domenica 16 settembre 2007

MIRO'

A CURA DI DANILO PICCHIOTTI

Tra i grandi della pittura contemporanea ci sono molti spagnoli. Picasso, prima di tutti, e poi Dalì, e Gris. Anche Mirò è nato in Spagna, nel 1893. è un catalano di Montroig, un paese nei dintorni di Tarragona, dalle parti di Barcellona. Il padre di Mirò, un orefice, era venuto sul continente da Palma di Maiorca, e i suoi antenati facevano i vasai. (E se è vero che la passione per certi mestieri si trasmette con il sangue, nel nostro caso il conto torna. Da parecchi anni, infatti, Mirò si dedica con accanimento alla ceramica, seguendo da vicino tutte le fasi della lavorazione.) Dal 1910 al 1912 Joan Mirò lavora in un ufficio, come impiegato. È nel 1912 che decide di dedicarsi soltanto alla pittura, iscrivendosi all’Accademia. Ma a quanto pare, più che all’insegnamento accademico Mirò si appassiona ai libri che legge e alla musica che impara proprio in quegli anni a sentire e a conoscere. Legge molti libri di Verne, il creatore del fantastico moderno, l’anticipatore della fantascienza, il cantore dell’ingegnosità demiurgica dell’uomo in situazioni nuove e assurde. Le ragioni di questa scelta sembrano chiare. In Verne, Mirò può trovare valori analoghi a quelli che arrichiscono nel profondo la sua natura di artista: la flessibile libertà dell’immaginazione, l’agevole e sicuro domino esercitato su ogni aspetto e su ogni situazione, anche sui più inaspettati, anche su quelli apparentemente più incontrollabili, la capacità di stabilire un equilibrio reale nello stesso fluire delirante dell’invenzione. Ma Mirò giovane non legge soltanto i libri di Verne. Come si è già detto, ascolta anche molta musica. «Bach e Mozart – dirà più tardi – mi hanno aiutato a capire il profondo significato della linea». La solidità delle aeree strutture di certi quadri dipinti da Mirò nel corso della sua lunga carriera, dimostra che quell’insegnamento ha dato buoni frutti. Mirò non ha mai ammucchiato disordinatamente segni e colori. Ha inventato delle forme. Le leggi che ne governano la struttura si rinnovano di volta in volta, da un’immagine all’altra, si nascondono nelle divagazioni, si mescolano alla festosa energia del racconto: ma sono sempre presenti, ed è su di esse che si fonda la movimentata architettura della figurazione.
 
Dopo la grande guerra Mirò incomincia a frequentare gli ambienti artistici di Parigi. Sono gli anni della rivoluzione, dell’avanguardia. Picasso ha già “inventato” il cubismo. I dadaisti portano avanti ironicamente e coscienziosamente la loro rivolta anarchica: contro tutti i canoni delle belle arti, essi prendono un oggetto qualsiasi dal marasma del quotidiano e lo isolano, lo propongono come una finta opera, come il simbolo del loro gesto sprezzante, orgoglioso e in concreto. Il surrealismo è alle porte. Mirò si guarda intorno, assimila, giudica, ma non tradisce se stesso. Prima dei cubisti è Cézanne che lo impressiona. Poi il violento linguaggio pittorico di Van Gogh. Comunque, nei quadri di quegli anni, Mirò resta fedele alla sua natura più vera. Non è il caso di parlare di gusto popolaresco o primitivo. Mirò, in fondo, ha nella testa e nelle mani l’istinto profondo degli antichi artisti del suo paese, di quella specie di isola catalana aperta da un lato alle accese suggestioni orientali, moresche, filtrate attraverso mezza Spagna, e dall’altro al fervore testardo del mondo romantico. Mirò, a Parigi, lavora furiosamente. Scrive: «Non riesco a trovare i mezzi per esprimermi. È roba da disperarsi, da battere la testa contro il muro». Conosce il suo famoso compatriota, Picasso. Gli fa anche un ritratto, e Picasso lo compra. Più tardi, Mirò, raccontando di quegli anni, si lascerà andare a qualche esagerazione romaticheggiante. «Vivevo mangiando soltanto fichi secchi, tanto ero povero», dirà. In realtà qualche soldo, da casa, gli arrivava sempre. Comunque, la vita non è facile, per lui. E neanche la pittura. Per dieci anni – ma non è colpa sua se è nato dieci anni dopo – ha mancato la prima ondata della rivoluzione artistica che ha avuto luogo a Parigi e in Europa. Ma la seconda ondata lo vedrà tra i protagonisti.
Dopo alcune esperienze dadaiste, Mirò arriva al suo incontro decisivo, quello con il surrealismo. Non si tratta di una influenza dall’esterno. Mirò si riconosce nel surrealismo, potremmo dire – come tutta la zona del surrealismo di riconosce – nelle sue opere. Nel 1924 Joan Mirò sottoscrive il primo “Manifesto del Surrealismo” di Breton. Breton, fondatore, teologo e conservatore del surrealismo, dirà: «Mirò è il più surrealista di tutti noi». Certo, le scoperte surrealiste aiutano Mirò a trovare la sua vena più autentica. Egli sa rispondere, appassionatamente, all’appello surrealista che incita gli artisti a liberarsi da ogni schema visivo superficiale, a cogliere la pullulante vitalità che agisce nascosta sotto le illusioni della verosimiglianza, nell’inconscio. Ma proprio perché quella del surrealismo è per lui una lezione di libertà e di ricerca, Mirò rifiuta d’istinto ogni immagine surrealista per definizione, ogni canone iconografico. Il surrealismo non è per lui una maniera figurativa, ma un atteggiamento morale. Scoperta al libertà non ne può più fare a meno. E usare di quella libertà nel dipingere non è per lui un problema drammatico, un’angoscia da affrontare ogni volta. Come dice Alice basta un passo, un semplice passo per entrare nel paese delle maraviglie, così Mirò entra senza fatica nella totale libertà del suo mondo favoloso e ci si può muovere dentro, da un quadro all’altro, con tranquillo stupore e con pazienza inesauribile, molto attento alla logica capovolta e rigorosa della sua fantasia. Mentre per altri fare del surrealismo vuol dire cacciare dentro lo spazio della tela una congerie di immagini inconsuete e bizzarre, saccheggiando solai e libri dei sogni, per lui dipingere vuol dire abbandonarsi diligentemente a raccontare la favola serrata e scintillante in cui agiscono, inesausti, i suoi personaggi fragili e vulnerabili. Mirò non complica le cose. Le trasforma liricamente. Il sole, le stelle, i fiori, gli uomini e le donne, stabiliscono fra loro rapporti molto semplici e molto avventurosi. Mirò non trascura affatto la realtà: la esalta, coronandola di immagini. Ribemont-Dessaignes dice: «Il suo segno ha qualcosa del bel canto».
 
