Oriente e Occidente tra Zen, Arte e Filosofia (II parte)
DI Ryosuke Ohashi RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
) Dal 27 aprile al primo maggio 2007 a Bologna Traduzione a cura di Enrico Fongaro
29 aprile mattina
Commentare un testo quale lo Shōbōgenzō per un pubblico come quello del seminario in corso è cosa piuttosto inusuale: gli ascoltatori hanno presente alcune problematiche relative alla pratica su cui stanno lavorando, ma al contempo non sono dotti dello Zen, né monaci Sōtō, la scuola Zen di cui Dōgen fu il fondatore. Questi avrebbe senza dubbio apprezzato il fatto di parlare a persone abbastanza scevre da pregiudizi o conoscenze precedenti.
Per la scuola Sōtō fare Zazen è estremamente importante; tuttavia non bisogna pensare che la pratica si riduca allo stare seduti: praticare il Sōtō significa fare Zazen anche stando in piedi e, viceversa, sedersi “stando alzati”, cioè praticare in modo attivo, non sterile. In ogni caso, sia per il linguaggio che per la pratica, il silenzio è indispensabile: esso precede la parola filosofica e soggiace al testo di Dōgen. (Un minuto di silenzio)
I testi di Dōgen, all’interno dello Shōbōgenzō, si possono distinguere secondo la presenza o meno, in principio, dei due ideogrammi che indicano una lettura pubblica dello scritto; alcuni brani sono estremamente difficili, almeno quanto certi testi filosofici: è chiaro che con essi l’autore non si poneva l’obiettivo di istruire i suoi monaci semplicemente leggendoli ad alta voce: gli allievi erano infatti tenuti a studiarli individualmente.
Ma qual è la differenza fra un sermone e un testo filosofico? Il primo propone la parola di Dio, o in questo caso del Buddha, come vera a priori; inoltre, il prete – o il maestro – si pone come intermediario fra la parola “dall’alto” e gli ascoltatori. La filosofia, invece, è parola “dal basso”: il filosofo è un semplice essere umano che parte da una domanda; il logos della filosofia è quello dell’Uomo, per cui il problema è relativo all’essenza: “cos’è il Bene?” significa chiedersi “cos’è l’essenza del Bene?”. Platone non fa prediche perchè non ha risposte; in un sermone, al contrario, la verità è da subito evidente. Ma e-vidēre vuol dire “vedere qualcosa e al contempo esserne visto”. Anche il verbo greco skopein – da cui skepsis, “dubbio” – ha significato di “guardarsi attorno”; la filosofia è inseparabile da questo guardarsi attorno, ma non si limita a questo: ha più a che vedere con l’evidenziarsi del fatto che né A né B possono essere la risposta (in questo senso skepsis assume anche il significato di “critica”). Ad esempio, quando i Sofisti espongono la loro sapienza pratica, Socrate evidenzia che in quest’ultima qualcosa non torna.
credere che ciò che viene enunciato sia la verità. Se leggiamo Dōgen, come lo leggiamo? Con un atteggiamento ispirato dalla skepsis o in quanto sermone? I testi di questo Maestro ci impongono di restare aperti su questa domanda. I monaci Sōtō credono nelle righe vergate da Dōgen, mentre gli studiosi vi applicano il dubbio, la critica; tuttavia una terza chiave di lettura è forse possibile: l’ascolto del testo. Rivolgiamogli semplicemente le nostre orecchie. Ogni lettura merita un simile atteggiamento, e soprattutto Dōgen: leggiamo attentamente ciò che è scritto. Una lettura intellettuale non può che essere solo successiva.
Parmenide dice: to autò ti kai noein ti kai einai (“pensare ed essere sono lo stesso”); se l’atteggiamento fondamentale è l’ascolto, allora “pensare” avrà un ulteriore significato, diverso da quello comunemente riconosciuto in Occidente: non si pensa solo con la mente (con l’intellectus), ma con l’interezza del proprio corpo. Tradizionalmente, la filosofia occidentale cerca di capire attraverso il pensiero intellettivo; Dōgen cerca di far entrare il testo in noi, senza mediare intellettualmente. Noi non crediamo a priori nelle sue parole, ma neppure poniamo una distanza che ci separi da loro. Il nostro approccio potrebbe dunque essere tradotto cosí: stando in silenzio leggiamo il testo.
