lunedì 23 giugno 2008

IL TEMPO, L’INFINITO, L’ANIMA

A patrizia e fabrizio gli ultimi visitatori della notte bianca fiorentina. VIVA MIRO'

uscire fuori "dal mondo abbastanza solido e denso, chiuso e gradevolissimo". e correre con l'immaginzione significa trovare nuove e continue emozioni e con queste il contenuto dell' esistensa stessa.
leggete questo bellissimo articolo
di Alex Torinesi( Impegnativo e stmolante)

Veniamo al mondo con una tale capacità di stupirci che neppure dieci
altri pianeti riuscirebbero ad esaurirla. La Terra vi riesce d’ufficio!
E. M. Cioran
“Allora che cosa è il tempo? Se nessuno me lo domanda lo so. Se voglio spiegarlo a chi
me lo domanda non lo so più”. Così Sant’Agostino parlava del tempo nelle sue celebri
“Confessioni”.
Definire il tempo non è facile, forse nemmeno corretto. Non sotto un profilo deterministico
almeno. La difficoltà principale nasce dal fatto che il tempo viene quasi sempre “spiegato”
principalmente da un punto di vista semantico. È nella difficoltà del linguaggio che sta la
confusione che si incontra nel tentativo di darne una definizione. Sant’Agostino commette
questo errore.
Egli sostiene che l’Uomo non è in grado di vivere realmente il passato e il futuro perché
passato e futuro sono proiezioni dell’anima. Si vive il passato come ricordo, il futuro come
anticipazione e il presente come un “reale contingente e continuativo”. Ma se il passato
non esiste perché “non è più”, il futuro “non è ancora” e il presente se non si traducesse in
passato non sarebbe più continuamente presente ma eternità, significa forse che la
ragione dell’esistenza del tempo risiede proprio nella sua tendenza a... non esistere?
La difficoltà di fondo con cui si scontra Sant’Agostino è la nominalizzazione. Il concetto di
tempo è approcciabile da un punto di vista matematico, fisico, fisiologico ma come detto
difficilmente da un punto di vista strettamente semantico.
Sebbene il tempo appaia come un qualcosa di oggettivo, di “reale”, qualcosa legato a un
moto, allo scorrimento lineare di eventi, va altresì detto che qualunque evento non può
essere riferito ad un punto assoluto (istante) nel tempo ma deve essere riferito (in un
rapporto di stretta relazione) ad un evento già accaduto in precedenza, il quale lo sarà a
sua volta a un altro antecedente e così via in una catena senza fine.
Diviene pertanto necessario definire il “riferimento” in quanto un riferimento assoluto in
termini temporali, non può esistere. È forse Dio il riferimento? Dio, se assumiamo come
vera la sua eternità, esiste in un continuum temporale perennemente presente, al di là del
tempo che egli stesso ha creato. Dio è “tutto e sempre”, non ha necessità di un “prima” e
di un “dopo”.
Questo porta San Tommaso a scrivere: “Dio è perfettamente semplice, non è unito ad
altro e non ha parti”. Ma tutto quello che non ha parti e non ha dimensioni (secondo la
concezione euclidea dello spazio) è il punto, entità geometrica essenziale. Nel punto
esiste il tutto e il nulla, oltre lo spazio e oltre il tempo.
Con tali premesse quindi diviene difficile definire il tempo in termini assoluti e oggettivi.
Tanto più racchiudere un concetto così ampio e interdisciplinare in un vocabolo unico.
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Il desiderio di definire il “tempo” nasce dalla volontà di collegare tra loro gli eventi che
percepiamo. “Tempo” e “spazio” vengono creati perché attraverso la loro misura siamo in
grado di ordinare nella mente passato, presente e futuro e rendere perciò reale quanto
intuiamo e percepiamo. Il concetto di tempo infatti assume una valenza percettiva basilare
anche perché strutturato sulla nostra memoria e quindi sulla capacità di registrare e
ordinare linearmente in un “prima” e in un “poi”, gli eventi che accadono.
