IL NOVECENTO " Caratteri generali sul Novecento"
a cura DI D. PICCHIOTTI
Mai come nel Novecento la cultura artistica ha conosciuto una tale velocità di evoluzione. Nel corso di questo secolo le novità e le sperimentazioni artistiche si sono susseguite con ritmo talmente incalzante da fornire un quadro molto disomogeneo in cui è difficile la organizzazione del tutto in pochi schemi interpretativi. Decine e decine di movimenti e di stili si sono succeduti, esaurendo la loro presenza, a volte, nel giro di pochi anni o al massimo di qualche decennio.
La storiografia di questo secolo, nella maggior parte dei casi, risulta un elenco, più o meno dettagliato, dei tanti movimenti e protagonisti apparsi alla ribalta della scena artistica. Ciò, tuttavia, fornisce scarsi riferimenti di catalogazione critica. Un diverso approccio all’interpretazione artistica del Novecento può ottenersi ricorrendo a categorie dell’àmbito culturale più generali. In particolare, con riferimento agli inizi del Novecento, le categorie critiche più agevoli risultano soprattutto tre:
1. la comunicazione
2. la psicologia
3. il relativismo.
1. La comunicazione
La comunicazione è quell’atto mediante il quale si ottiene una trasmissione di informazioni da un soggetto (emittente) ad un altro soggetto (ricevente). Il mezzo di trasmissione della comunicazione è il linguaggio. Affinché avvenga una comunicazione, condizione essenziale è che il linguaggio deve essere conosciuto da entrambi i soggetti: l’emittente ed il ricevente.
Nell’ambito dell’arte molti possono essere i linguaggi utilizzabili: dalle parole (poesia) alle immagini (pittura), dai suoni (musica) ai movimenti del corpo (danza) e così via. Alcuni linguaggi posseggono una universalità, quali la musica, che possono in genere essere compresi da tutti. Altri linguaggi richiedono una conoscenza specifica: per poter leggere una poesia bisogna conoscere la lingua in cui è stata scritta.
Le immagini possono essere considerate un linguaggio anch’esso universale, purché esse rimangano nell’ambito della rappresentazione naturalistica. Ricordiamo che definiamo «naturalistiche» quelle immagini che propongono una rappresentazione della realtà simile a quella che i nostri occhi propongono al cervello. Le immagini naturalistiche rispettano i meccanismi fondamentali della visione umana: la prospettiva, il senso della tridimensionalità, la colorazione tonale data dalla luce, e così via.
Il naturalismo è sempre rappresentazione della realtà in quanto ne segue le leggi fondamentali di strutturazione. La gran parte dell’arte occidentale ha sempre utilizzato il naturalismo per la rappresentazione artistica. Ciò ha permesso all’arte figurativa di essere un mezzo di comunicazione più popolare e diffuso che non la scrittura.
Nel corso dell’Ottocento, la nascita prima della fotografia e poi della cinematografia, ha permesso la riproduzione della realtà con strumenti tecnici pressoché perfetti. Ciò ha decisamente tolto alla pittura uno dei suoi scopi ritenuti specifici: quello di riprodurre in immagini la realtà. Se la cosa poteva apparire negativa, di fatto ha imposto alla pittura una diversa impostazione del suo fare. Abbandonato il terreno della rappresentazione, e quindi del naturalismo, l’arte figurativa ha cominciato ad esplorare i vasti ed inediti territori della comunicazione.
In sostanza, l’arte moderna non ha più interesse a «rappresentare» la realtà. L’arte moderna usa le forme per «comunicare» pensieri, idee, emozioni, ricordi e quanto altro può risultare significativo. Pertanto, nell’approccio all’arte moderna, non bisogna mai porsi l’interrogativo, guardando un’opera d’arte, cosa essa rappresenti ma cosa essa comunichi.
Tuttavia, la comunicazione richiede sempre un linguaggio che deve essere noto sia all’artista sia al fruitore dell’opera. Il naturalismo, abbiamo detto, è un linguaggio universale in quanto rispetta le regole universali della visione umana. L’arte moderna, abbandonando il naturalismo, di fatto abbandona il linguaggio comunicativo più diffuso e popolare. E così è costretta, ogni volta, ad inventarsi un nuovo linguaggio. Con il rischio che i linguaggi nuovi non vengono sempre assimilati e compresi, producendo di fatto l’incomprensibilità del messaggio che l’artista voleva trasmettere.
