domenica 15 giugno 2008

EPICURO
(341-270 a.C.)

a cura DI D. PICCHIOTTI

"Vuoto è l'argomento del filosofo che 
non dà sollievo all'umana sofferenza"
Epicuro (letteralmente "salvatore") nacque sull'isola di Samo, suo padre era un maestro e sua madre una maga. Appassionato di filosofia sin da giovane, a quattordici anni lasciò l'isola per studiare con il platonico Panfilo e l'atomista Nausifane, che gli fece conoscere il pensiero di Democrito. 
 Soggiornò poi ad Atene, a Colofone, a Mitilene e a Lampsaco, quindi nel 306 a.C., insoddisfatto dell'insegnamento altrui, aprì ad Atene la sua scuola filosofica in una casa con un ampio terreno adibito a giardino, dove i seguaci vivevano in comunità (per questo vennero chiamati "filosofi del Giardino").
1. L'adesione all'atomismo
La filosofia di Epicuro fu principalmente filosofia etica, ma questo suo carattere pratico non escluse comunque un approccio di fondo più propriamente "metafisico", Epicuro fu infatti un convinto sostenitore dell'atomismo democriteo. Sua ferma convinzione era che "nulla nasca dal nulla" e che "nessuna cosa si dissolva nel nulla" (e in questo assunto era fedele ai primi filosofi della physis). Se l'evidenza del divenire come nascere e dissolversi delle cose è comunque certa perché dato immediato dell'esperienza, la spiegazione della realtà non può comunque privarsi di un fondo razionalista. Tutte le cose, infatti, pur mutando, devono preesistere in una forma immutabile. Gli enti nascono dall'aggregazione di particelle semplici e indivisibili (gli atomi) che si dividono e ritornano al loro stato elementare quando gli stessi enti si disgregano. Non esiste quindi una distruzione assoluta degli enti: gli atomi rimangono eterni e incorrotti, mentre sono le forme che mutano e si dissolvono.

2. Tutto è caos, niente è necessità
Ma se per Democrito il movimento che generava il vortice atomico era determinato da una precisa legge di necessità (gli atomi più leggeri salivano verso l'alto e quelli più pesanti cadevano verso il basso), per Epicuro il movimento degli atomi è totalmente casuale: "nell'universo non esiste alcun ordinamento prestabilito e immutabile, e tutto ciò che esiste è casuale e fortuito, quindi assolutamente sprovvisto di scopo e di senso." (E. Severino, La filosofia antica). Da questo consegue che l'uomo non è vincolato ad alcun destino predefinito, come invece affermavano gli stoici, e che nemmeno gli dei si interessano delle questioni umane, per dirla come Epicuro "gli dei non si occupano del destino degli uomini poiché si godono indifferenti la loro beatitudine".
Epicuro afferma che all'idea del Fato che ci vincola nella sua necessità sarebbero preferibili anche gli antichi miti sugli dei, ritenendo che la felicità dell'uomo debba passare per la coscienza che non esiste alcuno scopo e alcuna logica che sottende gli eventi. Dunque, mentre per Kierkegaard e Sartre questa assenza di scopi dell'esistenza conduce all'angoscia e alla nausea, in Epicuro la totale gratuità della condizione umana è prerogativa di felicità, poiché libera l'uomo dal turbamento che lo coglie quando si sente oppresso dalla logica delle punizioni e delle ricompense divine. E' dunque la liberazione dall'inganno e dall'errore della superstizione che produce nell'uomo la tranquillità dell'animo.

3. Le affezioni: il piacere e il dolore
Scrupolo di Epicuro è attenersi il più possibile all'evidenza originaria delle cose, poiché è nell'evidenza che si mostra la verità. Epicuro ritiene quindi di individuare negli uomini due stati d'animo innegabili e originariamente irriducibili: il piacere e il dolore. Questi stati d'animo, che vengono chiamati da Epicuro "affezioni", sono i due sentimenti che muovono tutte le azioni degli uomini. Il piacere è quindi principio di bene, il dolore è invece sintomo di errore e quindi di male, queste sono verità originarie e di per sé evidenti che non hanno bisogno di essere provate.
Oltre alle affezioni, da ricordare che per Epicuro sono evidenze innegabili anche gli stati sensibili (il caldo, il freddo, la luce, il buio, il dolce, il salato, ecc.), e anche le cosiddette "prolessi", ovvero quelle rappresentazioni generali della mente che ci danno il senso degli eventi presenti sulla base dell'esperienza di quelli passati).
Dunque è evidente la radice "materialista" dell'epicureismo: sono gli stati sensibili gli unici fatti che godono il privilegio di un'evidenza innegabile e quindi possono dirsi verità.