Dal 1929 al 1934 Mirò continua a sperimentare la sua fantasia e la sua arte. Qualcuno parla di pittura ipnotica, di regolare automatismo surrealista. (Era stato proprio Breton a raccomandare agli artisti un assoluto automatismo, invitandoli a scrivere o a disegnare senza pensare, affidandosi ai suggerimenti più immediati dell’inconscio). Zervos racconterà che Mirò si metteva davanti a una tela e vi lasciava cadere qualche macchia di colore a caso, e poi vi tracciava sopra con il pennello una serie di segni del tutto involontari. E a qualcuno potrebbe venire in mente di proporre Mirò come un antenato dell’informale e del tachisme (da tache: macchia), due movimenti pittorici che hanno avuto tanta fortuna nell’ultimo dopoguerra e che solo adesso incominciano a essere messi in disparte anche da chi fino a ieri li ha acclamati senza riserve. Ma Mirò non si è mai dedicato alla professione del disordine, non ha mai amministrato l’irrazionale in una serie di accademiche allusioni visive, non ha mai anteposto la pura materia pittorica alla struttura del racconto. In questo senso Mirò è un artista che appartiene al settore più attivo e più veramente rivoluzionario dell’avanguardia europea di questo mezzo secolo, a quel settore più attivo e più veramente rivoluzionario dell’avanguardia che ha sentito la necessità di innovare il linguaggio non certo per sperimentare uno schema formale inedito: ma per poter rappresentare tutte le dimensioni del reale, tutti i rapporti che uniscono l’uomo, le cose e il mondo. Una avanguardia insomma che non ha rifiutato la ragione espressiva ma soltanto certi schemi superati del linguaggio preesistente, una avanguardia che non ha voluto sprofondare nell’irrazionale, ma portarlo alla luce della rappresentazione.
 
Quando propongono a Mirò di entrare a far parte del gruppo dei pittori astratti, egli rifiuta senza un attimo di incertezza. Ed è naturale. Mirò non è affatto un pittore astratto. I suoi quadri sono pieni di storie, di favole liriche. Il suo istinto al racconto favoloso è lo stesso che anima certe immagini popolari. La ha ripetuto lui stesso, più volte. Le ingenue avventure cinematografiche dei primi cartoni animati lo troveranno tra gli spettatori più entusiasti e divertiti. Ma Mirò non vuole fuggire la realtà in modo inconcreto in immagini senza significato. Alla Esposizione Universale del 1937, tenuta a Parigi, nel padiglione del Governo repubblicano spagnolo in esilio, accanto al quadro di Picasso intitolato «Guernica» e rappresentante gli orrori di un paese bombardato dagli aerei fascisti, c’è anche un quadro di Mirò. È un grande personaggio con una falce in mano, un “Mietitore”, una figura alterata non solo dalla fantasia, ma anche dalla volontà e dalla violenza.
 
Dopo la seconda guerra mondiale l’arte di Mirò ha un nuovo impulso. Nel 1947, e poi nel 1950, Mirò va negli Stati Uniti a eseguire una serie di ampie decorazioni per edifici pubblici. Nel 1956 può concedersi una grande villa a Palma di Maiorca, proprio nel paese d’origine della sua famiglia. E – lo si è già detto – proprio come i suoi antenati, incomincia a dedicarsi alla terracotta. Il suo successo è ormai tale che può concedersi di lavorare in grande stile, senza risparmio di mezzi. Si sposta in aereo da Parigi, a Gallifa, in Catalogna, a Maiorca. Ma sono sempre spostamenti per ragioni di lavoro. In realtà lascia un laboratorio di litografia per andare in un laboratorio per la lavorazione della ceramica, o nel suo studio di pittore. Il forno in cui cuoce le sue terre è stato costruito esattamente sul modello degli antichi forni coreani, studiati sul posto. Ed è alimentato solo a legna, perché Mirò pensa che il calore delle resistenze elettriche non sia adatto ad ottenere i risultati che lui vuole. A settant’anni Mirò lavora con l’entusiasmo e la vivacità di sempre. Il suo racconto continua a svolgersi sotto i nostri occhi. «Non penso mai alle cose che ho fatto – dice Mirò. – Penso alle cose che sto facendo e che farò». I suoi personaggi proliferano, il suo mondo si estende, la sorgente della sua poesia sembra inesauribile. Senza ironia, senza distacco, ma nella serenità della libertà e con amore.

 

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