venerdì 24 ottobre 2008

L’omosessualità nel Medioevo italiano

A CURA DI D. PICCHIOTTI
La tradizionale tolleranza, ed in alcuni casi compiacenza, del mondo antico verso le pratiche omosessuali non sopravvisse alla caduta dell’Impero di Roma.
Già nel 533 dc l’imperatore bizantino Giustiniano, in una legge del suo Codex, equiparava tutte le relazioni tra uomini all’adulterio, punibile con la pena capitale.
Non andava meglio agli omosessuali spagnoli. Nelle Leges Visigothorum del VII secolo una legge condannava chi commetteva atti omosessuali alla castrazione. Anche l’episcopato spagnolo, che in un primo tempo non aveva voluto recepire questa normativa, sotto diretto ordine della monarchia visigota emise un decreto conciliare che puniva sia gli ecclesiastici che i laici colpevoli di atti sodomitici: i primi con la scomunica e l’esilio, i secondi con cento frustate e l’esilio. Sempre meglio, comunque, della castrazione.
Dopo un periodo di silenzio si ritrovano norme contro i sodomiti nelle leggi approvate da Carlo Magno. Con un editto esortava gli ecclesiastici «a cercare con ogni mezzo di impedire e sradicare questo male»; l’editto, tuttavia, aveva un carattere esortativo, non punitivo, era una specie di ammonizione ecclesiastica.
Questo atteggiamento altomedievale abbastanza tollerante, a parte alcuni casi particolari (i visigoti in Spagna), mutuò col trascorrere del tempo, fino ad arrivare ad una aperta ostilità e alla creazione di una normativa repressiva ad hoc.
Il cambio di questa mentalità ci è ben testimoniato dall’opera del monaco Pier Damiani, ardente promotore dell’attività riformatrice dei pontefici nell’XI secolo. Nel Liber Gomorrhianus, composto nel 1049 dc, affronta in modo sistematico il problema dell’omosessualità in ambito ecclesiastico, col proposito di risanarne i costumi. Il monaco attacca il vizio contro natura dilagante «in nostris partibus», analizzandone le tipologie comportamentali e le situazioni in cui vengono compiute. L’unica soluzione per risolvere l’annoso problema era l’immediata degradazione del reo, a qualunque grado gerarchico appartenesse, poiché riteneva «completamente assurdo che quelli che si macchiano con questa malattia purulenta osino entrare nell’ordine o rimangano nel loro grado (…) perché è contrario alla ragione e alle sanzioni canoniche dei Padri».
Col progressivo cambio della mentalità cambiarono anche le attitudini dei legislatori nei confronti del «nefandum vitium sodomiae», soprattutto nel periodo delle autonomie comunali (in Italia, ma non solo)
I primi ad occuparsi di questo problema furono gli estensori degli Statuti di Bologna del 1257. Una rubrica statutaria, riguardante la «Societas sancte Marie», esortava gli aderenti a tale società a denunciare, oltre agli eretici, anche i sodomiti, puniti con l’esilio; bando che non poteva essere revocato da successivi decreti. In un’altra rubrica, inoltre, si ordinava di bruciare chiunque ospitasse «in domo sua (…) aliquos sodomittos». In questa normativa già si prevedeva la pena di morte per combustione, anche se non era rivolta verso chi compiva atti “nefandi” (come accadrà nel secolo seguente), ma verso chi li ospitava nella propria dimora (e, verosimilmente, verso i ruffiani che approfittavano della situazione per guadagnarci su).
La Constitutio senese (1262-1270 dc) condannava chiunque «detestabile crimen sogdomiticum fecerit» ad una pena pecuniaria di 300 lire; in caso di inadempienza il reo sarebbe stato impiccato per i genitali. La stessa punizione era prevista «contra lenones», contro i ruffiani e quanti avessero facilitato questo crimine.
La prima testimonianza che parla esplicitamente di un rogo per «vicium sogdomiticum» si trova in una raccolta annalistica svizzera, gli Annales basileense. Nel 1277 a Basilea l’imperatore Rodolfo fece bruciare sul rogo tal «dominum Haspiperch», accusato di sodomia.
