a cura DI D. PICCHIOTTI
Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) fu autore, oltre che di romanzi filosofici, di Lettere sulla dottrina di Spinoza al Signor Mosè Mendelssohn (1785), David Hume, Dialogo sulla fede, o idealismo e realismo (1787), Lettera a Fichte (1799), Il tentativo del criticismo di ridurre la ragione ad intelletto (1801), e di Le cose divine e la loro rivelazione (1811).
Fu uno dei piú radicali critici dell'illuminismo francese. Ne rifiutò soprattutto il concetto astratto di «ragione» - cioè la sua riduzione a puro strumento di connessione dei contenuti di pensiero - e la svalutazione del «sentimento» - che per lui invece è organo rivelativo di verità immediate -. L'assolutizzazione della ragione ha condotto, come ad estrema conseguenza, alla filosofia materialistica e meccanicistica; cosí si sono minate, a suo avviso, le stesse basi della vita etica, in quanto, concependo l'uomo chiuso in un sistema rigoroso di cause ed effetti, si è finito col negarne la libertà e, quindi, col pregiudicarne la possibilità di una vita virtuosa infatti, come può definirsi virtuosa un'azione concepita come risultato meccanicamente determinato da certe precise condizioni?
A tale concezione meccanicistica e deterministica del comportamento umano sembrava, a suo giudizio, condurre anche la visione filosofica di Spinoza, anch'essa fondata sulla assolutizzazione della ragione; l'uomo, momento particolare della manifestazione di Dio - unica Sostanza - non poteva godere di una vita autonoma, indipendente, guidata dalla propria volontà; il sistema spinoziano, dunque, nega la libertà dell'uomo, e cosí nega - malgrado le buone intenzioni - ogni possibilità di vita etica.
Questa valutazione negativa dello spinozismo Jacobi difese con tenacia, ma conseguí effetti opposti a quelli ch'egli sperava. Egli, anzi, fu l'origine di quella «discussione su Spinoza» che agitò l'ambiente culturale tedesco a lui contemporaneo; fu lui l'artefice involontario della «rinascita spinoziana». Infatti, provocato dal filosofo M. MENDELSSON, che dubitava che Jacobi avesse inteso correttamente l'affermazione con cui G.E. LESSING si dichiarava «spinoziano» e lo invitava a chiarire che cosa fosse per lui lo spinozismo, egli enunciò - in modo straordinariamente chiaro ed organico - i temi di fondo della filosofia di Spinoza in un'opera che costituí lo spunto di un vivace dibattito pubblico che sortí l'effetto - non voluto né previsto da Jacobi - di risvegliare simpatie ed entusiasmi per lo spinozismo.
Dunque, contro l'assolutizzazione della ragione - operata dall'Illuminismo e dallo spinozismo - Jacobi rivendica i diritti e la funzione del sentimento, e, in particolare, della fede. Tutta la vita umana, anche a livello di atti comuni e quotidiani, è basata sulla fede, ossia sull'accettazione di verità non dimostrate né dimostrabili ma immediatamente evidenti.
L'elemento di ogni conoscenza ed attività umana è la fede. Nasciamo tutti nella fede e dobbiamo rimanere per forza nella fede, proprio come nasciamo tutti nella società e dobbiamo rimanere per forza nella società.
(Lettere sulla dottrina di Spinoza)
Qual è, allora, la funzione della ragione?
Due sono, per Jacobi, gli strumenti della conoscenza: i sensi e la ragione. I sensi ci offrono dati sensibili. La ragione - che è ciò che distingue l'uomo dalla bestia - non è la facoltà logica, la capacità di «riflettere» connettendo esperienze e concetti, bensí è il campo in cui avviene la «rivelazione del soprasensibile»; ossia è l'organo per conoscere Dio, la libertà, la virtù, la verità, la bellezza, la bontà.
In ogni essere finito e sensibile... la ragione non è altro che il senso del sovrasensibile.
(Sulle cose divine e la loro rivelazione)
Sicché l'intuizione sensibile e l'intuizione razionale hanno in comune il fatto d'essere conoscenze immediate, in quanto i loro rispettivi contenuti si presentano alla coscienza come immediatamente evidenti. Entrambe sono quindi fondate sulla fede.
Come la realtà che si manifesta ai sensi esterni non ha bisogno di alcuna garanzia, perché essa è la piú efficace testimone della propria verità, cosí non ha neppure bisogno di garanzie quella realtà che si rivela a quel senso profondamente interiore che noi chiamiamo ragione, anche questa realtà è l'unica e piú efficace testimone della propria verità. Necessariamente l'uomo crede ai suoi sensi e necessariamente crede alla sua ragione, e non c'è nessuna certezza superiore alla certezza di questa fede.
(David Hume, dialogo sulla fede)
La facoltà di «connettere», di legare logicamente i contenuti della coscienza (sia quelli «sensibili» che quelli «razionali,>) è chiamata da Jacobi intelletto. Sicché, cosa importante, anche il lavoro dell'intelletto è basato sulla fede, attraverso la quale la coscienza assume i contenuti che esso poi connette.
