domenica 20 gennaio 2008

La musica sull’attività immaginativa dei pittori

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La musica ebbe nei primi anni del Novecento un influsso profondo sull’attività immaginativa dei pittori e fu determinante per la nascita di un’arte, quella astratta, in cui il soggetto non appartiene ormai più alla nostra esperienza visiva. I tentativi di visualizzare forme sonore o strutture musicali contribuirono quindi a scardinare la rappresentazione naturalistica imperante fino all’inizio del secolo scorso.
Prima che Kandinsky e Arnold Schönberg si conoscessero e instaurassero un rapporto di amicizia (dal 1911) fecondo per l’arte di entrambi, Ferruccio Busoni*, musicista di vastissima cultura umanistica, aveva già scritto e pubblicato (nel 1907) un trattatello estetico [Abbozzo di una nuova estetica della musica] destinato a divenire una pietra miliare nella storia della cultura novecentesca. In esso il grande pianista, con la sconcertante, lucida preveggenza del visionario (come Kandinsky, Busoni era attratto dalle scienze occulte), intuì gli sviluppi futuri dell’arte, «persino quello che sarebbe capitato nel secondo dopoguerra, con l’informale, col suono-massa, con la musica elettronica» (Luigi Rognoni). «Colui che sarà nato per creare» - scrisse Busoni nel testo citato - «avrà prima di tutto un compito negativo e di grande responsabilità, quello di liberarsi da tutto ciò che ha appreso e udito per potere, sgomberato il terreno, evocare in sé un raccoglimento intenso e ascetico che lo renda capace di elevarsi di un gradino, di percepire il mondo sonoro interiore e di comunicarlo all’umanità...»
Schönberg, che nel suo Diario berlinese (1912) definì Busoni l’uomo più geniale che avesse mai conosciuto, lesse e annotò con acribia questo testo** e, pur manifestando riserve su alcuni punti, ne fu profondamente influenzato, se, dopo averne suggerito a Kandinsky la lettura con le parole: «Busoni è molto vicino a noi», ebbe a scrivere: «L’arte non è soltanto imitazione della natura esteriore... Al suo livello più alto essa si occupa solo di riprodurre la natura interiore». Dopo il folgorante incontro con la musica di Schönberg, il pittore russo cominciò a intitolare le sue opere con termini desunti dal linguaggio musicale (Composizione - Impressione [nº III, Konzert] - Improvvisazione: «Il suono musicale ha diretto accesso all’anima, dove trova subito una risonanza poiché l’uomo ha musica in se stesso... L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, la fa vibrare... La musica di Schönberg ci introduce in un nuovo regno, dove le esperienze musicali non sono acustiche bensì puramente psichiche: qui ha inizio la musica del futuro.»
Kandinsky** è uno dei precursori della non-forma degli anni Quaranta e Cinquanta. L’Acquerello astratto [****] del 1910 è infatti considerato la prima pittura astratta dell’arte moderna. Il suo linguaggio pittorico si manifesterà da questo momento con segni fluttuanti, punti, forme pure, ritmi di linee e con macchie di colore, posti in relazione tra loro come il ritmo, il contrappunto e il timbro in ambito musicale (cfr. catalogo pp. 42-43). Il distacco della pittura dalla sua funzione mimetica era ormai compiuto e fu teorizzato nel fondamentale saggio Sullo spirituale nell’arte, pure redatto nel 1910, dove per l’appunto Kandinsky attribuiva un valore assoluto al «suono interiore» dei colori e delle forme (evidente anche l’influsso del pensiero teosofico di Rudolf Steiner), che riteneva essenziali per raggiungere le fonti più riposte e segrete dell’emozione e della spiritualità.