Che, nel XIII secolo, il rogo fosse una punizione più diffusa oltralpe ci è testimoniato da una consuetudine giuridica di Clermont, nella regione francese di Beauvais. In questa «consuetudo» si equiparava la sodomia all’eresia, e chiunque si fosse reso colpevoli di questi peccati «doit estre ars», doveva essere bruciato vivo.
In Italia la prima attestazione dell’uso del fuoco per punire i peccatori “contro natura” risale al 1293. In quell’anno, a Perugina, Carlo II d’Angiò, in viaggio col figlio Carlo Martello verso la corte papale di Roma, fece arrestare il conte di Acerra, verso cui provava aperta ostilità. Accusatolo di essere un sodomita (un’accusa, verosimilmente, infondata), lo fece impalare e «come un pollo il fece arrostire». In questo caso il rogo è abbinato al supplizio del palo, non è ancora considerato il metodo migliore per punire chi si macchiava del crimine “contro natura”.
Proprio negli ultimi decenni del XIII secolo vi fu, in particolare nelle «scholae» bolognesi, una riscoperta del Diritto Romano, col recupero della pena tardoromana del rogo, caduta in disuso dopo il crollo dell’Impero.
Dal XIV secolo, infatti, tutte le rubriche statutarie sull’argomento comminavano ai rei al pena di morte sul rogo. Già nel 1312 gli Statuti di Collalto (TV) condannavano chi «commiserit nefandum vitium sodomie cum masculo» ad essere bruciato, mentre il passivo era punito ad arbitrio del Conte.
Un caso a sé la normativa statutaria di Firenze. La rubrica «De pungendo sodomitis», elaborata dal notaio ser Giovanni di Lapo Bonamici nel 1325, utilizzava l’idea del “contrappasso”, ossia la castrazione per i rei. Nel caso il crimine fosse stato commesso con un minore di quattordici anni era prevista un’ulteriore pena di natura pecuniaria, a discrezione del giudice. Nel caso il crimine diventasse abituale, il colpevole era condannato ad una pena pecuniaria di 500 fiorini e al taglio della mano destra. Solo nel caso dei “trapassi”, i forestieri che si fermavano a Firenze e vi commettevano atti sodomitici, era prevista la massima pena, essere bruciati vivi. Per favorire la delazione era promessa, come ricompensa, la metà dell’ammenda inflitta al colpevole. Era, inoltre, attuata una forte censura, con la pena di 10 fiorini per chiunque alludesse “all’amor greco” in canzoni, poesie e sonetti popolari.
Solo con i nuovi statuti del 1365 il Podestà emise nuove disposizioni, con la pena di morte sul rogo per i colpevoli di sodomia, sia attivi che passivi, colpevoli di aver commesso violenza contro Dio e contro la Natura. Una ulteriore novità apportata alla legislatura precedente fu l’introduzione, per la prima volta in Toscana, della prativa della tortura per garantirsi una confessione.
La normativa statutaria della città di Padova, del 1329, puniva chiunque avesse l’ardire di “contaminare” contro natura «mulierem vel masculum», ossia uomini e donne, tramite la morte sul rogo. In questo caso la norma era rivolta non solo contro l’omosessualità, ma conto tutti gli atti sessuali contrari alla morale cristiana. Inoltre chi era stato “contaminato” doveva essere giudicato dal Podestà e dalla sua «Curiae», tenendo ben presente le possibili attenuanti, considerando cioè la «qualitate delicti & Persona & aetate sua».
Anche gli Statuti di Carpi (1353), della comunità del Lago di Garda (1351-1386) e di Gemona (1387) prescrivevano al pena di morte tramite il rogo per chiunque avesse commesso «scelus contra naturam». Le ultime due raccolte statutarie, inoltre, prevedevano che la «famiglia domini Potestatis», ossia i funzionari podestarili, se ne andassero dal luogo dell’esecuzione solo dopo essersi assicurati che il reo fosse spirato sul rogo.