4. La vera felicità (e il vero piacere)
Ma, contrariamente a quello che si può pensare, per Epicuro la vera felicità non consiste nel piacere dei dissoluti. Come già per Socrate, Epicuro afferma che un piacere che conduce a successivi affanni non può dirsi vero piacere. Il vero piacere è un piacere che è già compiuto in sé, che non si incrementa e non decresce, resta stabile, perché rappresenta la perfezione. A questo tipo di piacere si arriva per sottrazione del dolore: il vero piacere è quindi assenza di dolore fisico (aponia, "privo di pena") che spirituale (atarassia, "privo di turbamento").
Sul dolore fisico Epicuro sostiene che se è lieve non può offuscare il piacere di vivere, se è acuto, dura poco e se acutissimo conduce presto alla morte. In quanto alla morte, Epicuro ripropone la natura materialista della sua dottrina: il corpo è un'aggregazione di atomi, tutti gli stati dolorosi e sensibili provengono dal corpo in quanto aggregazione, la morte è disgregazione degli atomi, quindi la morte è assenza di dolore perché è assenza di percezioni. Con le parole di Epicuro: "Nulla c'è di temibile nel vivere per chi sia veramente convinto che nulla di temibile c'è nel non vivere più".
Una volta però accettata la morte come annullamento del corpo e assenza del dolore, resta il fatto che la morte può impedire di fatto che si viva la felicità, e per questo può essere un male. Epicuro ribatte allora che se la vera felicità, il vero piacere, è l'assenza del dolore, allora il massimo piacere che un uomo può provare in vita non è superabile una volta raggiunto, poiché non si può, una volta tolto il dolore, pretendere di togliere altro. La vera felicità è già compiuta in sé, e non basterebbe quindi l'eternità per raggiungere una felicità più grande. L'uomo che non conosce la felicità come assenza del dolore è destinato a soffrire invece per tutta la vita, alla ricerca continua di nuovi piaceri che mai soddisferanno la sua sete di felicità.

5. L'ignoranza genera dolore
L'uomo è destinato a provare dolore se non conosce la verità, e la verità si rispecchia nel saper distinguere il vero piacere dal piacere dei dissoluti. La saggezza e la sapienza conducono quindi all'autentica felicità, in quanto è grazie al loro apporto che l'uomo si mette in quella disposizione d'animo che lo conduce a fare chiarezza sulle cose. Il vero piacere è l'assenza del dolore, ma ignorandone il significato l'uomo non può che cadere nell'errore, è dall'ignoranza che scaturiscono tutti i mali, le pene e le cure. Partendo da questa verità, presente alla coscienza del saggio e del sapiente, l'uomo può finalmente derivare tutto quell'insieme di regole di vita che permettono all'uomo di curare il male dell'anima (e sopportare dunque con maggiore coraggio il male del corpo). Se l'ignoranza del vero senso del piacere conduce al dolore, la verità conduce allora al piacere.
Compito della filosofia epicurea è quindi dare all'uomo un metodo valido per superare la percezione del dolore e dell'infelicità, veri mali del mondo. E' dunque funzione della filosofia, che consiste infatti "nell'aver cura della sapienza", fornire l'uomo dei mezzi più validi per chiarire il vero significato del piacere e quindi della felicità, perché non conoscendone il vero significato, gli uomini sarebbero in balia di quell'ignoranza che li farebbe brancolare nel buio, impedendo loro di approdare alla serenità dell'animo.

