domenica 24 febbraio 2008

Pier Paolo Pasolini e Michelangelo Merisi da Caravaggio

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Pier Paolo Pasolini e Michelangelo Merisi da Caravaggio
Contributi critico-storici e citazioni relative all'articolo Dove l'acqua del Tevero s'insala
Pasolini secondo Federico Zeri

Pasolini era un uomo bifronte: da una parte era affascinante, aveva una voce incredibilmente bella, la voce piu' bella che abbia mai sentito, la voce di un angelo; dall'altra, accanto a questa voce c'erano dei particolari repellenti, le mani per esempio, fredde, sudate, non so, mi faceva una grande impressione toccarle, poi aveva l'aspetto, io l'ho detto altre volte, di una bellissima statua greca in bronzo caduta da un autotreno, sull'autostrada e ammaccata, aveva qualche cosa di ammaccato, di rovinato, pero' era un personaggio incredibilmente... unico, io lo considererei. Io lo avvicino molto alla figura di Caravaggio, anche per la fine. Secondo me c'è una forte affinita' fra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio, perche' in tutt'e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi.
[...] Pasolini ha avuto una sorta di folgorazione, dalla pittura antica, e quando ha approfondito questa sua, diciamo, curiosita' ha trovato che la pittura antica puo' fornire una quantita' enorme di spunti tipologici, formali, che lui ha tutti reinterpretati. Ha guardato poi in modo particolare Rosso e Pontormo perche' erano pittori dei quali avvertiva la sostanza agitata tipica di un periodo di crisi, di transmutazione. Ha avvertito soprattutto in Pontormo il dramma interno dell'artista solitario, incompreso, omosessuale e in Rosso ha capito, non so pero' fino a quale punto, il profondo divario fra le cose che dipingeva e quelle in cui credeva. Secondo me Rosso e' un pittore blasfemo, un pittore non dico ateo, ma per lo meno molto scettico, che prende in giro anche le cose piu' sacre della pittura. Io me ne sono accorto quando ho visto l'Ecce Homo, cioe' il Cristo morto con gli angeli, oggi nel Museo di Boston.
[...] Quella che fosse la religiosita' di Pasolini non l'ho mai capita bene. Debbo dire che Pasolini, a mio avviso, era profondamente cattolico, nel suo intimo; era formato dall'Italia cattolica, quindi aveva un forte senso del peccato, un forte senso della redenzione, un forte senso della liberazione dal peccato e dal senso di colpa. Questo secondo me era Pasolini. Io quando l'ho conosciuto, l'ho incontrato piu' di una volta e ho avuto sempre l'impressione di una persona profondamente toccata dal senso di colpa, agitata, quasi tormentata, lacerata, ecco il vero termine che si addice a Pasolini, lacerata, una persona che voleva essere punita. Poi anche il culto della mamma, che era molto profondo in Pasolini, tant'e' vero che la madre addirittura mi sembra appaia come Madonna in un film che e' Il Vangelo secondo Matteo.
(Tratto dal programma televisivo Pasolini e noi mandato in onda da Canale 5 nel 1995)


Caravaggio e Pasolini: tragici nella vita, realisti nelle opere
Nel numero di aprile-giugno 1970 della rivista «Nuovi Argomenti» (1), Cesare Garboli, ricordando lo scomparso Roberto Longhi, i cui corsi di storia dell’arte avevano appassionato il giovane Pasolini all’università, scrive:
«In modo particolare, è difficile scindere tutta l’esperienza eversiva del Pasolini “romano” degli anni Cinquanta dall’immagine del Caravaggio che ci è stata a più riprese offerta dal Longhi fino alla grande mostra caravaggesca da lui organizzata nel’51. Proprio in quegli anni il Pasolini scendeva dal Nord a Roma, cambiando la giovanile e lirica vena friulana in tragedia, nella direzione del drammatico realismo religioso e plebeo de Le Ceneri di Gramsci, dei Ragazzi di vita e di Una Vita violenta. Testi alla mano, si direbbe che il Pasolini lavorasse allora non allo specchio del Caravaggio, ma allo specchio del Caravaggio "romano" così come ci è stato dipinto dal Longhi: quello, per intenderci, che finge per Maddalena la povera ciociarella tradita, gli sciolti capelli che si asciugano al sole nella stanzetta smobiliata, o quello dei bacchi rifatti su torpidi e assonnati garzoni d’osteria, o quello, infine, della Vergine morta e gonfia a gambe scoperte, come una popolana del rione, a dirla gentilmente, o una mignotta agli ultimi rantoli nella stanzaccia spartita dal tendone. Delle mosse caravaggesche del primo Pasolini, quasi un «amor de loinh» (2), ebbi occasione di parlare al Longhi qualche mese prima che egli morisse. Non volle prendere partito. Ma l’interesse che mostrò alle date, le precisazioni che seguirono, quell’«Oh, guarda!» che si lasciò scappare, mi dicono che la piccola notizia critica lo aveva fatto riflettere».