Altro precursore fu Paul Klee, ottimo musicista (suonava il violino), in contatto con Busoni e legato a Kandinsky da profonda amicizia. Anche per Klee il principio della «necessità interiore» era predominante, sebbene la sua ricerca si differenziasse da quella dell’amico russo: egli infatti era convinto di poter afferrare il senso della natura, esprimendolo attraverso simboli, allegorie, analogie: «L’oggetto della pittura è il mondo, anche se non questo mondo visibile». Compito dell’artista non è quindi di imitare la natura ma di penetrarne la realtà fenomenica per scoprire «l’immagine essenziale della creazione». La sua pittura non raggiunse mai l’astrazione assoluta e Klee ne era ben consapevole se, con lucidità folgorante, ebbe a dichiarare: «Io sono astratto con qualche ricordo». Riflettendo sulle potenzialità espressive autonome del colore pervenne a uno stile personalissimo che esercitò ed esercita tuttora un influsso potente sull’arte pittorica: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno: sono pittore» - scrisse nel 1914.
Infine l’ardita sperimentazione di Enrico Prampolini [II]ha senza alcun dubbio influito sull’informale italiano: a esempio, il suo polimaterismo è, secondo Calvesi, una componente importante del materismo e della spazialità di Alberto Burri.
 PITTORI DELLA NON-FORMA
 Un sentimento di solitudine e di disperazione, una profonda sfiducia nei valori tradizionali della razionalità e della conoscenza, un vuoto di certezze, un esistenzialismo pessimistico e angoscioso furono le drammatiche conseguenze degli orrori del secondo conflitto mondiale. In tale contesto, la pittura abbandona ogni tentativo di rappresentazione della realtà, ogni fine comunicativo o narrativo. I tradizionali elementi di espressione (colori, linee, figure...) perdono il loro significato originario e il rifiuto della ragione porta inevitabilmente al rifiuto della forma intesa appunto come organizzazione razionale.
La tela può divenire allora una sorta di magma denso di emozioni, turbamenti, angosce in cui la materia (che può essere di qualsiasi genere, corruttibile o incorruttibile: carta, vetro, legno, stoffa, plastica, sabbia, catrame, juta...) diventa linguaggio e si identifica con l’opera stessa: «L’arte deve nascere dal materiale» - scrisse Jean Dubuffet, uno degli artisti della non-forma più perspicaci - «e deve mantenere la traccia dello strumento... Ogni materiale ha il proprio linguaggio».
Alla disarmonia esistenziale corrisponde la disarmonia della materia informe, in cui il pittore trova rifugio e di cui esplora tutte le possibilità espressive. A questo proposito, di straordinario impatto emotivo il capolavoro di Alberto Burri Sacco nero e rosso, («Nel sacco» - annotò il pittore - «trovo quella perfetta aderenza tra tono, materia e idea che nel colore sarebbe impossibile»). L’agghiacciante inserimento di un rosso acceso nella materia lacerata sembra una ferita aperta e sanguinante, un simbolo di decadimento e di morte. Nelle due tele di Emilio Vedova esposte a Lugano, materia e segno sembrano avvinghiati in una violenza ritmica e gestuale, resa drammatica da scelte cromatiche cupe e luttuose. Anche Ohne Titel di Wols esprime una intensa drammaticità, un dolore lacerante che sembrano ancora rievocare emozionalmente (si noti la macchia rossa lievemente scentrata sulla sinistra) la terribile esperienza dell’internamento dell’artista in un capo di concentramento nazista nel ’39. Opere, queste e altre esposte a Lugano, di «personalità dilaniate e scomposte», addirittura «disintegrate e schizoidi», come ebbe a scrivere Gillo Dorfles, «succubi di un’angoscia esistenziale e cosmica».
Nei due dipinti di Mark Rothko il colore esprime per contro serenità: con l’impiego di nude superfici cromatiche dalla luminosità eterea, Rothko riesce a trasmettere una tale suggestione emotiva da attirare lo spettatore quasi con effetto ipnotico. Il colore rosso, predominante in Blue on Red e fondamentale nella sua opera pittorica, sprigiona una intensa forza spirituale, assurgendo a simbolo della vita stessa, come ebbe a dichiarare il pittore. Una pregnante, veemente antitesi rispetto al dipinto citato di Burri.
Ma la tela può contenere anche un intrico di segni, spesso di elementare semplicità come a esempio nelle opere di Giuseppe Capogrossi. che sembra ispirarsi a Klee, di Charles Rollier****, Lenz Klotz, di Hans Hartung oppure elementi figurativi volutamente naïf (Jean Dubuffet, Arshile Gorky, Jean Fautrier, Wols.