Dunque, mediante la fede sappiamo che fuori di noi c'è un mondo di corpi sensibili. E similmente sulla fede, e non sulla astratta dimostrazione, si fonda la certezza della nostra libertà. Se infatti consideriamo l'uomo come essere «finito», semplicemente «naturale», la conoscenza logica (intellettuale) ci induce a considerarlo soggetto a leggi meccaniche, per le quali ogni comportamento è determinato necessariamente da certe e precise cause. Ma ognuno avverte in sé la libertà, l'indipendenza della volontà dagli appetiti. La sua autodeterminazione non può esser derivata da fredde deduzioni; la sua spontaneità si presenta immediatamente alla coscienza; la libertà, insomma, si manifesta nell'azione stessa. Pertanto l'uomo può dichiararsi consapevolmente libero, perché la sua libertà gli si rivela nel suo agire; egli l'avverte con un'intuizione di fede, nel momento in cui si riconosce unico ed originale autore di ciò che è, del suo sapere, della sua arte e del suo carattere morale. E, naturalmente, sulla fede riposa la certezza dell'esistenza di Dio.
Soltanto ciò che vi è di piú alto nell'uomo attesta in lui un essere supremo fuori di lui; soltanto lo spirito testimonia in lui un Dio. Dio stesso creò l'uomo e gli diede immediatamente lo spirito, traendolo dal proprio spirito. E l'uomo è, precisamente in quanto c'è in lui l'alito di Dio.
La coscienza dello spirito si chiama ragione. Ma lo spirito può soltanto venire immediatamente da Dio; perciò avere ragione e sapere che c'è Dio sono la stessa cosa, come è la stessa cosa ignorare Dio ed essere un animale... L'uomo deve necessariamente ammettere Dio; e può negarlo soltanto come può anche negare in se stesso la propria libertà e lo spirito, ma non può mai annientarne completamente la nozione nell'intimo della coscienza morale.
La fede in Dio è un istinto, un istinto naturale per l'uomo, come la sua posizione eretta. Non avere questa fede è contro natura, come è contro natura per l'uomo la posizione curva...
(Su una profezia di Lichtenberg e Sulle cose divine)
Dunque sono proprio la spiritualità e la libertà dell'uomo che gli rivelano l'esistenza di Dio. Non il ragionamento può dare la certezza dell'esistenza divina, ma, al contrario, l'autorivelazione di Dio dà valore ai ragionamenti su Dio. Bisogna rivalutare allora il momento della fede in Dio, ma, sostiene Jacobi, non alla maniera errata di Kant, il quale, avendo dichiarato inconoscibile il «noumeno», parla di Dio come di una «idea della ragione»; concetto, questo, che svuota di significato la dimensione umana della fede religiosa, perché riduce il suo contenuto - la realtà stessa di Dio ad un'illusione psicologica, cioè ad un puro «nulla».
Johann Gottfried Herder (1744-1803) scrisse Metacritica alla critica della ragion pura (1799), Kalligone (1800), Dio (1787), Scritti cristiani (1793-1799), e inoltre Saggio sull'origine del linguaggio (1772), Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità (1774), Idee per la filosofia della storia dell'umanità (1784).
Filosofo e teologo, riuscí a comporre, in una visione unitaria, le sue riflessioni sul mondo e sull'uomo con i contenuti della sua fede religiosa. Il mondo e la storia sono, per lui, il campo in cui si manifesta Dio, che è la sapienza che organizza secondo la legge del progresso lo sviluppo della realtà naturale (dai livelli piú bassi a quelli piú alti) e l'evoluzione della storia dell'uomo. Anzi, natura e uomo sono legati da un nesso profondo per cui l'uomo è la realtà più alta a cui Dio ha condotto l'evoluzione delle forme naturali. Sicché, come in natura, cosí anche nella storia ogni forma determinata (tema caro anche all'idealismo tedesco) è transeunte, in quanto destinata ad essere assorbita e, allo stesso tempo, «superata» in una forma superiore piú ricca e piú complessa. E, al pari dell'individuo umano, anche la storia conoscerà il compimento del suo sviluppo solo nel mondo divino ultraterreno, in cui l'uomo, finalmente, attingerà e realizzerà a pieno il suo ideale di umanità.
C'è dunque una sostanziale continuità tra realtà naturale e realtà umana.