(1) diretta da Moravia, Carocci e dallo stesso Pasolini
(2) «Amor de loinh», ossia l’innamoramento da lontano, per sentito dire e raccontare, è un motivo tipico, ed ad altissima frequenza, della poesia cortese provenzale e della narrativa cavalleresca dei romanzi arturiani
(3) C. Garboli, Ricordo di Longhi, in «Nuovi Argomenti», aprile-giugno 1970, p.39


Cesari Garboli - come ben sottolinea Enzo Siciliano (4) - è stato il primo a mettere in parallelo «tutta l’esperienza eversiva del Pasolini “romano” col Caravaggio, mediatore Roberto Longhi». Ora, a distanza di tanti anni, Gabriella Sica traccia un ritratto in parallelo dei due artisti, mettendone in evidenza la sorprendente somiglianza (5) nel saggio dal titolo L’artista e la croce. Caravaggio e Pasolini, contenuto nel volume Sia dato credito all’invisibile. Su gentile concessione della Marsilio Editori, «ItaliaLibri» ve ne propone il seguente estratto.
«L’artista e la croce. Caravaggio e Pasolini»
L’accostamento di Pasolini a Caravaggio è senza dubbio spericolato per la distanza che li separa, anche se nell’eterno ritorno delle cose e della poesia una giustificazione in più si può trovare.
[…] Al di là del loro tempo così diverso e lontano, furono entrambi artisti di un tempo di crisi, sul crinale che separa una vecchia era da una nuova sul punto di nascere. Con evidenti e fondamentali differenze: Caravaggio ancora grande classico, l’ultimo straordinario classico della tradizione, come Tasso lo era stato nella poesia; Pasolini poeta novecentesco con il sentimento dell’antico e il senso tragico della modernità, non immune dall’ideologia, ostaggio del suo tempo quando perde la forma e la lingua.
Nella vita furono entrambi grandi interpreti del loro tempo, anche se l’eccellenza assoluta dell’arte caravaggesca non è neppure paragonabile a quella pasoliniana spesso informale e prolissa, senza misura. Entrambi tuttavia furono nella vita figure smisurate rispetto al loro tempo. Artisti entrambi irregolari, se non proprio eretici, dal temperamento irruento e non alieno dallo scandalo, perfino coinvolti in inchieste giudiziarie e perseguitati dalle incomprensioni, alle prese con la «grande guerra santa», come islamici e indù definiscono il percorso interiore e spirituale degli uomini. Perché controcorrente lo furono certamente entrambi, forse anche peccatori, come tante figure bibliche, da Abramo a Mosè. Nei loro visi segnati e nervosi era già segnato un destino.
Li unisce tuttavia quella povera, misteriosa morte consumata su un litorale, davanti all’orizzonte del mare, con l’ultima rivelazione vissuta non in un letto, ma nella natura, loro che avevano avuto come maestra la natura. Non in pace, ma in guerra, perché in guerra si era consumata la loro vita. E tuttavia una morte semplice e reale come la morte di un uomo qualsiasi, un evento molto umano e non tragico, nonostante le tante interpretazioni che ne sono derivate. E neppure emblema o celebrazione di una morte dell’arte, ma soltanto di una vita torturata e intrepida conclusa prima del tempo naturale.
Caravaggio muore non lontano da Roma (6) e in terra toscana, vicino al Mar Tirreno, perseguitato e inseguito come un delinquente, martire come già deve essersi sentito quando si era dipinto così vicino a Orsola che sia avvia la martirio. Ha trentasette anni, come il divino Raffello, poco più dei canonici trentatré anni di Cristo, ma nasce alla vita vera nella memoria degli uomini, come quel raggio di luce che aveva fatto entrare nell’oscurità di una stanza con un senso di redenzione.
Anche Pasolini muore vicino a Roma, davanti allo stesso mare, alla foce del Tevere presso Ostia, nome che sa di agnello sacrificale, dove andavano in un lontano passato le anime salve e dove Agostino aveva perso la madre Monica. Quando Pasolini muore, nel 1975, lui «più moderno d’ogni moderno», sigilla la chiusura di un’epoca e di un secolo, ben prima del reale compimento cronologico. Assiste a tutti i rammodernamenti cruciali della sua epoca: il 1963 nella letteratura, il 1965 nella liturgia ecclesiastica con l’abolizione del latino, il 1968 nella politica; vede la decadenza e il crollo spirituale del mondo conosciuto nell’infanzia e anche lui si adegua e spinge il pedale della protesta che in quel decennio appariva come il primo dovere etico dell’uomo. Entrambi chiudono un’epoca, con la drammaticità che questo comporta. Caravaggio l’epoca classica dell’arte, come qualche anno prima Torquato Tasso, sepolto in cima al Gianicolo, aveva chiuso la grande stagione della poesia italiana. Pasolini chiude l’epoca della modernità e un secolo. E forse per questo furono entrambi sfregiati, perfino nel fisico.
Caravaggio e Pasolini sanno che devono scendere lungo l’Italia, andare dal nord dove sono nati verso il sud, essere sempre più naturali. Vanno a Roma, con lo stesso desiderio di fratellanza con le persone del popolo, con lo stesso furore e disperata vitalità, la stessa fretta di depositare il loro lavoro e di trovare una lingua. Quando Caravaggio arriva a Roma, si sta chiudendo la cupola di san Pietro, il ricordo dell’altro Michelangelo è vivissimo e la città si sta riempiendo di angeli nelle chiese e nelle vie. Le figure d’adolescenti, i garzoni d’osteria e i ragazzi di strada e di vita che incontra tra un’osteria e un ponte, tra uno scontro e una sassaiola, sempre tra San Luigi dei Francesi e Trastevere, sono gli stessi dei quadri. Sono ragazzi belli e gagliardi anche se già minacciati dall’ombra e dalla malattia, come il Fruttaiolo e il San Giovanni Battista, dipinti come fossero veri e non come fossero belli. Sono figure vere, popolane bellissime e donne sfatte del rione, come la Madonna morta e gonfia d’acqua o la stupefacente Madonna davanti alla quale si genuflettono pellegrini miseri che da poco sono arrivati a Roma per il grande Giubileo del 1600, stupiti da quella concretissima visione.
Quando Pasolini arriva a Roma, nel gennaio del 1950, in pieno Giubileo, scopre, accanto alla Roma delle cupole e del Tevere, la Roma delle baracche e dei poveri che parlano in romanesco, con i ragazzi pieni di allegria e di una vita violenta, tra Ponte Mammolo e la Garbatella, ragazzi belli come i giovani caravaggeschi che suonano o che hanno tra le mani cesti di frutta. Allievo di Roberto Longhi, Pasolini, che si traveste cinematograficamente da Giotto, con gli stessi abiti e la fascia bianca sulla fronte, li aveva già visti quei ragazzi nella Fucina di Vulcano dipinta da Velázques, che nel suo soggiorno romano aveva preso dalle borgate romane i suoi modelli.
Tuttavia Roma da sola non li sazia, entrambi cercano il sud greco e mediterraneo, l’Africa e il fondamento di Roma nell’Africa, come altri avevano fatto, a cominciare da Petrarca e poi Rimbaud. Caravaggio scende a Napoli, si ferma nel luogo dove sono accolti poveri e infermi, nel cuore di Spaccanapoli; va verso terre arabe e greche in Sicilia, e si spinge fino a Malta. Pasolini cerca in Africa quello che non trova più nella vecchia Europa e lì sposta anche la rappresentazione delle Orestiadi.
È in Africa che era nata, prima ancora che a Gerusalemme, l’idea egiziana di una vita vera tramite l’assimilazione a un dio sofferente. E le loro opere prendono la direzione del sud mediterraneo, là dove l’umanità è più dimessa e diseredata, dove Roma si è allargata comprendendolo. La redenzione, la luce nell’ombra, forse potranno trovarla laggiù, lontano dal centro.
Il miracoloso percorso di Caravaggio, dall’empirismo nordico all’umanità popolare del sud, non può ripetersi con Pasolini, figlio del suo tempo, che cerca nel sud un mito ancora romantico e improbabile, lontano dal grande e autentico meridione greco caravaggesco.
Tuttavia l’essenza cristologica del loro lavoro è innegabile. La croce è il segno presente nell’opera di entrambi…». (7)
(1) in Vita di Pasolini, Milano, Rizzoli, 1978, p. 159
(2) Somiglianza che – ricorda la Sica - «già era stata azzardata da Federico Zeri». E prima ancora, ricordiamo noi, da Cesare Garboli.
(3) Caravaggio pare sia morto di malaria, «ma qualcuno azzardò ucciso da qualche inseguitore», sulla spiaggia di Porto Ercole, «che apparteneva in quel 1610 allo Stato dei Presidi, appena ai confini dello Stato pontificio da cui il pittore era fuggito, in attesa della grazia e del via libera per Roma».
