sabato 22 settembre 2007

L'ARTE DI FANTASIA

A CURA D. PICCHIOTTI

L'unico punto comune dei pittori di fantasia è la convinzione che «vedere con l'occhio dell'anima» sia più importante che guardare il mondo esterno, e poiché ogni artista possiede un suo proprio mondo intimo, il suo modo di parlarcene tende ad essere altrettanto personale. Ma perchè qualcuno dovrebbe desiderare di descriverci il suo segreto mondo di incubi e di sogni ad occhi aperti? E come potremmo, noi, trovarvi un significato qualsiasi, visto che il nostro mondo segreto è necessariamente diverso? Sembra, tuttavia, che, in questo campo, non siamo poi tanto diversi l'uno dall'altro. I nostri cervelli sono costruiti tutti sullo stesso disegno, sebbene non pensiamo tutti nello stesso modo. E questo vale anche per la fantasia e la memoria, che appartengono alla parte inconscia della nostra mente, quella che non possiamo dominare a nostro piacimento.
Qui sono immagazzinate tutte le nostre esperienze; confusa folla che, di notte, o quando «non pensiamo a niente di particolare», ritorna spontaneamente a noi per riprender vita. Però l'inconscio di solito non ci riporta le esperienze come sono effettivamente accadute. Gli piace mascherarle da «immagini di sogno», in modo che siano meno vive e reali e noi possiamo vivere più facilmente in compagnia dei nostri ricordi. Digerire le esperienze è importante come digerir bene il cibo, per il nostro benessere intimo.
Ora, l'inconscio «digerisce» le esperienze circa allo stesso modo in tutti noi, sebbene in alcuni sembri funzionare meglio che in altri. Per questo ci interessa sempre ascoltare vicende immaginarie se la persona che ce le racconta riesce a farle sembrare vere. Quel che accade in una favola, ad esempio, non avrebbe alcun senso nel linguaggio di un reportage giornalistico, ma se qualcuno ce lo racconta nel modo «giusto» ne siamo affascinati. La stessa cosa è vera in pittura. Abbiamo già visto un bellissimo quadro-favola, La zingara dormente di Rousseau e forse ci farà altrettanto piacere vederne altri, posteriori.
Malinconia e mistero di una strada dell'italiano Giorgio De Chirico è il quadro che si avvicina di più alla realtà immaginaria della Zingara dormente. Noi non possiamo spiegare nessuna delle strane cose che accadono in quella strada, eppure l'atmosfera irreale del quadro dice che stiamo guardando in un sogno. Ma De Chirico non è un artista paesano, ha una personalità molto più complessa di Rousseau. Per questo il suo mondo di sogni è turbato da tante paure segrete, in contrasto con la meravigliosa pace del quadro del francese. Io e il villaggio di Marc Chagall ci affascina invece per la sua gaiezza.
In questa «favola cubista» i ricordi-sogno delle leggende popolari russe sono intessuti in una visione luminosa. Chagall rivive le esperienze della sua fanciullezza, così importanti, per lui, che la sua immaginazione le ha costruite e ricostruite per anni senza mai liberarsi dal loro ricordo.
Le «favole» del pittore svizzero Paul Klee sono molto più controllate e hanno uno scopo più preciso di quelle, di Chagall, quantunque sulle prime possano sembrarci più infantili. Anche Klee aveva subito l'influsso del cubismo, ma l'aveva raffinato e levigalo in un linguaggio personale meravigliosamente preciso. Il suo scopo era di creare «segni» cioè forme che fossero immagini di idee, come la forma «A» è l'immagine del suono «A» (naturalmente le idee di Klee sono molto più intricate). Una delle più semplici è La macchina per cinguettare in cui il pittore mette in ridicolo l'era delle macchine, «inventando» una specie di fantasma meccanico che imita il cinguettio degli uccelli.
La conquista della montagna, invece, mostra una macchina vera, una locomotiva che si comporta in maniera umana. Mentre sale sbuffando l'erta del monte diventa rossa per lo sforzo, come uno scalatore affaticato. In questo quadro eseguito poco prima della sua morte, la fantasia di Klee è fresca e il suo senso del meraviglioso vivo come sempre, ma le forme hanno una dignità e una precisione che rivelano un impegno artistico più profondo.
Il suo Carnevale di Arlecchino sembra una scena osservata attraverso un microscopio di favola, un movimentato palcoscenico in miniatura in cui tutto e tutti vivono di gioiose magie. Mirò è stato cubista prima di scoprire il proprio mondo di fantasia, e la disinvolta gaiezza del suo quadro è in realtà il risultato di una cura meticolosa nel disegno dei particolari.
Altro tipo di fantasia: ossessionato, spettrale e inquietante come i sogni di De Chirico, è un collage di Max Ernst, che fu tra i grandi nomi del dadaismo alla fine della prima guerra mondiale. I dadaisti rimasero così inorriditi dalla crudeltà della guerra che dichiararono il fallimento completo della civiltà occidentale e decisero di ricominciare tutto da capo rispettando una sola legge, quella del caso, e una sola realtà, quella della fantasia. Il loro compito principale — dicevano — era di scuotere il pubblico per metterlo nel loro stesso stato di disagio mentale, e cercarono di raggiungere questo scopo esponendo le loro creazioni, per la maggior parte «gesti» estemporanei che sfidavano ogni logica. Il collage di Ernst, però, è molto più serio, anzi è disperatamente serio. È fatto di ritagli di fotografie di macchinari e apparati tecnici, riuniti in modo da formare due «uomini meccanici» da incubo. Queste creature ossessive ci fissano attraverso le loro enormi lenti e ci domandano se le riconosciamo come immagini dell'uomo moderno, schiavo della macchina e perciò poco più di una macchina lui stesso.
Eppure il dadaismo non fu del tutto negativo. Aiutò i pittori a riscoprire effetti accidentali e a servirsene a scopi artistici, per controbilanciare la calcolata disciplina del cubismo. I pittori che credevano nel caso e che amavano lasciar correre la fantasia senza freni fondarono il movimento surrealista, capeggiato, fra gli altri, da Max Ernst. Fu appunto Ernst a introdurre, o meglio a rimettere in auge, la tecnica applicata con tanta abilità da Salvador Dali. Le forme principali del Paesaggio con figure (cioè la spiaggia, le rocce e le nuvole) sono in realtà macchie d'inchiostro fatte a caso, come quella di cui abbiamo parlato all'inizio. Dali si è limitato a vedere un quadro nelle macchie e ad aggiungere alcune linee in modo che anche gli altri lo vedessero. Con questo, il disegno non è meno artistico perchè Dali ha accettato l'«aiuto» delle macchie d'inchiostro. Semmai ci dimostra che la nostra fantasia funziona ancora come ai tempi in cui gli uomini preistorici vedevano animali nelle protuberanze sulle pareti delle caverne: soltanto le cose che immaginiamo e il nostro modo di esprimerle nei dipinti sono cambiati. E la storia della pittura è la storia di questi mutamenti.

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