DIFFIDENZA E LIBERTÀ DEL FRUITORE

Dubuffet era ben consapevole del fatto che le persone interessate all’arte potessero allarmarsi di fronte a opere in cui è difficile distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è, in cui lo spettatore non può più «aggrapparsi» all’oggetto, alla figura o seguire una narrazione. Paradossalmente proprio in questo genere di opere che non di rado rendono perplessi i fruitori non specialisti è l’artista stesso che lascia loro la più ampia libertà di «esecuzione», per usare un termine che, secondo Umberto Eco, può riassumere quelli di «visione-lettura-interpretazione». Dubuffet dichiarava spesso che il quadro deve essere «rifatto dal pensiero dello spettatore»: l’esecuzione può essere quindi libera e del tutto soggettiva: essendo l’opera d’arte «un infinito raccolto in una definitezza» (questo lapidario ossimoro è del filosofo Luigi Pareyson), essa è aperta a infinite esecuzioni e ogni esecuzione, che può anche permanere tacita, privata, senza sbocchi nel discorso o nella scrittura, la fa rivivere secondo una prospettiva e un gusto personali.


MORTE DELLA FORMA?

Se nelle Texturologies di Jean Dubuffet*** o nei Sacchi di Burri è la materia stessa ad essere rappresentata con la forza vitale che da essa scaturisce, è però il quadro che, scrive Umberto Eco nel fondamentale trattato «Opera aperta», «organizza questa materia bruta» e la «delimita come campo di suggestioni possibili»; i segni che risultano sulla tela «per liberi e casuali che fossero, sono tuttavia frutto di una intenzione, e quindi un’opera», in cui il fruitore, coinvolto come mai prima di allora, assume come detto un ruolo importante.
Anche quando Jackson Pollock si affidava al caso, facendo uso della tecnica del dripping (muovendosi sulla tela distesa sul pavimento lasciava gocciolare smalto opaco o vernici industriali all’alluminio [cfr. Black and Silver II), non decretava affatto la morte della forma ma ne allargava il significato. E questo perché il segno sulla tela, anche se si è formato casualmente, è comunque «guidato» dal gesto del pittore; un gesto inteso come impeto di vitalità interiore che si comunica per mezzo delle vibrazioni della mano che rovescia la «materia». Si tratta di una pittura, conclude Eco, «che ha la libertà della natura, ma una natura nei cui segni possiamo riconoscere la mano del creatore.»
Questo tipo di approccio alla pittura era una decisa ribellione alle rigorose forme astratte e geometriche degli anni Venti e Trenta.
Lo stesso discorso vale per i fori (e i tagli!) praticati nella tela da Lucio Fontana, gesto informale che secondo il pittore, conduce a «una dimensione al di là del quadro», alla «libertà di concepire l’arte attraverso qualunque mezzo, attraverso qualunque forma».
«Al di là del quadro...» Come non ricordare in conclusione le profetiche parole che Umberto Boccioni scrisse attorno al 1911: «Usciamo dalla pittura? [...] Non lo so. Non vi sarà mai abbastanza audacia per uscire dalla ferrea legge dell’arte, che ognuno esercita. Verrà un tempo forse in cui il quadro non basterà più. La sua immobilità, i suoi mezzi infantili saranno un anacronismo nel movimento vertiginoso della vita umana! Altri valori sorgeranno, altre valutazioni, altre sensibilità di cui noi non concepiamo l’audacia... L’occhio umano percepirà il colore come emozione in sé. I colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi e le forme vivranno per se stesse al di fuori degli oggetti che le esprimono. Le opere pittoriche saranno forse vorticose architetture sonore e odorose di enormi gas colorati, che sulla scena di un libero orizzonte elettrizzeranno l’anima complessa di esseri nuovi che non possiamo oggi concepire. Usciamo forse dai concetti tradizionali di pittura e scultura che imperano da quando il mondo ha una storia? Giungiamo alla distruzione dell’arte come è stata intesa fino ad oggi? Forse! Non lo so! Non importa saperlo! L’essenziale è marciare in avanti!...»



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