6. Il tetrafarmakon e la scala dei piaceri
E' in ragione di quanto si è detto che la filosofia epicurea si costituisce come vero "farmaco" per l'anima (pharmakon significa "medicina"). Epicuro stila dunque una lista di quattro regole auree per la serenità dell'animo, il tetrafarmakon (altrimenti detto "quadrifarmaco"):
1. Se anche gli dei esistono, non si interessano comunque delle vicende umane; 
2. Essendo disgregazione degli atomi del corpo, e quindi assenza di percezione, la morte, in sé, non costituisce dolore; 
3. Il piacere è accessibile a tutti; 
4. Se un dolore è acuto, allora conduce presto alla morte (che è assenza di percezione e quindi di dolore), se è breve, è sopportabile.
Ecco dunque il "breviario" della pratica epicurea: la prima regola permette di liberare l'uomo dal timore del castigo divino, la seconda lo libera dal timore della morte, la terza indica ad ogni uomo che può raggiungere la felicità, la quarta permette di affrontare con la giusta serenità il dolore fisico.
Esiste poi una scala dei piaceri che permette di discernere il piacere più autentico da quelli accessori, alla base vi sono i piaceri indispensabili ad una vita felice, oltre si pongono i piaceri che possono anche essere trascurati e non sono necessari per il conseguimento della felicità.
I piaceri fondamentali e necessari, senza i quali l'uomo non può essere felice, sono quelli naturali: l'amicizia, la libertà, la consolazione e il conforto del pensiero e della parola, ma anche un riparo per il corpo, del cibo, dei vestiti.
Giungono poi i piaceri naturali ma non del tutto necessari, quali, ad esempio, una grande dimora, uno stuolo di servitori, i banchetti, le terme, l'abbondanza delle portate, il lusso e la ricercatezza. Tali piaceri possono sia alla felicità che all'infelicità, in quanto si possono provare anche ignorando la verità circa la vera natura della vita felice.
Infine vi sono i piaceri del tutto accessori (i piaceri dei dissoluti), come, ad esempio, la fama, il potere e la gloria (i quali sono anche dannosi).
Un motto degli epicurei era "vivi nascosto": contrariamente agli stoici, che predicavano la partecipazione attiva alla vita pubblica, gli epicurei prediligevano la cura della propria anima. Epicuro non predicava quindi l'eccesso e l'abbondanza (come talora si può essere portati a credere secondo l'uso moderno del termine "epicureo"), ma la ricerca e il conforto del necessario.

7. Tre ingredienti per la felicità
L'amicizia. "Di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita il più grande di tutti è l'acquisto dell'amicizia."
Epicuro teneva in gran conto la vera amicizia. Il vero amico è colui che ama e rispetta l'altro per ciò che è e non per ciò che possiede. Tra veri amici si crea intimità, si condividono malinconie, ci si conforta. L'amicizia è in grado dare sicurezza nella misura in cui ci sentiamo compresi e accettati.
Sfidando i costumi, Epicuro e i suoi seguaci vissero in una grande casa priva di lusso e di decori, tuttavia coltivavano ciò di cui avevano bisogno per mangiare, e, cosa più importante, mangiavano assieme. "...dilaniare carni senza la compagnia di un amico è vita da leone e da lupo".
La libertà. L'uomo libero è già a un passo dalla vera felicità, l'uomo che si libera dalle opinioni altrui lo è ancora di più. Si è già visto come per Epicuro la libertà dal volere degli dei sia già di conforto, a maggior ragione la libertà dell'uomo di fronte al proprio destino o a qualsiasi destino imposto da altri uomini è motivo di felicità e di piacere.
Il pensiero, la parola e la scrittura consolatoria. La comunità epicurea era votata alla discussione dei problemi e alla riflessione. Molti degli amici di Epicuro erano scrittori e poeti. Epicuro amava discutere ed esaminare le proprie ansie legate al possesso del denaro, alle preoccupazioni legate alla salute, alla morte e all'aldilà. Discutere razionalmente della morte avrebbe aiutato, secondo il filosofo, ad alleviarne la paura. L'analisi lucida delle ansie e delle paure, sia per mezzo della discussione che della scrittura, se non è un rimedio assoluto, è tuttavia una consolazione, cosa che, a fini pratici, è tutt'altro che da sottovalutare.
"Ciò che al presente non ci turba, stoltamente ci addolora quanto è atteso". Questa frase riassume bene l'atteggiamento filosofico di Epicuro: la vita è pratica di felicità, non conviene pensare a ciò che potrà accadere in futuro se questo implica la rovina della propria serenità presente.

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