(4) Gabriella Sica, Sia dato credito all’invisibile. Prose e saggi, Ricerche, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 191-194
Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro
Giovanni Pellegrino, avvocato e senatore della Repubblica, presiede dal 1994 la Commissione Stragi, istituita dal Governo italiano per far luce, o forse più semplicemente dare un senso, ai più oscuri ed efferati episodi della recente storia d'Italia, a partire da quel nefasto 12 dicembre 1969, data in cui una bomba esplodendo all'interno della Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano, uccise 16 persone innocenti. Il senatore Pellegrino, in un libro intervista, scritto con due giornalisti, Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri (Segreto di Stato, La verità da Gladio al caso Moro, Gli struzzi, Torino, Einaudi, 2000) riordina le carte e traccia una bozza della relazione finale, sfiorando anche il «caso» dello scrittore di Casarsa..
D. Oggi, alla luce delle successive inchieste della magistratura e dei nuovi documenti acquisiti dalla Commissione, si può dire che, almeno per quanto riguarda piazza Fontana, tutti i tasselli del disegno sono più o meno al loro posto?
Direi di sì, ma non solo per piazza Fontana. Tutto il periodo tra il 1969 e il 1974, sul piano di una ragionevole ricostruzione storica, è ormai pienamente conosciuto. Tant'è vero che oggi siamo in grado addirittura di distinguere tra le varie fasi della strategia della tensione: tra piazza Fontana e il tentativo di golpe Borghese del 1970, da una parte, e le stragi successive (Peteano, la Questura di Milano, Brescia e l'Italicus), dall'altra.
In uno dei suoi Scritti corsari, pubblicato sul «Corriere della Sera» il 14 novembre 1974, pochi mesi dopo la strage dell'Italicus, Pier Paolo Pasolini affermò di sapere (pur non avendo prove e neppure indizi) che se le stragi del 1969 erano state anticomuniste, quelle del 1974 erano antifasciste. Dal momento che mi pare molto probabile che anche la strage di Brescia sia stata compiuta nel maggio del 1974 da uomini della destra radicale, continuavo a domandarmi che cosa volesse dire Pasolini nel sottolineare la logica antifascista...
D. Oggi ha trovato, finalmente, questa risposta?
Sì, oggi sono in grado di dare una risposta.
Innanzitutto cerchiamo di identificare i diversi obiettivi che avevano i vari protagonisti di quella strategia. L'obiettivo della manovalanza neofascista era quello di provocare allarme, paura, disagio sociale; e quindi di fare in modo che, al dilagare della protesta studentesca e operaia, si reagisse con una risposta d'ordine. Quindi le loro azioni erano funzionali al progetto di un vero e proprio colpo di Stato.
A un secondo livello, diciamo degli «istigatori», probabilmente si pensava, invece, di affidare alla tensione lo stesso ruolo che aveva avuto il «tintinnare delle sciabole» del 1964: favorire, cioè, uno spostamento in senso conservatore dell'asse politico del Paese. [...]
Al terzo livello, quello internazionale, c'erano interessi geopolitici volti a tenere comunque l'Italia in una situazione di tensione, di disordine e di instabilità.
Il tentativo in direzione del colpo di Stato o dell'intentona, durò abbastanza poco, sostanzialmente dagli attentati del 1969 al fallito golpe Borghese. A livello politico, sia interno sia, soprattutto, internazionale si capì che l'Italia non era la Grecia, che da noi non era importabile il regime dei colonnelli, perché sarebbe scoppiata la guerra civile: un prezzo troppo alto da pagare.
Dunque, da quel momento ha inizio una nuova fase, sia pure ovviamente non lineare: quella dello sganciamento dalla manovalanza neofascista. Lentamente, gli uomini della destra radicale sono richiamati all'ordine, si comincia a instillare loro l'idea che un piano golpista non può essere attuato fino in fondo, che è necessario fare un passo indietro. E loro reagiscono. Con una serie di attentati in qualche modo di ritorsione che segneranno la loro fine: li lasceranno fare, probabilmente proprio per poterli liquidare.
D. Era questa dunque l'intuizione di Pasolini?
Sì, secondo me era questa.
D. Era il 1974, come poteva sapere?
Chissà, forse nel mondo degli emarginati romani, che Pasolini frequentava, un monte a volte ai confini con la destra eversiva, qualcuno poteva aver parlato. Di sicuro, fu assassinato esattamente un anno dopo aver scritto quelle parole, il 2 novembre 1975, tre giorni prima che iniziasse il processo per il golpe Borghese...
D. Nonostante l'autore materiale dell'omicidio sia stato arrestato e condannato, su quel caso non si è mai riusciti a fare piena luce. Lei oggi è convinto che uno dei possibili moventi di quell'assassinio possa essere proprio quello che Pasolini sapeva e aveva scritto?
Una cosa è certa: Pasolini era arrivato quasi in tempo reale laddove la Commissione, oggi, è giunta dopo anni e anni di ricerche.

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