domenica 9 dicembre 2007

SOCRATE (470-399 a.C.)

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI
(liberamente tratto da testi vari)
Ref.: Atlante filosofico, Ubaldo Nicola - La filosofia antica, Emanuele Severino

Socrate nacque ad Atene dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice Fenarete. Da giovane si distinse nella campagna di Potidea del 432 a.C., dove salvò Alcibiade durante una ritirata (non menzionò l'accaduto per timore di privarlo di una medaglia) e fu per breve tempo membro della bulé (il senato della città). Nel 399 a.C. venne accusato dai concittadini di empietà, ossia di non credere agli dei e di contribuire con il suo esempio a corrompere i giovani. Al processo tentò un'inutile quanto appassionata difesa (testimoniata dalla celebre Apologia di Platone), fu ritenuto colpevole e obbligato a bere la cicuta, gettando gli allievi nel più totale sconforto.

Socrate non lasciò nulla di scritto (egli stesso preferiva trasmettere direttamente a voce i suoi insegnamenti), tutto quello che si sa di lui lo si deve al lavoro di uno dei suoi più affezionati discepoli, Platone, che scrisse abbondantemente sulla figura del maestro e ne fece il protagonista di molti dei suoi dialoghi.

Si dice fosse brutto e trasandato nel vestire, preferiva camminare scalzo, non disdegnava alzare il gomito e fu perfino denunciato dalla moglie Santippe per negligenza dei doveri congiugali (ma Socrate, invece di difendere se stesso, prese le difese della consorte).


1. "So di non sapere"

La principale preoccuazione di Socrate fu quella di cercare una sapienza che fosse certa, una sapienza che si potesse dire autentica e vera. Entrò in polemica con i sofisti, i quali predicavano l'impossibilità di raggiungere una qualsiasi verità, la filosofia sembrava infatti caduta nel gorgo di un soggettivismo inconcludente, nell'empasse di un relativismo che non dava più alcun appiglio. Socrate voleva invece indagare la possibilità di una vera sapienza, una sapienza che potesse superare lo scetticismo dei sofisti, si fece quindi interprete della volontà di rifondare la filosofia partendo da basi certe.

Socrate affermava spesso di non sapere cosa fosse la verità: "so di non sapere" (lo affermò anche al processo). All'apparenza poteva sembrare una sorta di captatio benevolentiae, un motto improntato alla modestia, in realtà voleva significare un qualcosa di più dirompente. Socrate si era accorto che intorno a lui, tra i sapienti del suo tempo e tra le persone che incontrava nell'agorà, tutti credevano di sapere cosa fosse la verità. I sofisti, ad esempio, credevano di aver capito che l'unica verità era l'impossibilità di raggiungere una verità, molti altri pensavano di sapere cosa volesse dire "azione giusta", ma in realtà, incalzati da Socrate, si rendevano conto di non saperlo.

Socrate si rese conto che tutti "credevano di sapere", mentre lui affermava con convinzione di "sapere di non sapere". Con questo intendeva dire che le presunte verità che si erano date per certe e sulle quali la filosofia, la società e gli uomini politici fondavano i loro principi, erano in realtà verità inautentiche, la verità doveva ancora essere raggiunta. Tutto questo era motivo di destibilizzazione sociale e politica e non poté non attirare su di lui la satira e il disprezzo della società, e l'azione conseguente delle autorità politiche, tanto da essere condannato a morte per le sue idee.


2. "Conosci te stesso" ("Gnothi sauton")

Può un uomo compiere un'azione giusta senza sapere che la sta compiendo? Può dirsi giusto un uomo che agisce nel giusto pur senza saperlo? Non sono domande da poco per un filosofo che vuole cercare l'esatta dimensione della verità, e quindi della virtù.

Secondo il sofista Gorgia, inutile curarsi della verità, poiché essa è comunque incomunicabile con il linguaggio. L'azione giusta non esiste in quanto il concetto di giustizia è relativo al giudizio soggettivo. Socrate invece mostra come l'uomo può arrivare da sé alla verità, mostra come il soggetto che può riconoscere la verità sia comunque l'uomo stesso e nessun altro (la conoscenza non è cosa aliena rispetto all'uomo, non è trucco del linguaggio, ma è prima di tutto produzione propria dell'uomo e della sua coscienza, pensiero immediato che non necessita di un linguaggio per essere riconosciuto). Dunque Socrate fa suo il motto del Tempio di Apollo a Delphi, "ghothi sauton" (conosci te stesso), perché solo nella propria coscienza l'uomo è in grado di venire immediatamente a contatto con la verità.


3. La maieutica

Ma come portare alla luce la verità che ogni uomo racchiude nella propria coscienza? Socrate si definiva un ostetrico di anime (maieutica="arte dell'ostetricia", il mestiere della madre), il suo compito non era tanto insegnare la verità (del resto egli "sapeva di non sapere"), quanto piuttosto quello di aiutare l'interlocutore a partorire la verità da sé, poiché ogni uomo, come si è detto, può venire a contatto con la verità nell'intimità non mediata della propria coscienza.

Socrate si aggirava dunque per l'agorà apparentemente disinteressato, ma abilmente e sapientemente entrava nei discorsi delle persone e mostrava loro come gran parte delle certezze che credevano di possedere fossero in realtà fallaci o fasulle, mostrando come in realtà non sapessero ancora di non sapere. Una volta mondata la cattiva coscienza dalla presunzione di sapere, Socrate cominciava a porre all'interlocutore una domanda, e ad ogni risposta traeva spunto per porne una nuova, finché entrambi si attestavano su una verità condivisibile.