Dalla pietra al cristallo, dal cristallo ai metalli, da questi ai vegetali dalle piante all'animale, e dagli animali all'uomo, abbiamo visto elevarsi la forma dell'organizzazione e, con essa, articolarsi anche le forze e gli impulsi della creatura. Questi, alla fine, si congiungono tutti nella figura dell'uomo... Giunta all'uomo, la serie si è fermata: al di sopra di lui non conosciamo alcuna creatura che sia organizzata in modo piú valido e ricco; l'uomo sembra essere il punto d'arrivo a cui può giungere una organizzazione terrestre... Al pari delle figure, abbiamo visto avvicinarsi all'uomo le forze e gli impulsi. Sul nutrimento e sulla proliferazione dei vegetali si innalza l'istinto operoso degli insetti, la cura materna e domestica degli uccelli e degli animali terrestri, fino a pensieri simili a quelli dell'uomo e alla ricerca deliberata di comodità. Da ultimo, tutto ciò mette capo alla capacità razionale, alla libertà, e all'umanità dell'uomo.
(Idee per la filosofia della storia dell'umanità)
La progressiva complessità organica delle forme naturali è frutto di una forza organizzatrice interna alla natura stessa. Questa forza onnipotente non è altro che la sapienza divina che, quindi, è presente e si rivela nelle formazioni naturali.
Ma con l'uomo non si ferma il cammino. L'uomo, come ogni essere della natura, è in movimento; tende verso l'umanità; egli, cioè, sul piano della storia, è sempre potenza rispetto a un atto che sarà lo scopo e il termine del suo viaggio; questo cammino, anch'esso segnato dalla legge del progresso, è, per Herder, la storia della civiltà.
Lo scopo della nostra esistenza attuale è diretto alla formazione della umanità;... La nostra capacità di ragionare deve divenire ragione, la nostra sensibilità affinata arte, i nostri impulsi genuina libertà e bellezza, i nostri moventi amore per l'uomo.
(Idee per la filosofia della storia dell'umanità)
Ma la realizzazione piena dell'umanità è un obiettivo che trascende la storia, il piano spazio-temporale; sta al di là, come un ideale inattingibile, ma verso cui l'uomo si avvicina, guidato invisibilmente dal Creatore. Pertanto, per Herder, il trapasso alla piena umanità si avrà solo quando l'uomo abbandonerà la sua naturalità, e dalle ceneri di questa si libererà quell'ideale, la pura immagine dell'umanità che egli porta in sé.
Sul piano della storia, quindi, il cammino della civiltà consiste nella progressiva liberazione dell'uomo dalla dipendenza dalle sue condizioni naturali di esistenza; il che equivale al progressivo attingimento di verità, bellezza e amore. Pertanto la condizione storica dell'uomo è di passaggio dal mondo naturale al mondo divino.
Tutto, in natura, è collegato: una condizione tende verso l'altra e la prepara. Se, dunque, l'uomo chiude la catena dell'organizzazione terrestre come suo anello ultimo e supremo, perciò egli stesso inizia anche la catena di un genere di creature piú elevato, come suo membro piú basso; pertanto egli è, verosimilmente, l'anello di collegamento tra due sistemi della creazione che si prolungano l'uno nell'altro... Ora si fa dunque chiara la strana contraddizione in cui l'uomo si mostra. Come animale, egli serve alla terra, e aderisce ad essa come al luogo in cui abita; come uomo, egli ha in sé il seme dell'immortalità, che esige un altro giardino... L'uomo ci presenta, quindi, due mondi ad un tempo: e questo costituisce l'apparente duplicità della sua essenza.
(Idee per la filosofia della storia dell'umanità)
Il fatto che l'uomo, nella condizione storica, non riesce a distinguere la sua futura condizione metafisica, non deve frenarlo nel cammino. Egli deve vivere la speranza che l'opera del Creatore lo condurrà alla meta. Questa speranza è il contrassegno della fede.
In questa visione totale, Herder colloca i suoi interessanti contributi in tema di filosofia del linguaggio.
Anche il linguaggio, come le opere dell'arte, in quanto produzione dell'attività spirituale dell'uomo, è una manifestazione del divino nella storia. Anch'esso, come tutte le forme in cui si esprime l'intelligenza umana, ha una genesi, una vita, una morte. Sicché la storia dell'uomo è costellata di una pluralità di linguaggi: ma, sempre, ognuno è «specchio della nazione e dell'epoca». E come l'individuo umano si sviluppa dall'infanzia alla maturità, dalla fantasia alla razionalità, cosí ogni linguaggio passa da una forma originale contraddistinta da elementi sensibili, fantastici, poetici, ad una forma di espressione razionale e pragmatica: ne perderà in ricchezza, ma ne acquisterà in perfezione formale ed efficienza.
In Herder dunque prendono nuova forma e nuova sistemazione tanti temi di filosofia della storia e della civiltà che si ritrovano in G. Vico (che peraltro era ignoto ad Herder); ma ugualmente si ritrovano tanti spunti che saranno presto e piú compiutamente teorizzati dagli idealisti. Il che indica, comunque, la fecondità e il ruolo intermediario di Herder tra la vecchia e la nuova epoca. Ciò che invece non ritroveremo negli idealisti e non risultava espresso in Vico, è la saldatura tra storia e metastoria, tra vita terrena e vita ultraterrena, che dà uno specifico significato alla concezione dell'uomo herderiana.