giovedì 24 aprile 2008

L'ecologia profonda

a cura DI D. PICCHIOTTI

L'idea più corrente che viene evocata quando si parla di azione “ecologista”  è che questa consista essenzialmente nel vigilare affinchè il “naturale progresso dell’umanità” avvenga senza inquinamenti e senza modificare troppo l’ambiente, che è considerato bello e quindi “da salvare”. La componente di pensiero sopra accennata è oggi abbastanza presente nell’opinione pubblica e la sua massima diffusione è certamente utile.

Tutto questo non è sufficiente, perché il problema ecologico nasce dall’atteggiamento della cultura dominante, dal pensiero di fondo della civiltà industriale, dal suo inconscio collettivo. E’ un problema filosofico, molto più che un problema pratico o tecnico. Se non si modifica profondamente la visione del mondo, si ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento nel tempo di problemi insolubili.
Perché si cambi una visione del mondo, cioè una cultura, si richiedono di solito tempi dell’ordine di un paio di secoli.
   La nostra civiltà attuale è di per sé una cultura non-ecologica; inoltre:
-   si considera una meta agognata da tutte le civiltà tradizionali, vede i propri pregiudizi come frutto della natura umana e la propria scala di valori come un punto d’arrivo per tutta l’umanità;
-   distrugge le altre culture fagocitandole e imponendo le proprie concezioni di fondo, cioè assimilando a sé ogni varietà culturale;
è in sostanza il processo che sta divorando la Terra: solo la sua fine può risolvere il dramma ecologico. 
Comunque cercherò di evidenziare i guai dell’Occidente solo perché è la cultura dominante e per mettere in luce molte idee di cui non si parla solo perché sono considerate ovvie. Ma non intendo dimostrare che è una cultura “peggiore” delle altre: è una cultura come le tante altre apparse sulla Terra.
 
      Anche se le schematizzazioni sono sempre riduttive, al solo scopo di intendersi più facilmente, adotterò la distinzione del filosofo norvegese Arne Naess, dividendo il pensiero ecologista in due categorie:
 
- l’ecologia di superficie, che ha per scopo la diminuzione degli inquinamenti e la salvezza degli ambienti naturali senza intaccare la visione del mondo della cultura occidentale;
 
- l’ecologia profonda, in cui vengono modificate radicalmente le concezioni filosofiche dominanti dell’Occidente: in questa forma di pensiero si dà un’importanza metafisica alla Natura, superando il concetto restrittivo e fuorviante di “ambiente dell’uomo”.
 
     Una delle obiezioni che viene mossa all’ecologia profonda è che non comporterebbe azioni concrete: è bene evidenziare ancora che le svolte culturali non sembrano concrete solo perché si svolgono su tempi lunghi. Sono però molto più profonde e radicali.
         Non è possibile pensare di salvare il mondo dalla catastrofe ecologica senza analizzare il concetto di sviluppo e senza ricordare che questo concetto è il prodotto di una sola cultura umana in un determinato momento della sua storia.
 
 L’ecologia di superficie
Secondo questa ecologia, in cui si mantiene la distinzione fra “l’uomo” e “l’ambiente”, la Terra va tenuta pulita e piacevole perché è “l’unica che abbiamo”, è “la nostra casa”, è un Pianeta fatto per noi. E’ necessario “difendere l’ambiente” perché l’umanità possa viverci meglio. In sostanza non si intaccano mai le concezioni globali dell’Occidente, il paradigma dominante resta lo stesso. Sia l’ecologia nata dalla problematica dei “limiti dello sviluppo”, sia quella che cerca di tenere “bello” l’ambiente e abitabile la Terra lo fanno soprattutto per il benessere dell’uomo, la cui posizione centrale e particolare non viene minimamente scossa.
Anche l’idea di conservare la Terra in buono stato per le generazioni future attribuisce valore alla Natura soltanto in funzione della nostra specie: l’antropocentrismo non viene messo in discussione.
 
         Il tipo di pensiero qui accennato si è diffuso all’inizio degli anni Settanta con la pubblicazione del famoso rapporto del Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, titolo in cui è già evidente l’impostazione dello studio: lo sviluppo va arrestato lentamente, perché ha dei limiti fisici, oggettivi. Quindi non possiamo fare a meno di fermarlo: occorre frenare per l’uomo, anche se con grande dispiacere.
         Non si intacca alcun principio dell’Occidente, anzi il mondo è considerato un sistema meccanico straordinariamente complesso: la concezione meccanicista non è minimamente messa in dubbio.
         Il rapporto del Club di Roma ebbe sostanzialmente tre grossi pregi:
- di introdurre il problema con un linguaggio scientifico-matematico, che viene di solito abbastanza accettato dagli ambienti ufficiali, anche se soltanto come metodo;
-  di evidenziare l’idea di crescita esponenziale, cioè invitare alla meditazione su cosa significano i fenomeni che hanno un simile andamento nel tempo;
- di richiamare l’attenzione sulla gravità del problema demografico: se non si arresta l’attuale esplosione della popolazione mondiale, ogni altro provvedimento diventa inutile; oggi l’umanità aumenta di un milione di individui ogni quattro giorni.
         A questo proposito à bene ricordare che l’area del mondo più sovrappopolata -anche se non cresce quasi più - è l’Europa, con alte densità e con impatto altissimo, dato l’insostenibile livello di consumo pro-capite dei suoi abitanti.
        
     Una delle politiche dell’ecologia di superficie è quella di tenere isolate alcune aree naturali del Pianeta salvandole dall’invadenza del cosiddetto progresso. Tale pratica, pur non intaccando i fondamenti che causano il dramma ecologico e lasciando a volte il sospetto che fuori da queste aree sia consentito ogni sfruttamento, è comunque da sostenere in ogni modo. Infatti è uno dei modi concreti in tempi brevi per salvare specie ed ecosistemi altrimenti destinati all’estinzione: essi potranno riprendersi nelle aree adatte del Pianeta quando sarà cambiato il paradigma corrente.
     Spesso la finalità pubblicizzata per i Parchi è piuttosto antropocentrica, cioè essi verrebbero creati per il “godimento dell’uomo”, ma questo è l’unico modo - date le premesse della cultura dominante - perché tali Parchi possano essere accettati.
 
         Se portiamo il problema in termini giuridici, nell’ecologia di superficie la natura va protetta perché è “res communitatis” e non è “res nullius”. Resta comunque sempre “res”, si tratta di proprietà, di patrimonio comune, qualcosa da salvaguardare, ma che si può e si deve utilizzare o godere da parte di qualcuno o di tutti. L’uomo è sempre al centro, è il riferimento di tutto, vivente o non vivente.
         Gli ecosistemi, gli animali, le piante hanno valore solo in funzione umana: l’animale o l’ecosistema sono evidentemente considerati “non coscienti” o “non senzienti”. Non si capisce proprio come venga stabilito il confine, o quale sia la caratteristica che fa attribuire la qualifica di “soggetto morale” o “soggetto di diritto”. Se fosse qualunque forma di “intelletto” o di facoltà intelligente, non si capirebbe proprio come vengano assegnati diritti ben precisi (come soggetti) a un pugno di cellule o ai menomati o cerebrolesi gravi, o a persone in coma.         
L’etica religiosa dell’Occidente ha riservato scarsa attenzione ai non-umani, escludendoli da ogni considerazione morale e relegandoli, in quanto privi di anima, nella sfera dei mezzi al servizio dell’uomo. L’ascesa della filosofia dello scientismo tecnologico, che degrada tutto a oggetto, ha ulteriormente peggiorato l’atteggiamento collettivo.
Oggi comunque sappiamo dall’etologia che almeno gli animali provano piacere e dolore e hanno interessi preferenziali: insomma non esistono differenze rilevanti fra umani e altri animali. Anche gli studi di neurobiologia non rivelano differenze qualitative fra le strutture umane e quelle di altri animali. Quindi non ci sono ragioni plausibili per escluderli da considerazioni etiche.
 
         Ogni movimento ecologista che derivi da concezioni marxiste, cattoliche o protestanti rientra nella categoria dell’ecologia di superficie. Tali posizioni sono figlie dell’Occidente, danno grande valore all’uomo e alla “storia” e hanno come mito il “progresso”. Queste concezioni ritengono che l’universale (cioè la “materia” o il “mondo fisico”) sia una specie di orologio che l’uomo, unico essere diverso, può e deve modificare a suo vantaggio.
         Il fatto di ritenere che esista un Orologiaio (il Dio dell’Antico Testamento) oppure che non esista (materialismo) provoca differenze ben poco rilevanti. Con entrambe le posizioni ci si comporta nei confronti della Natura pressochè allo stesso modo. Da una parte si ritiene che il diritto-dovere di modificare il mondo provenga da Dio, dall’altra da una specie di “merito selettivo” che ci ha resi, in sostanza, gli unici detentori di “spirito”; ma gli effetti sono praticamente gli stessi.
         Entrambe le posizioni si ispirano alle concezioni filosofiche del pensatore francese del Seicento René Descartes, comunemente noto con il nome di Cartesio, oltre che all’idea esasperata di dominio dell’uomo sulla Natura, propria del filosofo inglese Bacone, tanto per fare solo qualche esempio.
         Nell’immaginario dell’Occidente, l’Universo è un’enorme, complicatissima Macchina smontabile, con l’optional del Grande Ingegnere.
         Quasi tutti i movimenti ecologisti oggi esistenti, essendo figli della cultura occidentale e della sua concezione del mondo, si ispirano ai princìpi qui accennati: del resto, se così non fosse, probabilmente avrebbero un sèguito numerico minore.
         Questa posizione assomiglia abbastanza all’idea di un organismo visto come “ambiente” delle cellule nervose o di qualsiasi organo considerato come centrale (l’uomo): questo organo, o gruppo di cellule, avrebbe il diritto di modificare il corpo, tenendolo vivo, per trarne vantaggio, cioè per ottenere la sua espansione equilibrata e il suo sviluppo. In sostanza, tutto può continuare come prima, installando filtri e depuratori e salvando qualche isola di Natura in giro per il mondo.
        