Più articolata la «rubrica de Sodomitis» dello Statuto di Tortona, composto nel 1351. La pena per chi «cum maculo aliquo nefandem libidinem execuerit» era la stessa, però i sodomiti con età inferiore ai 18 anni erano puniti ad arbitrio del Rettore con sanzioni pecuniarie e corporali. Chi aveva subito la “violenza”, sia maggiorenne che minorenne, non doveva subire alcuna pena..Nel caso fosse stato consenziente si doveva applicare la sopraccitata norma, ossia rogo per i maggiorenni e punizioni corporali e sanzioni pecuniarie per i minorenni.
Il cambio di mentalità dei legislatori comunali si avverte chiaramente confrontando lo statuto di Bologna del 1389 con quello del secolo precedente. La pena per chi favoriva questo «scelus» era la stessa, ma chi infrangeva la legge era adesso condannato al rogo e non più all’esilio perpetuo.
Anche nella vicina Rimini nel 1397, sotto la signoria di Carlo I Malatesta, i legislatori locali emanarono delle norme punitive per chiunque fosse sorpreso a «cometere el nefandissimo peccado de la luxuria contra Natura e alcun vicio sodomiticho». La persona riconosciuta colpevole di tali atti, poiché provocava un «grandissimo despiaxere al nostro signore Dio», era condannato ad essere «burxado publicamente in la piaza de quello luogo, dove igli commeterà quisti delicti».
Nel XV secolo sembra decadere la differenziazione tra atti sodomitici compiuti con uomini o con donne, come già si è sopra visto nel caso dello statuto padovano del 1329. Già nel 1402 gli estensori dello statuto di Adria punivano col rogo «qui mulierem vel masculo poluerit contra naturam». Anche gli statuti di Feltre (1404 ca.), Vicenza (1425), Caneda (1476) e Brescia (1486) prevedevano che chi avesse contaminato contro natura un uomo o una donna «comburatur igne». Lo statuto della «Communitas Vallis Camonicae» del 1498 puniva indistintamente la sodomia, se compiuta da una persona di almeno sedici anni, con il rogo, in contumacia se il reo riusciva a scappare.
A Pordenone, invece, il rogo era riservato a chi copulava in modo sodomitici con un maschio, e solo con quello, «propter quod insurgunt leges et armantur iura». La stessa pena era prevista, inoltre, per chi avesse avuto rapporti sessuali «cum brutis animalibus».
Agli inizi del Quattrocento Venezia fu scossa dall’indagine contro la sodomia condotta dai Signori della Notte, una magistratura della repubblica. Lo scandalo fu enorme, e coinvolse persino alcuni nobili veneziani, imparentati con alcune alte cariche della Serenissima repubblica. Il caso venne insabbiato e il reato di sodomia fu avocato al Consiglio dei Dieci che, nel 1455, emise una legge che puniva questo «pessimo morbo», che provocava «super nos iram domini nostri Dei». Soprattutto dovevano essere costantemente monitorate le taverne, luoghi in cui avvenivano gli incontri illeciti, in particolare con la partecipazione di giovanetti.
Ad Orvieto gli ufficiali papali era tenuti a indagare contro i sodomiti che al tempo del loro mandato, o nell’anno precedente, avessero commesso il reato di omosessualità, o fossero stati accusati di ciò. La pena prevista per i colpevoli, sia attivi che passivi, era la morte sul rogo, tranne per i «pueris» al di sotto dei quattordici anni, puniti con una multa di 25 lire in caso fossero stati capaci di intendere e di volere. La maggior severità nei confronti dell’omosessualità è provata dalla rubrica dello statuto orvietano che puniva i ruffiani. Se qualcuno si comportava da ruffiano in un adulterio, un incesto o una violenza di una «mulieribus honestis bonae vitae et famae» era condannato a pagare una multa di 100 lire, fustigato sulle nude carni attraverso la città ed esiliato in «perpetuo». Ma nel caso avesse favorito il «vitium sodomiae», oltre alla fustigazione e all’esilio, sarebbe stato condannato al pagamento di una multa di 200 lire, il doppio previsto per una donna d’onesta virtù.
Il problema dell’omosessualità fu affrontato anche dalla normativa signorile. Già abbiamo visto come reagirono le istituzioni veneziane di fronte al problema, con l’istituzione di una apposita magistratura.
Anche nella Firenze medicea, a seguito di un caso particolarmente scabroso che aveva colpito l’opinione pubblica, venne istituita una nuova magistratura per far rispettare le norme contro l’omosessualità. Nel 1426 il bolognese Piero Di Giacomo violentò un bambino del quartiere di San Lorenzo, che morì per le emorragie interne provocategli dalla violenza. Il processo a Piero Di Giacomo terminò con la sua morte sul rogo e con la promulgazione di una legge negli Statuta Communis Florentiae, circa tre anni dopo, che istituiva il corpo degli Ufficiali di Notte. Il nuovo organo comunale doveva «diligentem inquirere et investigare et se informare», ossia doveva agire tramite investigazioni poliziesche e delazioni segrete. Le pene previste dalla nuova legislazione, però, non erano dure come voleva una parte dell’opinione pubblica. Chi fosse stato dichiarato colpevole avrebbe dovuto pagare una penale di 50 fiorini, il doppio in caso di prima recidività, il quadruplo la seconda recidività e 500 fiorini la terza. Solo alla quarta recidività era previsto il rogo pubblico.
Nel 1447 il signore di Milano, Francesco Sforza, emise un bando contro gli omosessuali. I legislatori meneghini consideravano l’omosessualità alla stregua di un contagio, e questo bando cercava di porre freno a questo «execrabile» vizio, tramite la pubblica delazione dei peccatori, contro cui era prevista la pena di morte sul rogo.Il premio per i delatori, la cui identità doveva rimanere segreta, era di 10 ducati d’oro; però questi ultimi dovevano portare delle prove convincenti a sostegno delle loro accuse, una norma piuttosto garantisti per l’epoca. Il compito di raccogliere queste denuncie era affidato al capitano di giustizia di Milano, il signor Bartolomeo Caccia.
Le autorità veneziane, per cancellare il «nefandissimum et horendum vitium et crimen sodomie in hac civitate», promulgarono nel 1496 una legge che obbligava «barbitonsur sive medici aut alii» che curavano ragazzi o donne vittime di sodomia a denunciare questi fatti al Consiglio dei Dieci, pena il pagamento di una multa di 500 lire di denari piccoli e la reclusione per sei mesi, oltre all’interdizione dall’esercizio dell’attività medica in Venezia.
Dall’intolleranza malcelata nei confronti dell’omosessualità che caratterizzò il periodo altomedievale si passò, nel Basso Medioevo, all’aperta ostilità, supportata dalla legislazione e dalla morale cattolica. Le prediche contro l’omosessualità di parte del clero avevano avuto l’effetto di far emergere il problema del vizio contro natura, e quindi contro Dio stesso, facendo si che queste preoccupazioni coinvolgessero anche la sfera legislativa, prima dei Comuni e poi delle Signorie. L’esito, abbastanza scontato, fu la persecuzione degli omosessuali e di coloro che commettevano il vizio sodomitico, anche con donne; persecuzione che accomunava gli omosessuali agli infedeli e agli eretici, ossia a coloro che erano ritenuti al di fuori della morale ortodossa cristiana. Persecuzione che, in alcuni casi, continua tutt’oggi e che, fino a poco tempo fa, era prassi corrente nella maggior parte delle nazioni del mondo. Basti pensare al fatto che in alcuni stati degli USA la sodomia è ancora considerata reato.
Bibliografia consigliata
J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo, trad. a c. di E. Lauzi, Milano 1989.
R. Canosa, Storia di una grande paura: la sodomia a Firenze e a Venezia ne

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