giovedì 4 settembre 2008

Cage, il musicista che esplorò il silenzio

a cura DI D. PICCHIOTTI

“Mi è sempre parso che la musica dovrebbe essere soltanto silenzio”, ha scritto Marguerite Yourcenar. L'affermazione potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è affatto, perché il silenzio è una condizione del suono, anzi, è il più sublime dei suoni (troppo spesso lo si dimenticano!). E' materia sonora a tutti gli effetti, sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l'entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione, può addirittura invadere il linguaggio. In una lettera indirizzata al compositore Ernest Chausson, datata 2 ottobre 1893, Claude Debussy scriveva un po' timidamente: “Mi sono servito di un mezzo che mi sembra assai raro, del tutto spontaneamente; cioè (non ride) del silenzio, come mezzo espressivo e forse come modo per fare risultare l'espressione di una frase”.
Il silenzio, il non detto, sono dunque pieni di potenziale significato, e non soltanto in musica: basti pensare alla psicoanalisi (nel momento in cui Webern scopriva il silenzio in musica, Freud lo scopriva in analisi), o alla filosofia, che, secondo Ludwig Wittgenstein, finisce proprio con il silenzio (“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, si legge nel suo Tractatus). Purtroppo però, almeno nella maggior parte del mondo occidentale, il silenzio viene utilizzato assai raramente, perché ha un valore negativo e viene generalmente associato alla morte. I suoni, i rumori, ci ricordano invece di non essere soli, di essere vivi: rimuoviamo la morte facendoci sommergere dal rumore. Abbiamo paura della mancanza di suoni così come abbiamo paura della mancanza di vita. In realtà potremmo usare il silenzio per difenderci da tante di quelle cose, dall'inquinamento acustico, dal martellante “tunz-tunz” della techno, dalle fastidiose musichette che ci vengono propinate senza pietà in treno e in aereo, ultimamente anche negli autobus.
Per fortuna però, periodicamente, nel corso del Novecento da Claude Debussy (lui, come abbiamo visto, anche prima dello scoccare del secolo) e Anton Webern (il suo utilizzo sublime delle pause!) arrivando fino a Salvatore Sciarrino (si pensi al suo splendido Cantare in silenzio), e senza dimenticare naturalmente Gian Francesco Malipiero (Le pause del silenzio del 1917), Helmut Oehring (figlio di genitori sordomuti, che, con la sua Dokumentation I, ha scelto di rappresentate musicalmente la dimensione comunicativa del mondo silenzioso dei sordomuti), Luigi Nono, György Ligeti (il suo Nouvelles Aventures per esempio, che termina con un lungo silenzio che è parte integrante dell'opera), Karl Heinz Stockhausen, Giacinto Scelsi, Pierre Boulez, e nemmeno gli est-europei Arvo Paert (la sua poetica del Tintinnabulum: attesa solitaria di fronte al silenzio), Giya Kancheli e compagni, la musica si è spinta, con motivazioni estetiche spesso diverse (è importante sottolineare la diversità degli approcci), fino ai limiti del silenzio. Mai prima di John Cage però la “musica silenziosa” aveva osato tanto. Esattamente cinquant'anni fa, nel 1952, il geniale compositore – del quale ricorre anche il decennale della morte – presentò la sua rivoluzionaria partitura 4.33, che racchiude in sé molti aspetti dell'estetica cageana, e che egli stesso definì il suo pezzo migliore.
“Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33 come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”. Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è più che legittima. Basta indossare un abito da concerto (giusto per entrare meglio nella parte dell'esecutore) e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno. Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì uno sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33 si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene.
“Sentivo e speravo – diceva Cage – di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell'ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più interessante rispetto a quella che potrebbero e ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l'atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O, altrimenti detto: è l'intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un'altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell'International Music Council dell'Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può inserire in quel filone dell'arte figurativa dell'astrattismo gestuale di Pollock, Kline, De Kooning. E se 4.33 non contiene alcun suono, Robert Rauschemberg ha realizzato dei dipinti, semplicissime tele bianche, che non contengono alcuna immagine (“questi dipinti diventano aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell'ambiente), mentre il compositore coreano Nam June Paik ha girato un film della durata di un'ora, che non contiene immagini, e Dieter Schnebel ha concepito la Muzik zum Lesen (musica da leggere), partiture che non sono destinate all'ascolto o all'esecuzione, ma alla lettura. Tutto ciò, da diversi punti di vista dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage: “Per me il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”, una rinuncia alla centralità dell'Uomo, il che implica l'eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una regressione e una rinascita all'innocenza.
Il silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del silenzio che li separa”), la filosofia zen, l'identificazione dell'arte con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”), il ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l'antico metodo cinese dell'I-Ching) volte a eliminare l'aspetto soggettivo del processo compositivo, l'apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più bisogno di un pianoforte: ho la 6th Avenue con tutti i suoi suoni”), la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro che un pretesto per stare con lui”), per i funghi (partecipò anche a un quiz di Mike Bongiorno), per l'astronomia (per la stesura della partitura di Atlas Eclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note), per la Finnegan's Wake di James Joyce, ne fanno una delle figure creative più originali ed aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena trascorso.
Helmut Failoni – L'UNITA' – 08/04/2002

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