pietre: atto unico perché realmente irripetibile per la sua complessità, perché inevitabilmente connesso a quel luogo e al quel momento, come irripetibili e unici sono gli atti dell'arte che si sottrae alla riproducibilità della produzione industriale.

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