Se da un punto di vista fisico il presente è un punto in un’entità formata da infiniti punti
infinitamente brevi (istanti) posti in un distesa infinita che va dal “passato” al “futuro” in cui
il “presente” ha la dimensione (1) di un singolo punto, sotto l’aspetto umano possiamo
affermare che la durata del “presente” è legata solo all’atto di percezione. Pertanto il
“presente umano”, per quanto breve possa essere, avrà sempre una durata superiore al
“presente fisico” con il risultato che la concettualizzazione del tempo sarà una proiezione
puramente soggettiva e legata a variabili quali l’età, l’ambiente, lo stato d’animo e lo stato
di salute psicofisica di chi lo sperimenta. Un evento ha quindi la durata che ne attribuisce il
soggetto osservante poichè non appartiene all’evento stesso.
Questo portò Sant’Agostino a collegare il concetto di tempo a quello di anima: se il tempo
non ha una sua realtà autonoma, allora può essere misurato soltanto distinguendo un
tempo breve da un tempo lungo. Solamente l’anima, secondo Sant’Agostino, è in grado di
misurare, attraverso la memoria, il passato che, per definizione, non esiste in quanto già
trascorso e quindi non più reale. Il presente invece è privo di durata dal momento che
diviene continuamente passato; allo stesso modo attraverso l’attesa degli eventi l’anima
può misurare il futuro che di per sé non sarebbe rilevabile perché non c’è ancora e quindi
non esiste.
Nella rappresentazione del tempo quindi coesistono due livelli differenti perfettamente
sovrapposti: un livello sensoriale, empirico, soggettivo che determina la percezione dei
cambiamenti di stato di un fenomeno e un livello concettuale nel quale misuriamo e
descriviamo la mutabilità degli eventi attraverso la parola “tempo”. Questo comporta il
considerare il “tempo” come una “cosa” con tutte le conseguenze nominalistiche che ne
derivano. In tale equivoco cade anche Sant’Agostino come riportato all’inizio di questo
scritto.
Il tempo esiste come realtà concettuale che esprime una relazione tra “l’accadere degli
eventi” e la nostra necessità e capacità di “pensare e concepire mentalmente” gli eventi
stessi. La relativizzazione del processo che ne sta alla radice è pertanto strettamente
legata alle correlazioni che esistono tra gli eventi e i fenomeni percepiti, non all’esistenza
di un referente esterno.
Si tratta di un processo fondamentale perché struttura la cognizione di ciò che accade
mediante la misura tra eventi, ossia mediante il riconoscimento delle relazioni intercorrenti
tra due eventi sequenziali in cui noi scegliamo un inizio e una fine. La modellizzazione
mentale poi avviene come successione ad un livello più ampio in cui la relazione
temporale tra due eventi rilevati è organizzata sull’ordine di parametri quali la sequenza e
la distanza, inserendo un inevitabile e necessario riferimento al concetto di spazio.
Spazio e tempo sono percepiti con meccanismi mentali simili ed è profondamente radicata
nell’esperienza umana l’idea di associare la temporalità alla spazializzazione.
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Si tratta di un automatismo che deriva dall’immaginare il trascorrere degli eventi come un
moto lungo una linea nella quale le relazioni temporali abbiano le medesime regole delle
relazioni spaziali. Così “gli eventi si muovono nel passato”, “il futuro è davanti a noi”, “i
brutti ricordi si sono lasciati alle spalle” e così via con un uso fortemente metaforico
dell’entità spazio per definire l’entità tempo. In realtà le cose accadono, gli eventi si
verificano indipendentemente dalla nostra rappresentazione spazio-mentale. È un artificio
del sistema cognitivo umano utilizzato per dare un ordine (e quindi un senso) alle cose, in
quanto l’Uomo coglie cose in continuo mutamento per le quali il tempo è un ordine non
spaziale in cui tutto cambia. La consapevolezza del “fluire” del tempo è la nostra
consapevolezza delle cose che cambiano. Diviene, in altre parole, la risultante di come
rappresentiamo gli avvenimenti e i fenomeni e il modo in cui sviluppiamo e creiamo idee
sulle relazioni tra quegli eventi.
Nelle rappresentazioni visive delle immagini di eventi ricordati, diventa importante la
posizione in cui si pongono tali visualizzazioni. La riproduzione dei ricordi con modalità
sequenziali e lineari è il modo con cui il cervello organizza l’archiviazione (e il richiamo) dei
ricordi stessi. La submodalità “posizione” si veste così di una rilevanza basilare nella
rappresentazione del tempo poichè in essa è racchiusa la capacità di registrare tutte le
variabili (cambiamenti) associate all’evento stesso con tutta la gamma di distinzioni e
risposte che ne costituiscono il bagaglio informativo.
