martedì 8 aprile 2008

Keith Haring, profilo grafico e stilistico

a cura DI D. PICCHIOTTI

Keith Haring nasce il 4 maggio 1958 a Reading, in Pennsylvania, da una famiglia di origine anglosassone appartenente alla media borghesia protestante. Dal padre, disegnatore di film d’animazione, eredita una intensa passione per i cartoons e per la lettura e la realizzazione grafica dei fumetti: fin dall’infanzia impara a lasciare correre liberamente la fantasia e ad esprimersi con il disegno più che con le parole.
Nel 1976, dopo essersi diplomato presso il liceo di Kutztown, Haring si iscrive alla Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, un istituto nel quale si insegnano metodi di applicazione commerciale dell’arte. La realtà provinciale di Pittsburgh, però, non lo soddisfa, così come lo lasciano perplesso i limiti della Ivy School, troppo legata al mondo della produzione industriale e alla grafica pubblicitaria. Dopo alcuni mesi, Haring abbandona la scuola e si trasferisce per un breve periodo a San Francisco, città assai più stimolante e culturalmente aperta, nella quale trova il coraggio di riconoscere e vivere pubblicamente la propria omosessualità.
Al suo ritorno a Pittsburgh, Haring continua a sviluppare la sua passione per il disegno e frequenta le lezioni della locale università, pur non iscrivendosi ufficialmente ad alcun corso di laurea. Contemporaneamente lavora in un locale che espone anche oggetti d’arte: proprio in questo locale allestisce la sua prima mostra di disegni.
In questa fase Haring compie da autodidatta intensi studi storico artistici, privilegiando i pittori che gli paiono più vicini alle sue modalità espressive, fantasiose e fortemente caratterizzate in senso grafico. Il giovane artista approfondisce così la conoscenza di Paul Klee, maestro eccelso che con un ferreo controllo dei mezzi espressivi riesce a creare un territorio magico popolato da forme leggere e fantastiche, fresco ed emozionante come un’infanzia ritrovata; studia Mark Tobey, aperto alle suggestioni dello zen, della calligrafia giapponese e delle culture dell’estremo oriente, creatore di una pittura segnica simile a una scrittura dalla forte componente automatica e gestuale; è affascinato da Jackson Pollock, geniale inventore dell’all-over e della pittura gestuale, e dai colori squillanti e dalle forme semplificate usati da Henri Matisse; si entusiasma per l’audacia di Jean Dubuffet, il maestro che esalta la forza espressiva dell’art brut (e cioè dell’arte “incolta”, dei disegni dei bambini e delle creazioni dei pazzi). Inoltre, Haring legge con estrema attenzione i saggi fondamentali di Robert Henri, pittore e critico che teorizza la necessità di una dimensione sociale e pubblica per l’arte contemporanea americana.
Di particolare rilievo per la formazione di Haring è la scoperta di Pierre Alechinsky, alfiere dell’informale europeo che privilegia l’uso dell’inchiostro su carta e persegue un linearismo quasi calligrafico senza rinunciare all’efficacia emotiva della composizione: tali caratteristiche sono le stesse che si riscontrano nella pittura del giovane americano, il quale, proprio come Alechinsky, si avvale in modo pressoché esclusivo della tecnica del disegno su carta.
Nel 1978 Haring abbandona definitivamente Pittsburgh e si trasferisce a New York, dove si iscrive alla School of Visual Art. Nel prestigioso istituto operano alcuni dei più importanti protagonisti dell’arte statunitense degli anni Settanta, quali il concettualista Joseph Kosuth e il poliedrico body artist Vito Acconci, l’artista processuale Keith Sonnier e la coreografa e danzatrice d’avanguardia Simone Forti. Stimolato dagli insegnanti, Haring sperimenta per un breve periodo le tecniche del video e della performance, ma rimane in sostanza fedele al disegno di matrice fumettistica.
Nella Grande Mela Haring non si limita a frequentare il raffinato ambiente accademico della School of Visual Art, ma entra anche in contatto con esperienze differenti. Si confronta con la cultura beat (in particolar modo con William Burroughs), con le esperienze zen di Alan Watts e con Timothy Leary, il profeta dell’LSD e della psichedelia. Riesce a coltivare contemporaneamente interessi eterogenei: si occupa di semiotica, studiando i testi di Roland Barthes e Umberto Eco, e di antropologia culturale, guardando in particolar modo ai geroglifici egizi e alle scritture delle civiltà precolombiane; nel contempo frequenta gli ambienti della musica post-punk e rap e quelli degli artisti “di strada” che popolano la metropoli. Haring scopre così il mondo della graffiti art e sceglie di avvicinarsi a questa forma espressiva, affascinato dalla facilità con la quale in essa si coniugano una evidente semplicità strutturale e una grande efficacia comunicativa. Nel 1980 il giovane artista partecipa con successo all’esposizione Times Square Show, organizzata dal fronte della controcultura giovanile graffitista con l’appoggio di artisti già celebri e di gallerie d’avanguardia; nell’ambiente del graffitismo stringe amicizia soprattutto con Jean Michel Basquiat e con Kenny Scharf.