Enrico Fongaro e Manuela Ritte hanno tradotto autonomamente alcuni brani dello Shōbōgenzō; in seguito hanno confrontato i rispettivi lavori. Traducendo il titolo di quest’opera parola per parola otteniamo: “giusto, corretto” (Shō), “dharma, verità” (bō), “occhio” (gen), “magazzino, scrigno” (zō). “Occhio della vera legge conservato in uno scrigno”, “Mettere in uno scrigno l’occhio della corretta verità”.
Il primo scritto è Genjōkōan: “che c’è” (Gen), “apparire, esistere” (jō), “certificato, diploma” (kōan). “Essere cosí com’è”. Cosa vuol dire?
Se prendiamo un pennarello e lo osserviamo, possiamo notare che ognuno di noi ne avrà un punto di vista diverso da quello degli altri. Sappiamo di stare vivendo. So che sono io a fare esperienza del pennarello. E tutto questo è certo, come lo è il fatto che, non essendo Dio o Buddha, ci stiamo domandando a riguardo. Non possiamo affermare che si tratta di un’illusione... Qui troviamo il primo passo del Genjōkōan:
1. Nel tempo in cui tutti i dharma sono Buddha-dharma, c’è erranza e risveglio, c’è la pratica, c’è sho [vita, nascita, sorgere] e c’è shi [morte, morire], ci sono i Buddha e ci sono gli esseri che soffrono.
Noi siamo simili al tasso: mangiamo, dormiamo, viviamo anche senza la sapienza dei Buddha. Eppure può capitarci di soffermarci sul fatto che dovremo morire: allora la nostra coscienza cerca di portarsi ad una condizione ulteriore; contemporantamente si apre una pratica, una Via.
Il secondo “Nel tempo” è diverso dal primo: è infatti privo di ego. Nel primo punto tutto ha un ego: per gli umani è l’io, per le cose è la loro sostanza; tutto si sta dando, l’ego è come un’onda nel mare. Anche Parmenide afferma che tutti gli esseri che hanno una forma si rifanno ad un mare che non ha forma, né sostanza.
Il secondo “Nel tempo” è quello dei Buddha:
1. Nel tempo in cui i diecimila dharma sono privi di io, non ci sono né errare né risveglio, non ci sono né tutti i Buddha, né tutti gli esseri sofferenti, non ci sono né sho [vita, nascita, sorgere] né metsu [il cessare, il morire].
Come il tasso non conosce l’oceano, cosí i Buddha che conoscono l’oceano non conoscono le onde, che in questo brano non figurano.
Nel terzo livello torna il c’è che è passato attraverso il non c’è del secondo: ritornano le onde dell’oceano. Proprio come nei dieci dipinti del bue, in cui il primo e il decimo erano lo stesso stato: si parte dalle onde, le individualità, per tornare alle onde, che hanno però presente l’oceano attraverso il risveglio. Nel terzo livello vediamo il pennarello, sapendo che quello che vediamo non è tutto.
1. Siccome fin dall’origine la via del Buddha va oltre [ogni differenza di] abbondanza e aridità con un salto, ci sono sho [vita, nascita, sorgere] e metsu [il cessare, il morire], c’è errare e risveglio, ci sono degli esseri sofferenti e dei Buddha. Nonstante le cese stiano cosí, i petali dei fiori cadono solo nelle [nostre] inclinazioni e l’erba prolifera solo nella [nostra] rabbia.
Ci sono momenti in cui viviamo come il tasso, ma noi non siamo tassi: che tutto non si esaurisca nel nostro ego è un dato di fatto. E fino ad ora non si tratta che di logica. Ma alla fine troviamo la frase:
i petali dei fiori cadono solo nelle [nostre] inclinazioni e l’erba prolifera solo nella [nostra] rabbia.
I fiori appassiscono, ma questo non va letto da un punto di vista letterale o scientifico: noi amiamo i fiori, ci piacciono, mentre strappiamo le erbacce, che non ci piacciono. E’ il rapporto con l’io che va indagato.
(In rapporto ad alcune domande dei partecipanti sul rapporto fra etica e tecnica, religione e tecnica) Ethos significa “luigo in cui si abita”; in Giapponese si dice rinri, “la legge del modo di vivere degli uomini”; entrambi i termini fanno riferimento alla natura. La tecnica è a un tempo seconda natura e anti-natura, un po’ come un figlio che si ribelli ai genitori. La tecnica è tale anche senza l’ausilio della religione, e la religione a sua volta è un modo di vivere della natura: anche la religione può quindi porsi indipendentemente dalla tecnica. Ora, è possibile una natura che riprenda in sé la tecnica? Come ricomporre il modo di vivere naturale e tecnico?
E’ necessario ricordare che pensare non è solo un atto intellettuale: tutto il corpo vivente “pensa”.
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