L’uso del concetto spaziale di “posizione” nella gestione dei ricordi, consente di archiviare
il tempo avanti, dietro, attorno, sopra o sotto con un’efficacia che le altre submodalità
(visive o auditive) non possono avere. Un’immagine del passato richiamata dalla memoria,
viene arricchita di caratteristiche e connotazioni spaziali in termini di posizione, distanza e
dimensione che rendono la rappresentazione del tempo e la sua organizzazione mentale
funzionale ai nostro processi cognitivi.
Tempo e spazio dunque esattamente correlati tra loro. Si tratta di entità sovrapponibili? È
preferibile definirli duali. Lo spazio però è solo un attributo della materia: se non c’è
materia non c’è spazio. Ed è per questo che lo spazio euclideo è contraddistinto da tre
dimensioni fisiche con le quali percepiamo e misuriamo l’esistenza della materia: altezza,
lunghezza e profondità.
Nello spazio dunque esisterebbero infiniti punti di dimensione infinitamente piccola. La
misurabilità assoluta della posizione di un punto (ad esempio) diventa però impossibile in
quanto nessun punto dell’insieme di punti può diventare un riferimento assoluto.
Questo implica che anche lo spazio ha un’esistenza non oggettiva?
Se prendiamo un segmento nello spazio, ossia una sequenza di punti aventi un inizio e
una fine, ci accorgiamo che la serie di punti che lo costituisce (che per definizione sono
infinitamente piccoli), determina l’esistenza di qualcosa che non può avere limiti in quanto
non possono esistere un inizio e una fine assoluti. All’interno dello spazio, che dovrebbe
essere il “contenitore” del segmento, ossia di qualcosa che per quanto grande deve avere
dei limiti, esiste in realtà qualcosa che non può avere limiti, ovvero è infinito. Può una cosa
finita contenere qualcosa di infinito? Sembrerebbe di no anche se.... anche se lo spazio
esiste se esiste la materia. Di conseguenza la materia rappresenta la ragione stessa di
esistenza dello spazio ma anche il suo limite: oltre la materia non può esserci spazio. E
qui torniamo però al concetto di infinito che è proprio legato allo spazio e al tempo.
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Se è vero che le più recenti teorie cosmologiche ritengono lo spazio (e quindi l’Universo)
finito, seppur in espansione, è anche vero allora che esistono dei limiti, dei confini, delle
frontiere spaziali e temporali entro cui l’Universo esiste.
Se esiste un istante primo al tempo t0 che ha dato vita all’Universo, deve necessariamente
esserci anche una fine. Non può esistere un inizio senza un termine, altrimenti dovremmo
sostenere l’uguaglianza tra l’infinito e ciò che ha avuto un inizio ma non ha una fine. Il che
è assurdo per definizione visto che “infinito” significa “senza un inizio, senza una fine”.
Il tempo quindi sarebbe “temporalmente finito” (mi si passi il gioco di parole). E lo sarebbe
anche in un’ottica stoicistica in cui l’Apocastasi, ossia la ciclicità del tempo secondo gli
antichi Greci, governerebbe l’andamento degli eventi in un susseguirsi di cicli distruttivi
(ekpirosi) e cicli costruttivi (palingenesi). Se assumiamo però come vero il principio fisico
per cui l’energia non può ciclicamente rigenerarsi al 100% perché parte di essa deve
necessariamente essere impiegata e consumata per compiere un lavoro, dobbiamo
sostenere che l’Universo deve avere avuto un inizio e quindi una fine.
Il concetto di inizio e di fine porta a considerare il fattore quantità. Parlare di quantità e
applicarne il principio allo spazio e al tempo può avere senso solo da un punto di vista
percettivo. Quantificare infatti lo spazio e il tempo, significa porre dei limiti entro i quali
queste due variabili “si muovono”. Anche in questo caso però ci troveremmo in difficoltà
perché qualunque quantità di qualunque cosa può tendere all’infinito semplicemente
aggiungendo ad essa una quantità unitaria epsilon infinitamente piccola in un processo
esso stesso infinito. Il concetto di quantità allora non può applicarsi a qualcosa come il
tempo e lo spazio se non stabiliamo aprioristicamente che spazio e tempo hanno dei limiti.