I moduli espressivi propri della graffiti art si combinano perfettamente con l’idea di arte di Haring, il quale, spinto anche dall’esempio di Christo, decide di confrontarsi con la pittura in spazi pubblici: tra la fine del 1980 e i primi mesi del 1981 comincia a realizzare sistematicamente una serie di disegni con gessetti bianchi sui cartelloni pubblicitari disposti nelle fermate della metropolitana newyorchese. Mette in mostra un repertorio derivato in buona misura dai fumetti e dai cartoni animati, fatto di scene erotiche, bambini “radianti”, dischi volanti, cuori, croci, animali e figure umane a quattro zampe; tutti gli elementi sono realizzati con una linea veloce e continua. I suoi disegni paiono “attivare” le superfici sulle quali compaiono e trasmettono agli spettatori una forte sensazione di energia; le sue sagome dinamiche offrono la sensazione di volersi estendere a dismisura, sull’onda di ritmi insieme eleganti e travolgenti: animati da un arcaico horror vacui, si infittiscono e moltiplicano sullo sfondo come racemi medievali.
Sul finire del 1981 Haring abbandona il supporto cartaceo e inizia a dipingere su tele viniliche, metallo e oggetti di recupero, mosso dalla volontà di sperimentare nuove modalità operative e nuove combinazioni, quasi alchemiche, tra segno, materia pittorica e superficie di fondo.
L’opera di Haring comincia ad attirare l’attenzione dei grandi galleristi, tra i quali spicca Tony Shafrazi, il mercante per eccellenza della graffiti art. Questi sfrutta tutto il carisma e le conoscenze di cui gode all’interno del sistema dell’arte per fare in modo che Haring ottenga molto rapidamente notorietà internazionale e approdi a una consacrazione a livello mondiale. L’obiettivo viene raggiunto nel 1982, in occasione della rassegna Documenta 7 di Kassel, in Germania. Il successo si rivela durevole: nel 1983 Haring partecipa alla Biennale del Whitney Museum di New York e alla Biennale di San Paolo, nel 1984 è protagonista della XLI Biennale di Venezia, nel 1985 prende parte alla Nouvelle Biennale di Parigi.
Raggiunta la celebrità, Haring viene chiamato in molti paesi a realizzare murali, apparati decorativi e vetrine: tra i suoi primi interventi spicca quello portato a termine a Milano, per l’emporio Fiorucci, nel 1983. L’Italia, grazie soprattutto al lavoro della critica Francesca Alinovi, è tra le prime nazioni europee che riconoscono il talento del pittore: nello stesso 1983 i galleristi Salvatore Ala e Lucio Amelio gli propongono vantaggiosi contratti.
La fama di Haring cresce ovunque anche grazie all’abilità propagandistica dell’artista, capace di gestire in modo brillante la sua immagine. A scopo pubblicitario egli si avvale di collaborazioni con stilisti di fama e organizza performance nelle quali dipinge sui corpi di cantanti e di altre celebrità. Nel contesto del processo di autopromozione messo in atto da Haring spicca l’apertura del “Pop-Shop”, un negozio inaugurato a New York nel 1986 che qualche anno più tardi apre una seconda sede a Tokyo. Sul modello di Warhol e della sua “Factory”, Haring mira a propagandare la propria pittura sfruttando tutte le possibilità offerte dalla riproducibilità tecnica: magliette, poster, gadget e calendari decorati con le sue opere conoscono una diffusione planetaria. Per quanto l’aspetto commerciale di tale operazione sia evidente (e in definitiva preponderante), l’artista utilizza il “Pop-Shop” anche per dare visibilità al suo impegno sociale e per accrescere la cassa di risonanza dei messaggi critici che, per mezzo della sua arte, egli intende rivolgere all’umanità.
La gestione attenta della propria immagine e la perfetta integrazione nel sistema dell’arte, infatti, non impediscono a Haring di sviluppare un’opinione negativa e una sincera preoccupazione circa molti aspetti della società contemporanea. In particolare, l’artista manifesta a più riprese il suo timore nei confronti della minaccia nucleare che incombe sull’umanità ed esprime aperta perplessità circa l’eccessiva importanza attribuita al denaro nella società occidentale; inoltre, egli denuncia il rischio della perdita di identità individuale legato al dilagare del mezzo televisivo. Connesse a questi argomenti sono alcune iconografie maturate in buona parte attorno alla metà degli anni Ottanta, come il celebre bambino legato a un televisore da un cordone ombelicale, il fungo atomico e la figura umana con un buco all’altezza dello stomaco.
L’impegno sociale di Haring e le sue preoccupazioni circa il destino della società crescono in modo significativo dopo il 1985: a partire da tale data le sue opere parlano sempre più spesso di violenza, dolore e alienazione. Parallelamente, il suo segno si fa più aggressivo e aggrovigliato. L’evoluzione in senso drammatico dell’arte e della visione del mondo di Haring è legata soprattutto al terrore del pittore per la diffusione dell’AIDS, malattia che in questo periodo colpisce un gran numero di suoi amici. Non è un caso che Haring aderisca a numerose campagne informative contro la diffusione del virus HIV e realizzi dipinti che da un lato invitano all’uso del preservativo, dall’altro condannano la discriminazione dei malati.
Nel 1988 a Haring viene diagosticato l’AIDS; nel medesimo anno muore per overdose l’amico graffitista Jean-Michel Basquiat. L’angoscia che, in seguito a questi eventi, si impadronisce dell’artista si trasmette in modo immediato alla sua opera. L’iconografia si drammatizza e si riempie di draghi che divorano croci, di scheletri e serpenti, di cadaveri e mostri meccanici disegnati con tratto ansioso, quasi criptico; in ogni dipinto si può leggere il tormento della battaglia vana e disperata combattuta contro il progredire del male.
Keith Haring muore a New York nel febbraio 1990. di roberto mottadelli

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