         Dall’ecologia di superficie viene anche l’illusione dello “sviluppo sostenibile”, locuzione che ha in sè una contraddizione di termini.
         Invece l’unica conclusione evidente ma che non viene detta perché è intollerabile alla civiltà occidentale è che lo sviluppo non è sostenibile, è un fenomeno impossibile sulla Terra, è incompatibile con il sistema biologico globale.
         Cullarsi nell’illusione che stiamo per scoprire la via dello sviluppo sostenibile può essere pericoloso. E’ invece perfettamente lecito parlare di “modello sostenibile”, intendendosi come tale un sistema che si mantiene in situazione stazionaria, cioè senza alcuna crescita materiale permanente.
 
L’ecologia profonda
         Nell’impostazione di pensiero dell’ecologia profonda, la nostra specie non è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi, come tutti gli elementi del Cosmo, hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore intrinseco e unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente, formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste componenti, uno dei rami dell’albero della Vita.
         Il mondo naturale non è “patrimonio di tutti”, ma è ben di più: è di miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa.
         In questo quadro l’idea occidentale-biblica sulla posizione umana appare più o meno come un curioso delirio di grandezza.
         Mentre nell’ecologia di superficie la Terra va rispettata perché è di tutte le generazioni presenti e future, nell’ecologia profonda la specie umana non è depositaria né proprietaria di alcunchè. Anche l’idea di “progresso” sottintende una determinata concezione culturale ed una certa visione della storia che non sono condivise da tutta l’umanità. Gran parte delle culture umane sono vissute nella Natura senza preoccuparsi del progresso e della storia. Anche se niente è statico, tutto è dinamico e fluttuante, questo non significa che siano necessari i concetti di progresso e regresso: il miglioramento o il peggioramento si riferiscono solo a parametri e valori propri di un particolare modello e non hanno alcun significato universale.
         Nell’ecologia profonda non esiste alcun modello privilegiato. Sono valori “in sé” la situazione stazionaria e la varietà e complessità delle specie viventi, degli ecosistemi e delle culture. I termini “crescita” e “diminuzione” sono complementari, in equilibrio dinamico, senza connotazioni positive o negative.
         Di conseguenza i concetti di risorse e rifiuti non sono necessari: essi presuppongono infatti l’idea che si eseguano processi o modifiche tali da prelevare qualcosa di fisso - le risorse - e scaricare qualcos’altro - i rifiuti, il che significa un funzionamento non-ciclico, incompatibile con la condizione stazionaria e vitale dell’ecosistema.
Con queste premesse la cosiddetta “produzione” è - in ultima analisi - una produzione di rifiuti. Lo stesso termine “civiltà” è inutile e pericoloso, perché sottintende un giudizio di merito basato su una scala di valori particolare. In sostanza nell’ecologia profonda il concetto di “ambiente” viene superato per lasciare posto alla percezione di far parte di una Entità psicofisica molto più vasta, cioè della Natura, che si manifesta nella massima varietà ed armonia, nel più grande equilibrio dinamico delle specie; è un sistema autocorrettivo dotato di Mente.
 