Automaticamente però una tale asserzione non rende infiniti tempo e spazio ma li rende
definibili solo in funzione dei propri limiti. Se lo spazio ha dei limiti cosa c’è al di fuori? Non
il “vuoto” come verrebbe spontaneo pensare ma il “nulla”, l’indefinibile, qualcosa non
soggetto alle regole, alle leggi naturali e ai principi che sembrano governare lo spazio e il
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tempo nella nostra “realtà”. In altre parole: stante le asserzioni di cui sopra non può
esistere uno spazio infinito, dove per infinito si intende “senza limiti” e pertanto nemmeno il
tempo che ne è l’entità duale. Se ammettessimo infatti l’esistenza di uno spazio infinito
contraddirremmo la nostra asserzione secondo cui ciò che ha avuto un inizio deve avere
anche una fine. Potremmo chiamare “spazio” e “tempo” una tale indefinita e indefinibile
entità? Analogamente possiamo chiederci: cosa distinguerebbe l’infinitamente grande
dall’infinitamente piccolo? Cosa potrebbe permettere di discriminare e riconoscere un
Universo infinitamente ampio da un punto geometrico infinitamente piccolo? Niente,
assolutamente niente perché entrambi non hanno limiti e non possono esistere due infiniti:
l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Esiste un solo, unico infinito uguale soltanto
a sé stesso.
Parlare in termini di finito/infinito, di limite/illimitato non porta ad alcun sbocco se alla
teorizzazione di tali concetti non si affianca un deciso salto qualitativo che faccia sì che un
livello trascenda il livello che lo procede fino a ridisegnarne completamente gli ambiti di
esistenza.
Un processo di questo tipo assumerebbe un significato particolare se si superasse la
concezione geometrica dello spazio/tempo. Soltanto uscendo dal concetto di “limite”, di
confine, misurabile e percepibile (che spesso si traduce in “controllabile”) si può
olrepassare il “limite della concezione dei limiti” entro il quale spesso ci rinchiudiamo.
Mediante una visione diversa delle cose questo passaggio diviene possibile. Parliamo di
qualcosa che valichi i concetti di spazio e di tempo e che a proposito di quest’ultimo
elabori una coscienza strutturata su livelli multipli che sia una vera e propria azione
ordinatrice sulla quale organizzare radicalmente e intimamente la coscienza di noi stessi e
del mondo. In altre parole: superare l’idea del chronos, della semplice quantizzazione del
tempo associata sola alla misurabilità della distanza tra gli eventi, per amplificare il kairos,
il tempo qualitativo, legato alla percezione della coscienza, ciò che permette la
conoscenza e l’apprendimento della realtà e degli eventi a un livello più intimo e profondo.
Citando Bodenhamer e Hall (2): “Quando siamo venuti al mondo, le nostre madri hanno
sperimentato un fondersi di chronos e kairos; quando arrivò il loro tempo per partorirci,
quel momento opportuno (kairos) comportò la loro esperienza qualitativa – che sia stata
positiva o negativa è comunque un momento indimenticabile nel tempo. Come tale il loro
tempo si riferisce a ciò che accadde in quel momento e al modo in cui accadde: la loro
storia nel tempo. Tuttavia, esternamente, il tempo (chronos) che il medico o l’infermiera
registrarono sul certificato di nascita specificava l’ora, il giorno e l’anno in cui quello
speciale evento era avvenuto: il tempo oggettivo”.
Questa più alta percezione è prerogativa di qualcosa che non ha spazio e non ha tempo
semplicemente perché è oltre lo spazio e il tempo. L’essenza che costituisce ogni cosa
senza tempo perché fatta solo di pura informazione è l’Anima. È solo l’Anima, ricordando
ancora Sant’Agostino, che è in grado di distinguere e misurare il tempo perché il tempo
stesso è creazione dell’Anima (3).
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L’Anima quindi, informazione pura priva di spazio e di tempo, permette a qualsiasi cosa di
manifestarsi ed esistere nella realtà spazio-temporale, creando la materia, lo spazio
(attributo della prima) e il tempo. Il tempo diviene perciò un effetto della manifestazione
dell’Anima attraverso la materia. Ciò che non ha massa non ha tempo e ciò che non ha
tempo non può evolvere.
Citando l’ottimo Fabio Marchesi nel suo “La fisica dell’Anima” (4), possiamo affermare
che: “La tua Anima non ha tempo perché non è fatta di materia: è informazione pura. Non
avendo tempo non può cambiare, non può evolvere. Grazie al tempo, anche Anima può
avere la possibilità di cambiare il suo valore assoluto ed essenziale ed evolvere. La
materia le serve perché è grazie ad essa che esiste il tempo. Solo così, solo per mezzo di
un corpo che vive esperienze nel tempo, l’Anima può evolvere. È questo il suo scopo...”
“... Il vero, unico scopo della materia è quello di permettere all’Anima di evolvere. Il vero,
unico scopo del tuo corpo, della tua vita, delle tue esperienze, è quello di dare alla tua
Anima la possibilità di evolvere. Tutto il resto è niente”.
La consapevolezza quindi dell’azione evolutiva e coscienziale dell’Anima passa dal tempo,
attributo esso stesso della materia. È questo il segreto della comprensione. L’Universo
diventa così una proiezione di elementi in continua interazione, gli uni con gli altri per i
quali il cambio di posizione o il mutamento percepito degli eventi, si ripercuote sull’ordine
dell’intero “sistema”. Perché il tutto è più della somma delle parti. Il significato delle cose
non risiede solamente nella presenza/assenza degli elementi costitutivi ma
nell’informazione che in essi è racchiusa, informazione che evolve costantemente
raggiungendo diversi e sempre più ampi livelli di consapevolezza. In altre parole la realtà
non è soltanto materia ma anche forma coesistente in un Tutto coerente e unitario.
Ecco la ragione dell’esistenza dell’Anima... l’unica entità in grado di percepire tutto questo
avendone una consapevolezza universale e totalizzante.
Ma se Anima è informazione pura tutto è Anima! Tutto ciò che esiste e che ha una sua
organizzazione è Anima. Un elettrone avrà un’anima estremamente semplice, un essere
umano molto più evoluta ma ciò che conta (e che appare maggiormente significativo) è
che in entrambi i casi esiste un concetto informativo associato alla presenza di una massa
e di un’energia, elettromagnetica in un caso, vivente nell’altro.
L’Uomo, massima espressione della complessità vivente e cosciente, ha in più la
possibilità di creare grazie all’azione mediatrice del pensiero che altri non è che
“l’interfaccia” tra l’Anima e la realtà spazio-temporale circostante. Questa capacità viene
manifestata mediante il libero arbitrio. È il libero arbitrio che consente di elaborare e
produrre pensieri, comportamente ed azioni sempre più articolati ed evoluti finalizzati a
determinare le esperienze che servono ad Anima come nutrimento per la propria
evoluzione. Il libero arbitrio è la facoltà vivente più forte e completa perché consente a chi
ne è dotato (l’Uomo) di rispettare ma anche di contrastare consapevolmente le
informazioni che ne permettono l’eistenza. In questo sta la sua grandezza e la via più
efficace e totale verso l’evoluzione.
Lo scopo della materia, creata dall’Anima, è quindi quello di creare il tempo, ossia
l’elemento che permette il cambiamento e l’evoluzione, non la sua conservazione tout
court. Possiamo quindi affermare che il fine della vita non è la conservazione
indiscriminata del corpo fisico che la accompagna ma il perseguimento degli obiettivi
dell’Anima che compirà i più significativi salti evolutivi assimilando e vivendo le più diverse
esperienze possibili.
La fine fisica diviene così la condizione necessaria affinchè l’evoluzione progredisca e
diventi “utile” all’intero Universo.
Citando ancora Fabio Marchesi... : “Immaginati un mondo dove ogni essere vivente, dal
più piccolo virus ai dinosauri, non fosse mai morto, mantenendo invece la possibilità di
procreare. La vita sul pianeta sarebbe stata impossibile già milioni di anni fa e noi oggi non
potremmo essere quello che siamo. Senza l’evoluzione del corpo anche l’evoluzione
dell’Anima non sarebbe stata possibile: immagina come la nostra Anima potrebbe oggi
vivere esperienze solo con il corpo di un dinosauro... La morte è necessaria alla vita”.
Questo è il senso del tempo, il senso del kairos. Ed è questo che permette ad Anima di
evolvere e determinare lo sviluppo e l’esistenza dell’intero Universo.

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