lunedì 25 febbraio 2008

L'Informale italiano, pittura di segno e di materia

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

"La condizione dell'informale, storicamente inteso come l'insieme delle ricerche segnico-materiche che occuparono la vicenda artistica degli anni Quaranta e Cinquanta ispirandosi ad una concezione esistenziale e ad un irrepresso moto di adesione nei confronti della "carne del mondo" (..) si colloca quasi in sospensione tra gli stadi della primarietà e dell'ultimità. Una sospensione fitta di spine, senza reti protettive, irta sul ciglio di una scelta totale: l'abbandono di ogni certezza mentale, di qualsiasi referente diretto e immediato, oltre allo scarto di sicurezze progettuali [*].
E su questo baratro, su questa vertigine angosciosa lontana da ogni medietas che Roberto Pasini avvia la rassegna dedicata all'informale italiano - surrogata dalla presenza di oltre una quarantina di artisti - allestita negli spazi della Galleria Niccoli, che con quest'ultimo impegno, dopo le esposizioni dedicate a Forma 1 e al Movimento Arte Concreta, rispettivamente nel 1994 e nel 1996, continua un importante lavoro di rivisitazione ed approfondimento dell'avventura artistica italiana nel secondo dopoguerra. Se affrontare le problematiche connesse ad un fenomeno storicoartistico implica, in primo luogo, collocarlo entro precise coordinate geografiche e temporali - spaziando, nel caso dell'informale, su territori per molti versi opposti e contraddittori, il nuovo ed il vecchio mondo, l'America e l'Europa densa di implicazioni appare anche la ricchezza terminologica che ha accompagnato la nuova poetica. Art autre, informel, tachisme, ma anche action painting o abstract espressionism: una pluralità di significanti, dunque. che si fa spia evidente della molteplicità di significati ad essa sottesi, chiaro segnale di un'articolazione interna non facilmente imbrigliabile, di scelte ed esperienze linguistiche diverse che occupano la scena artistica europea e statunitense tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.
In Italia, ai di là di singole vicende che si pongono in immediata sintonia con la nuova poetica - si pensi ai Burri delle Muffe, dei Catrami e dei Gobbi o al Fontana dei primi Concetti spaziali, entrambi ben documentati in mostra - la ventata informale si può dire pienamente diffusa solo alla metà degli anni Cinquanta. il referente primo dell'esperienza italiana è certamente rappresentato dalla vicenda francese, dalla quale viene mutuato anche quel termine, informel, coniato da Michel Tapié solo nel 1951, appena un anno prima dei suo scritto più importante, Un art autre, risalente al 1952.
L'arte "altra" a cui alludeva Tapié, è l'arte di quegli Otages che Fautrier aveva esposto nei 1945 a Parigi presso la Galleria di René Drouin, seguito a ruota da Wols e da Dubuffet, nel 1946, col ciclo Mirobolus, Macadam & Cie.
Nell'ambito di un esistenzialismo venato di pessimismo ed angoscia di cui sono testimoni Jean PauI Sartre, Maurice Merieau Ponty, Albert Camus, di un vuoto di certezze e di fiducia nella ragione umana conseguenti agli orrori e ai drammi della guerra, la pittura abbandona dunque ogni fine comunicativo e narrativo, ogni banale tentativo di rappresentazione. Ecco allora che la tela si carica di un magma denso di visceralità, il linguaggio si fa materia: plastica, malleabile, corruttibile, esistenza allo stato puro.
E' questa una delle linee che trova affermazione anche nei percorso dell'informale italiano; aII'action, all'hic et nunc immediato e veloce di matrice americana - probabilmente sorretto da un meno pressante senso della storia e del tempo il vecchio continente contrappone l'esistenza, la materia. E non solo. Accanto ad essa, infatti, un'altra sigla espressiva emerge vigorosamente, una grafia segnica insistente, ora ritmica, virtuosistica, ora quasi vorace, che si "srotola" sulla superficie dell'opera con fare invasivo. Com e ovvio, spesso le distinzioni non sono così nette e le due polarità, il segno e la materia, si compenetrano e si affiancano all'interno dei singoli universi poetici.
Ma non si procede solo per polarità. L'allestimento realizzato alla Niccoli testimonia anche un'articolazione di natura geografica di cui si seguono i risvolti e i percorsi: Roma, Milano, Bologna, Torino, Venezia ed il suo entroterra, costituiscono altrettanti momenti di una fenomenologia articolata e mossa che sviluppa autonome specificità.
Così, se da un lato il "ritmo" segnico di cui si diceva riceve particolare evidenza nelle opere degli artisti che gravitano su Roma, da Twombly a Perilli, Novelli, Sanfilippo, Capogrossi, certamente si rivela elemento chiave anche del linguaggio di alcuni artisti di area milanese, basti per tutti il richiamo a Scanavino.
Materia e segno sembrano invece avvinghiarsi nel lavoro di Vedova, accompagnati da una violenza dinamica non priva di drammaticità. Vedova "predilige il segno spezzato, corposo, ictico, più vicino a Kline che non a Pollock, mantenendosi su tonalità nere, luttuose, temporalesche (...). Mentre Tancredi e Deluigi sottraggono corpo al segno, Vedova tende costantemente ad affidarglielo (...) per condensare le proprie energie in una sorta di "guerrapittura" ininterrotta, tra fendenti senza tregua".
Nei torinese Ruggeri la tensione drammatica preferisce invece la via di un'inquietudine interna meno gridata, mentre la pasta materica riacquista corposità e più fumose cromie. Ma l'autonomia linguistica informale, in ambito torinese, annovera anche l'esperienza personalissima di Pinot Gallizio, coi suoi "rotoli di 'pittura industriale', nei quali abbiamo una prima intuizione di pittura-ambiente, concetto diverso da quello più specifico e diretto di arte ambientale come si esprime ad esempio in Fontana".
Al contrario la Padania, nell'analisi di Pasini, appare erede di una visceralità "pansessuale" di cui "Morlotti è il mentore (...): il cosmo non va visto con il telescopio o il microscopio, come nel caso, genericamente parlando, degli spaziali e dei nucleari, ma stretto in una morsa di terra, fango, sudore, sperma".
L'accenno alla Padania non può non richiamare istantaneamente alla memoria il pensiero critico di Francesco Arcangeli, che nel novembre del 1954 pubblica su "Paragone" il saggio Gli ultimi naturalisti. La religione della natura, in cui l"'uno" - cioè l'uomo si contrappone e si raffronta col "due" cioè la natura - è al centro dell'elaborazione del critico bolognese: forse, scorrendo i lavori degli artisti presi in esame in questa sezione, è proprio l'aggancio con la natura che a volte traspare a gettare una luce di speranza, un appiglio che altrove, si pensi per esempio ai già citati Wols e Fautrier, la crisi dei valori consacrata dall'esistenzialismo sembra avere definitivamente scardinato.di Francesca Turchetto

Nessun commento: