martedì 25 novembre 2008

Il rito, il sacrificio e la passione

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
Il rito
Due sono gli elementi che contraddistingono il rito.
Il primo è l’azione (elemento fisico, materiale, tangibile, fisiologico). Una serie di operazioni rigorosamente codificate. Esse vengono poste in essere dall’officiante – sciamano, sacerdote – e riconosciute come parte e materia del rito da lui stesso e dagli altri partecipanti.
Il secondo è la convinzione (elemento spirituale, immateriale, intangibile, psicologico). Esso si rapporta all’intimo sentire dell’officiante, dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti. Agli oggetti inanimati che possono acquistare anima. All’ambiente, alla natura, all’universo. La convinzione dà senso e significato a situazioni e azioni che altrimenti non ne avrebbero.
Dall’incontro e dalla fusione di questi due elementi nasce il rito. Esso si colloca in una realtà ulteriore, altra, trascendente. L’esistenza di questa realtà è parte stessa del rito, dei soggetti che vi partecipano e che ne sono coinvolti.
Il rito è autentico. Non è finzione, non è recitazione.
Il rito è immanente e trascendente. Immanente, presente, concreto, reale per chi vi è coinvolto e/o vi assiste. Trascendente, perché permette di entrare in contatto con l’Altro da sé, nel senso più ampio del termine.
Il rito è comunicazione e comunione. Attraverso il rito, ci si rispecchia in un’unica realtà, in un unico senso di essere che viene reciprocamente comunicato, che viene messo in comune.
Il rito è soggettività ed oggettività. Soggettività perché attraverso di esso si concretizza un proprio sentire, un proprio individualissimo rapportarsi a sé, al rito stesso e all’universo. Oggettività, perché questo sentire, attraverso la condivisione (operata sia spazialmente, in senso intersoggettivo – sia temporamente, in senso diacronico) diventa qualcosa che trascende le proprie dimensioni individuali e si concretizza in qualcosa di più grande.
Il rito è ricerca. Attraverso di esso si va oltre, si cerca, si incontra, si esplora, si scopre.
Il rito è causale e finalistico. Esso ha sempre una ragione, e tende sempre a uno scopo. E ciò può essere più o meno sancito, determinato, condiviso, partecipato, ma ne è l’unica ragione di esistere.
Il rito è religioso. Un rito senza religione può esistere – e in tal caso sarà lo stesso rito a costruire una sacralità. Ma una religione priva di riti, non è data.
Il rito è un valore altro che viene dato anche alle azioni quotidiane. Chiunque è in grado di identificare, nella sua personale esistenza, alcune azioni – di effetto più o meno pratico, ma comunque reali e persistenti – che per lui hanno un valore particolare, magico, sacro, significante – ritualistico, appunto. Spesso è proprio a queste azioni che ci si lega per offrire un significato al proprio esistere, al proprio sentire, al proprio essere qui (dasein). In qualche misura il rito è una necessità della mente e dello spirito umano, un modo per riconoscere la propria esistenza, per ancorare la propria identità, per rispecchiarsi nell’altro da sé.
Il rito può diventare strumento e fine anche dell’incontro con l’altro da sé nel suo senso più immediato, concreto, animale: il senso carnale e sessuale. Non deve stupire pertanto che molte religioni pongano l’incontro sessuale come strumento del rito (il tantrismo, varie forme di sacralità tribali un po’ ovunque nel mondo, compreso il nord America; e perfino la religone cristiana, nonostante tutta la sua sessuofobia, riserva un valore sacrale-ritualistico al congiungimento carnale come parte integrante e culminante del rito del matrimonio, tanto che il matrimonio non "consumato" può essere sciolto, ed è l’unico caso in cui ciò sia possibile).
Sesso (sesso come atto, quindi dinamico, agito, pensato, vissuto; non faccio, in questo contesto, ricorso al concetto di eros, troppo lontano da una dimensione genitale, l’unica qui che ci può interessare) come luogo del rito – e del sacro. Luogo dove quanto sopra scritto può trovare compimento e realizzazione.
Come il rito, il sesso è autentico. Non è possibile pensare un sesso finto, recitato, giocato (uso comunque queste parole con somma prudenza, in quanto il rito, e tutto quello che ne consegue, investe non poco anche le dinamiche della recitazione e del gioco, trascinandole a forza fuori dalla dimensione della finzione). Il fatto che il sesso richiami e utilizzi dimensioni peculiarmente fisiologiche, animali, naturali, lo costringe all’autenticità appunto della natura e dell’animalità. In questo senso non può esistere altra scelta che l’autenticità anche per il sesso giocato nella finzione (prostituzione, pornografia).
Allo stesso modo il sesso può essere immanente e trascendente. Immanenza dei corpi, degli umori, degli odori. Trascendenza dell’andare oltre, del sentire oltre, del cercare oltre la fase materialmente animale-fisiologica.
Sesso come comunicazione e comunione. Può realizzarsi su molti piani differenti, ma fondamentalmente il sesso è – anche, o soprattutto – un linguaggio, che permette di comunicare al di là dei significati semantici delle parole, dei comportamenti, delle sensazioni. E di condividere, se non piaceri ed emozioni, almeno i momenti e le cause che ne stanno alla base.
Sesso come soggettività ed oggettività. Nella pratica sessuale, sicuramente è importante il proprio sentire e il proprio piacere – qualcosa di forte e di concreto, che si individua e si realizza nell’io. Ma questo sentire individuale trascende in un’esperienza più globale, esterna, oggettiva, creatoria (in senso demiurgico, non artistico) che sta fuori dal corpo e dall’essere – a questo proposito vorrei usare le parole "esistenza cosmica", ma esito a farlo, dato l’abuso che di tale armamentario concettuale è stato fatto da parte di teosofie "usa e getta" molto diffuse in questi ultimi tempi…
Sesso come ricerca. E’ proprio della dimensione culturale – artificiale (da arte intesa come tecnica e studio) dell’uomo non limitarsi al principio della natura, e cercare oltre, costruire, sentire e vivere qualcosa che si colloca oltre la propria animalità. Proprio nel sesso, che come il rito parte da azioni oggettive, questa ricerca può trovare una sua dimensione privilegiata, imparentandosi e collimando con la sperimentazione, l’incontro, la rivelazione (queste ultime due proprie del rito).
Sesso come causa e fine. Non è facile definire quali possano essere la causa e il fine del sesso; può trattarsi di motivi biologici – la conservazione della specie – o mistici – la trascendenza, appunto – ma in ogni caso devono esistere. In quanto in loro assenza lo stesso sesso non avrebbe ragione di essere e motivo di essere agito.
Sesso come religione. E’ il senso di questo discorso.
Il sacrificio
Nella grande tradizione ebraico-cristiana, il rito utilizza una grande quantità di strumenti simbolici, allegorici, metaforici. Alcuni di essi hanno delle ascendenze di tipo pagano. Tra questi, il più importante e significativo è quello del sacrificio.
Il sacrificio è l’offerta (Opfer) alla divinità. Mediante di esso, la divinità viene placata se in collera; ad essa viene chiesta un’intercessione o un favore: la fine di una siccità, di una carestia, la concessione di una buona caccia o di un raccolto abbondante; la vittoria sui nemici. Il sacrificio è il rito cardinale; è attraverso di esso che – mediante la distruzione e la rinuncia a qualcosa di prezioso; nelle società pastorali, ad un capo di bestiame (pecus) – la divinità viene placata, appagata, gratificata. Il sacrificio è il gesto strumentale, inoltre, attraverso cui la colpa viene redenta.
Il sacrificio più estremo è il sacrificio umano. La divinità viene pacificata e soddisfatta col sangue di una vittima (Opfer). Il valore della vittima sacrificale è tale in quanto essere umano – quindi fisiologicamente simile all’offerente-officiante, e la similitudine limitarsi a questo, ad esempio un nemico catturato in battaglia (altra gente, altro popolo, altra identità). Ma tanto maggiore sarà la forza del sacrificio quanto più la vittima sarà simile all’offerente: medesima gente, medesimo sangue. Ecco quindi i sacrifici umani delle popolazioni precolombiane, dove la vittima veniva scelta con cura nella medesima popolazione che la sacrificava, accudita ed onorata (e per essa stessa, quella scelta era un onore). Ancora più forte è il sacrificio della tradizione giudaico-cristiana: Abramo sacrifica nientemeno che il proprio figlio Isacco, salvo poi sostituirlo con un simbolo (e nel rito, il simbolo è di importanza cardinale: la pittura rupestre al posto della belva da cacciare, l’animale al posto dell’essere umano da sacrificare). Ancora oltre: non solo la vittima sarà sangue dello stesso sangue dell’offerente, ma dovrà essere anche "innocente", "pura", "priva di peccato". Al sacrificio dell’animale "prezioso" (valore pecuniario) si preferisce l’animale "innocente" e "puro" per eccellenza, l’agnello. Il valore del sacrificio umano sarà tanto più alto quanto più si ricorrerà ad un essere "puro" ed "innocente", quanto più sarà una scelta libera e volontaristica, fino ad arrivare al definitivo, totale rispecchiamento tra divinità e vittima (questa figlia di quella) che si giocherà nel sacrificio cardinale della civiltà occidentale, quello di Cristo.