         Nell’ecologia profonda non si tratta di “coniugare sviluppo e ambiente” ma di rendersi conto che il dramma ecologico è nato nella civiltà industriale e ha invaso il mondo al seguito della tumultuosa espansione di questo modello.
         Il problema non è soltanto pratico, ma soprattutto culturale. Infatti, solo come esempio, le scoperte pratiche fondamentali per “far partire” la tecnologia erano già note nella cultura cinese da diversi secoli. Ma in Cina non hanno fatto nascere il processo di industrializzazione, che vi è stato importato solo in tempi molto recenti, di ritorno dall’Occidente. Evidentemente il sottofondo del pensiero cinese - ispirato in gran parte alle filosofie del Tao e del Buddhismo – non poteva indirizzare quelle conoscenze sulla via poi seguita in Europa: le motivazioni sono state quindi essenzialmente culturali. La spiegazione ufficiale che gli Europei erano “più avanti” è solo un giro di parole. Anche la cultura indiana tremila anni orsono aveva concetti probabilmente più raffinati di quella europea del millecinquecento: nell’India di allora non mancava certamente la capacità di fare certe scoperte, c’era però la precisa percezione che era impossibile e inopportuno seguire una certa via.
         Invece il fondamento ispiratore della cultura occidentale, o ebraico-cristiana, è l’Antico Testamento, e qui va ricercata una delle cause del nostro atteggiamento verso la Natura. Ma ci sono state altre evoluzioni successive, soprattutto l’estendersi nel pensiero generale della filosofia di Cartesio e della fisica di Newton, proprio nei secoli che hanno immediatamente preceduto la nascita della civiltà industriale.
         Tutta la nostra cultura “ottocentesca” di oggi è permeata dall’antitesi, dalla contrapposizione con la natura: la vita è vista come “lotta contro le forze della natura”. In altre filosofie questo significherebbe “lotta contro l’Organismo al quale apparteniamo”, il che è privo di senso e causa di nevrosi e conflitti. L’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in contrapposizione all’idea di animale: umanità e animalità vi appaiono come termini antitetici, sia nella concezione biblica che nell’idea scientifica di derivazione baconiana. Ma si tratta di una contrapposizione largamente mitica e scientificamente insostenibile.
        
         Gli studi di un’etica non limitata soltanto alla nostra specie e di una giurisprudenza che non veda gli umani come unici soggetti di diritto sono appena nascenti in questi ultimi anni, a parte isolate eccezioni di precursori.
         Fra questi possiamo certamente ricordare Aldo Leopold che, nel suo A Sand County Almanac affermava che “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità e la bellezza della comunità biotica nel suo complesso. Una cosa è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria”. La concezione di Leopold è olistica, in quanto la Natura è intesa come un tutto, avente vita e valore propri.
         Se sentiamo usare per elementi della Natura termini come anima, dignità, diritti, ambito morale, non dobbiamo pensare che si stia parlando in senso analogico o poetico, o che si tratti di accostamenti arditi.
         “Lo spirito dell’albero, della montagna, del fiume” non sono analogie azzardate, ma rispecchiano l’anima del mondo, che era ben riconosciuta da quelle culture umane che dedicavano gran parte del tempo al magico e al sacro.
         Inoltre, per confronto con le concezioni dell’ecologia di superficie, ricordiamo che rispettare il naturale non-umano solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera del rispetto, che dovrebbe invece fondarsi su una filosofia che riconosca i diritti dei non-umani in quanto entità che ne sono degne.
 
Conclusioni
L’ecologia profonda - come filosofia di vita - non è nata negli anni Settanta dalle idee di Arne Naess o da qualche movimento di minoranza di oggi: da tremila anni in India, e da tempi ancora più lunghi in tante culture animiste, idee ben diverse da quelle che hanno poi foggiato la civiltà occidentale avevano avuto modo di diffondersi nella mente collettiva, come dimostrano questi pensieri, tratti da antichi testi indiani: “Ogni anima va rispettata e per anima si intende ogni ordine, ogni vitalità che la sostanza possa assumere: il vento è un’anima che si imprime nell’aria, il fiume un’anima che prende l’acqua, la fiaccola un’anima nel fuoco, tutto questo non si deve turbare”.
 
Dal libro di Fritjof Capra Il punto di svolta (Ed. Feltrinelli, 1984):
La nuova visione della realtà è una visione ecologica in un senso che va molto oltre le preoccupazioni immediate della protezione dell’ambiente. Per sottolineare questo significato più profondo dell’ecologia, filosofi e scienziati hanno cominciato a fare una distinzione fra “ecologia profonda” e “ambientalismo superficiale”. Mentre l’ambientalismo superficiale è interessato ad un controllo e ad una gestione più efficienti dell’ambiente naturale a beneficio dell’”uomo”, il movimento dell’ecologia profonda riconosce che l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi nella nostra percezione del ruolo degli esseri umani nell’ecosistema planetario. In breve, esso richiederà una nuova base filosofica e religiosa.
                                                                                     (Riassunto dal libro: Guido Dalla Casa - ECOLOGIA PROFONDA -

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