lunedì 28 gennaio 2008

Analisi storico-artistica della Trasfigurazione, l'ultimo capolavoro di Raffaello

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nel rivolgere uno sguardo prospettico all’intera attività pittorica di Raffaello Sanzio, la critica artistica si è costantemente interessata ai grandi capolavori compiuti del Maestro, analizzando in maniera più sommaria “La Trasfigurazione”, la sua ultima opera, mai terminata a causa della sua improvvisa morte, avvenuta nel 1520 con l’aggravarsi di una malattia. E’ così che un grande pittore del Rinascimento si spense nel nulla eterno, lasciando dietro di sé la lunga scia della sua intramontabile fama.
La Trasfigurazione, attualmente, è conservata all’interno della Pinacoteca Vaticana e gode di una buona esposizione in termini di visibilità al pubblico. Si tratta di una pala d’altare commissionata all’artista da Giulio de’ Medici, che in seguito diventerà papa Clemente VII, destinata originariamente alla Cattedrale di San Giusto a Narbonne, ma Vasari ci riferisce che fu collocata sul letto di morte di Raffaello. Dopo l’esposizione al suo capezzale, è noto che fu sistemata poi sull’altare maggiore di San Pietro in Montorio.
Per quanto concerne l’analisi iconografica dell’opera, a prima vista essa appare suddivisa in una duplice sezione, equivalente alla rappresentazione sovrapposta di due episodi evangelici distinti, riuniti all’interno di un unico quadro, in quanto legati dal punto di vista tematico. Non a caso, entrambi illustrano il racconto tratto dal Vangelo di Matteo. In particolare, l’emisfero superiore della pala mostra con un ampio accento luminoso la Trasfigurazione di Cristo, quindi il mutamento di Gesù circondato da un intenso alone di luce in una sorta di “sospensione” divina, suggerita dalla raffigurazione di una nube biancastra. Con la mano alzata, Cristo si eleva sul monte Tabor dinanzi ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni; ai suoi fianchi immancabile la presenza dei profeti Mosé ed Elia. Come recitano i Vangeli di Matteo e Marco, una voce da una nube, simbolo di Dio, disse di ascoltare Cristo perché era suo Figlio. I discepoli caddero, dunque, a terra impauriti, infatti nel dipinto sono prostrati a terra.
Differentemente, la sezione inferiore della pala d’altare celebra la liberazione di un ragazzo indemoniato: una volta sceso dal monte, il racconto evangelico narra che Cristo abbia guarito un fanciullo epilettico posseduto dal demonio. Raffaello, in questo caso, ha preferito rappresentare in modo dialettico l’episodio, raffigurando a sinistra gli Apostoli e a destra la famiglia dell’indemoniato che sembrano fronteggiarsi apertamente. Eloquente è l’intreccio dei gesti e degli sguardi, che creano un effetto dinamico e vivace all’intera opera, proponendo una varietà di stati d’animo in climax. In un momento precedente, i Vangeli di Matteo e Marco accennano al fallimento degli apostoli nel tentativo di guarire il giovane; infatti, solo dopo la Trasfigurazione di Cristo il fanciullo sarà guarito completamente. C’è da aggiungere, inoltre, che l’indemoniato è l’unico in grado di vedere la Trasfigurazione con l’occhio della mente. Giacomo è creduto erroneamente il salvatore dalla folla, per cui protende il braccio sinistro verso Cristo, ad indicare il vero salvatore. Dal canto suo, l’apostolo seduto in primo piano con le Sacre Scritture invita a riflettere su chi sia veramente il salvatore.
La seguente iconografia risulta particolarmente inconsueta per via dell’accostamento di due differenti episodi del Vangelo, un simile affiancamento non ha precedenti nella storia dell’arte italiana.
Alcuni critici vi hanno letto un messaggio politico antiluterano, nel senso di una lotta tra cattolicesimo (si vedano gli apostoli a sinistra, detentori della giusta fede, che indicano verso Cristo) e luteranesimo, simboleggiato dall’indemoniato e dai suoi familiari.
Interessante è la figura femminile di spalle, che inizialmente doveva essere la madre dell’indemoniato, ma successivamente Raffaello cambiò idea, come si evince da un pentimento dell’artista, che preferì sostituirla con la Maddalena, sorella di Lazzaro, in considerazione del fatto che le sue reliquie erano conservate nella cattedrale di Narbonne.
Anche il registro stilistico presenta una bipolarità, contestualmente alla bipartizione tematica dell’opera. Se la sezione superiore si attesta in un clima calmo e ovattato, dove regna sovrana la simmetria e la luminosità, definita da una luce bianca e centrale, al contrario, il registro inferiore assume un carattere concitato che evidenzia una enfatica gestualità, in un’atmosfera sostanzialmente scura. La scena della liberazione dell’indemoniato è, dunque, dominata da un naturalismo tragico accentuato da un’illuminazione proveniente da sinistra, la quale genera forti contrasti luministici con il risultato di esaltare il movimento dei personaggi, còlti in una grande varietà di stati d’animo.
Tra i caratteri stilistici del capolavoro raffaellesco in esame, figurano tonalità fredde ed effetti di cangiantismo, supportati dall’impianto verticale della tavola, dipinta ad olio.
Tra le molteplici divergenze della critica d’arte, si affermano due linee di pensiero. C’è chi ritiene, come il Vasari, che gli allievi non abbiano messo mano dopo la morte del maestro, mentre altri studiosi ritengono, invece, che piccole parti siano state eseguite dagli allievi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni. Una cosa è certa: la Trasfigurazione fu dipinta in competizione con Sebastiano del Piombo. Per di più, è individuabile l’influenza di Leonardo da Vinci, con un riferimento particolare all’Ultima Cena per l’effetto generale e all’Adorazione dei Magi per lo studio fisionomico del ragazzo indemoniato, per il colloquio degli sguardi ed il linguaggio gestuale.
Tra l’altro, non si può dimenticare che il dipinto ha subìto una lunga e complessa elaborazione, a testimoniarlo numerosi disegni preparatori. A tal proposito è stato rinvenuto un disegno di bottega di Raffaello raffigurante solo la Trasfigurazione; si suppone pertanto che l’episodio dell’indemoniato sia stato inserito in un secondo momento.
In conclusione, la pala d’altare finora esaminata, databile tra il 1518 e il 1520, presenta una gamma cromatica originaria, come ha dimostrato un recente intervento di restauro
di Sabrina Falzone

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