Socrate non era tanto un portatore di verità in sé, ma il portatore di un metodo attraverso il quale favorire il raggiungimento della verità. Attraverso la tecnica del dialogo e della dialettica, forma nella quale erano eccellevano le stesse opere di Platone, Socrate riusciva ad ottenere dall'interlocutore quel parto della verità che costituiva il significato ultimo della maieutica. A motivo di tanta serafica pervicacia, a Socrate venne dato l'appellativo di "tafano di Atene".


4. L'universale e il particolare

Il motivo primo che impedisce all'uomo di sapere con certezza è l'incapacità di stabilire in modo definitivo il significato di ciò che si vuole sapere. Il mondo materiale, in quanto numeralizzabile, è facilmente quantificabile (ci si trova d'accordo sulla forma, il peso o le misure di un oggetto), la difficoltà si presenta quando bisogna quantificare in modo certo il significato di un concetto etico, morale o estetico (ad esempio cos'è il bene e cosa il male, il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto).

Per definire in modo certo cosa sia il bene e cosa sia la giustizia, ad esempio, occorre sempre prima domandarsi che cosa (ti esti=che cos'è) sia il bene e cosa sia la giustizia: il procedimento per raggiungere la verità dei concetti passa per la loro corretta definizione.

Per spiegare cos'è il bene, potremmo certamente fare un esempio di una azione benevola, ma questa azione non potrà mai esprimere il concetto di un bene assoluto, poiché rappresenta pur sempre una sua declinazione soggettiva e contingente. Per questo motivo Socrate riconosce che per raggiungere una verità certa occorrerà prima di tutto definirne il concetto universale, poiché solo il concetto può esprimere quell'assolutezza e quella perfezione che il fatto concreto non potrai mai possedere. L'azione particolare è infatti naturalmente legata alla soggettività dell'individuo che la compie, mentre è chiaro come il concetto puro può esprimere quella verità che può convenire universalmente a tutti gli individui, indipendentemente dalla loro soggettività.



5. L'importanza del concetto

Mentre i fisici presocratici (in particolare i Milesi e i Plualisti) indagavano le verità sensibili (i principi della phisys), Socrate afferma che la verità più autentica si trova nei concetti delle cose, ovvero nell'immagine universale delle cose contenuta nel pensiero.

La filosofia deve quindi iniziare a stabilire un sistema di concetti, ovvero stabilire un sistema organico di significati universali delle cose, poiché la verità autentica non si può trovare negli aspetti accidentali, particolari e contingenti del mondo sensibile (non è infatti possibile, secondo gli argomenti già espressi da Protagora, trovare un accordo tra i diversi modi di percepire la realtà con i sensi), ma si trova in una dimensione diversa: solo attorno al concetto espresso dal pensiero e dalla coscienza è possibile trovare un accordo sulla verità autentica, poiché è il concetto, in quanto oggetto inesteso, a consentire di essere universalizzato.


6. Intellettualismo e volontarismo etico

Socrate pensa che la conoscenza delle verità faccia automaticamente agire in conformità ad essa. Un uomo che conosce il vero bene, non può che agire benevolmente. Questa teoria è detta dell'intellettualismo etico, poiché presuppone una conoscenza intellettuale della verità del principio etico. Socrate non può quindi pensare che l'uomo scelga il male pur conoscendo la verità del bene (atteggiamento noto come volontarismo etico), nel caso un uomo agisca in questo modo è senz'altro perché non ha vera conoscenza del bene, poiché è allontanato dalla verità dagli istinti e dalle passioni.

Quest'idea pressupone che la verità, e quindi le verità del bene e della giustizia (la stessa virtù), siano raggiungibili per via razionale prima che per via sentimentale o per un semplice adeguarsi ai principi di una tradizione. Socrate pensa inoltre che la verità sia un bene così superiore rispetto ad ogni altra cosa che non può che vincolare l'uomo alla sua legge, ecco perché pensa che chi sceglie il male, lo faccia perché del tutto inconsapevole del vero bene.

L'idea di Socrate è che qualora l'uomo venisse a conoscenza del vero significato del bene non commetterebbe più alcun male: se l'uomo fosse realmente a conoscenza del vero significato del bene, avrebbe davanti a sé più chiaramente quali sarebbero le conseguenze delle azioni che sta per compiere, perché se l'uomo tende naturalmente al maggior piacere possibile, un'azione veramente giusta costituirebbe un piacere ben più stabile e duraturo rispetto a un piacere fuggevole e incerto o alla conseguenza del tutto nefasta che ne deriverebbe da un'azione ingiusta.


7. Il 'Demone' socratico, 'la salvezza della vita'

Socrate sa di non sapere, non conosce la verità e quindi non conosce il vero bene, pur essendo alla sua ricerca. Cosa guida Socrate nel percorso della virtù se egli stesso ammette di non sapere ancora cosa sia il vero bene?

Socrate affermava di essere guidato da un demone (daimon, che per i greci è una sorta di angelo custode), da una voce divina che lo tratteneva dal compiere certe azioni (quelle ingiuste). Di fronte all'impossibilità di agire in mancanza della conoscenza del vero bene, l'uomo deve dunque affidarsi alla voce della coscienza, la quale è tanto più conforme alla verità quanto è più lontana dagli istinti e dalle passioni, i quali ottenembrano la mente allontanandola dalla verità (si veda il capitolo precedente).

Infine, ciò che prova che una vita sia stata virtuosa e veramente degna di essere vissuta, è per Socrate la disponibilità dell'uomo ad avviare la ricerca sul vero significato del bene, della giustizia e della virtù: solo quando l'uomo verrà in possesso di tale conoscenza, avrà raggiunto quella verità che potrà dare agli uomini, secondo le parole dello stesso Socrate, la "salvezza della vita".

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