In tutto questo processo, com’è evidente, viene completamente a mancare un rapporto causale diretto tra "colpa" e "redenzione"; in un’ottica causale e non simbolica, come scrisse Borges il "vero" sacrificio redimente non sarebbe più quello di Cristo, ma quello di Giuda. La "redenzione" avviene per conto terzi, in seguito ad una sorta di processo di delega – anche questo, inevitabilmente, simbolico. "Il cristianesimo ha fatto man bassa sull’Errore e sulla Redenzione. Quella statua al centro del mantello rosso era una crocifissione laica, il riscatto delle colpe più pesanti, quelle che non si sono commesse". Sono le parole con cui Florence riflette sul suicidio della sua amante Nathalie, al termine del romanzo "Dolorosa soror" di Florence Dugas.
Non sarebbe inopportuno, a questo punto, interrogarsi sul valore sacrificale, in senso strettamente antropologico, che nel mondo contemporaneo possono avere determinate azioni sociali come le condanne a morte (l’aspetto punitivo e/o vendicativo recede nettamente di fronte a quello ritualistico, visti i rigorosi e ridondanti protocolli a cui gli attori, primo tra tutti il condannato, devono sottoporsi; o l’esplicita richiesta della condanna da parte di alcuni criminali particolarmente efferati, quale evidente ricerca di redenzione ed espiazione) o determinate azioni individuali come l’immolarsi, liberamente scelto e testardamente perseguito, di alcune figure poi divenute simboliche (me ne viene in mente una sola, quella di Ernesto Guevara, che peraltro assume connotazioni decisamente cristologiche).
La passione
Abbiamo detto che il sesso è rito. Adesso possiamo aggiungere che il rito, e, all’interno della dimensione del rito, il sacrificio collimano nelle pratiche sessuali cosiddette "bdsm". Qui infatti la ritualità non è soltanto un motore sottinteso, un substrato antropologico (o forse biologico) all’incontro, alla comunicazione, alla trasmissione di sensazioni, calori, umori. Qui diventa parte attiva, integrante, consapevole, giocata. E’ un rito che si richiama a mondi altri, a vissuti, sensazioni, sogni; al subconscio, all’onirico. In cui si fa (o si può fare) un uso abbondante e strutturato di simboli materiali o psichici. In cui la dimensione della rappresentazione (intesa come manifestazione di una realtà interiore e giocata) viene vissuta, esperita e agita fino in fondo.
Il sacrificio è l’essenza della sottomissione, del dolore. Talvolta dell’umiliazione. E il valore del sacrificio diventa tanto maggiore quanto maggiore è l’innocenza, reale o presunta, del soggetto che si sottomette (volontariamente e liberamente) ad esso. Il fatto che si tratti di un gioco non toglie nulla alla profondità e alla realtà delle sensazioni che vengono vissute, esperite e costruite. A volte il gioco può essere di ruolo, e allora si attueranno delle parti (carnefice e vittima, giudice e imputato, inquisitore e strega) e delle scene; altrimenti parti e ruoli potranno essere lasciati da parte, e il motore primo dell’azione non sarà null’altro che il proprio sentimento, il proprio desiderio ritualizzato; la commozione che nasce dalla contemplazione e dall’esperienza del sacrificio liberamente disposto, desiderato, agito, dalla sofferenza e dal dolore che ne deriva; il valore catartico e purificatorio che nasce dalla malinconia del sì, dal’accettazione e dalla sottomissione al dolore. E del rito rivestirà le caratteristiche – azione, convinzione – che faranno del vissuto e dell’agito un evento oltre la realtà, oltre il contingente, di dialogo con forze oscure, profonde, creatrici, trascendenti.
(liberamente tratto da testi vari)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Perche non:)