E ciò produce un singolare paradosso: l’arte moderna vuole solo comunicare ma per far ciò sceglie spesso la strada della incomunicabilità. O, per lo meno, impone, prima di capire il messaggio, la necessità di studiare il nuovo linguaggio utilizzato dall’artista. Ciò comporta che l’arte moderna necessita di un approccio «colto». Solo studiando da vicino le problematiche, connesse ai movimenti ed ai singoli artisti, diviene possibile comprendere il significato di un’opera d’arte.
2. La psicanalisi
La nascita della psicanalisi, grazie a Sigmund Freud, ha rivoluzionato il concetto dell’interiorità umana. Se prima l’articolazione della psiche veniva posta sul dualismo ragione-sentimento, ora viene spostata sul dualismo coscienza-inconscio.
L’inconscio è quella parte della nostra psiche in cui sono collocati pensieri ed emozioni nascoste, le quali, senza che l’individuo se ne renda conto, interagiscono con la sua coscienza orientando o influenzando le sue preferenze, motivazioni e scelte esistenziali.
L’aver individuato questo nuovo territorio dell’animo umano ha aperto notevoli possibilità all’arte moderna. Il linguaggio delle parole, essendo un linguaggio logico, consente la comunicazione più immediata e diretta con la coscienza delle persone, ove di fatto ha sede la razionalità umana. Il linguaggio delle immagini, data la sua natura di linguaggio analogico, si presta meglio ad esplorare, o a comunicare, con l’inconscio delle persone.
Alcuni movimenti artistici sono nati proprio con l’intenzione di tradurre in immagini ciò che ha sede nell’inconscio. Tra tutti, chi ha scelto con maggior impegno questa strada è stato soprattutto il Surrealismo. Ma tale interesse ha alimentato anche la poetica di altri movimenti avanguardistici dell’inizio secolo, quali l’Espressionismo e l’Astrattismo.
Tuttavia, rimane costante a tutti i movimenti del Novecento, la finalità di una comunicazione che sia «totale»: ossia, giunga anche ai territori più profondi e recessi della psiche umana.
3. Il relativismo
Nel corso del Novecento si assiste ad una sempre maggiore frantumazione delle epistemologie forti. Cadono le certezze, sia dovute alla religione, sia quelle riposte nella scienza, sia quelle della politica o della filosofia. L’uomo si sente sempre più immerso in un mondo incerto, dove tutto è relativo. A questa conclusione sembra giungere anche la scienza che, con la Teoria della Relatività di Einstein, porta a riconsiderare tutto l’impianto di certezze fisse su cui era costruito l’edificio della fisica.
Ad analoghe posizioni giungono gli scrittori, quali Luigi Pirandello, che con le sue opere letterarie e teatrali vuole dimostrare come la verità sia solo un «punto di vista» che varia da persona a persona. In campo filosofico la comparsa dell’esistenzialismo contribuisce a ridefinire la realtà solo in rapporto al singolo individuo.
Questo nuovo clima culturale non poteva non incidere sul panorama artistico. Venuta meno la certezza di una verità assoluta, ogni sperimentazione sembra muoversi nel campo di una preventiva ricerca di sé. Nasce l’esigenza di manifestare preventivamente le proprie intenzioni per dare le coordinate entro cui collocare la nuova esperienza estetica. E ne è la riprova il fatto che quasi tutti i movimenti avanguardistici dei primi anni del secolo nascono con dichiarazioni programmatiche, quali i manifesti, che servono proprio a questo scopo.
In seguito, la ulteriore frammentazione della ricerca artistica, rimette in gioco anche la partecipazione del fruitore dell’opera d’arte, al quale si chiede una partecipazione attiva alla significazione del fare artistico. In questo caso, l’arte, più che dare delle risposte, propone delle domande, lasciando il senso di quanto proposto alla libera, e a volte diversa, interpretazione del pubblico e dei critici. La necessità di un rapporto così problematico all’arte contribuisce in maniera, a volte decisiva, a rendere l’arte moderna sempre meno popolare e sempre più élitaria.
Concetto di avanguardia
I numerosi movimenti artistici sorti all’inizio del Novecento, sono stati tutti caratterizzati da una volontà di rottura con il passato. Questa forte carica di rinnovamento, li ha di fatto posti in prima linea nell’ambito delle nuove ricerche artistiche. Ciò ha determinato l’appellativo, dato a questi movimenti, di «avanguardie». Tutto il Novecento, in realtà, è stato caratterizzato da un clima di sperimentazione continua. Ma, per delimitare quelli che sono stati i primi movimenti di rinnovamento, vi è la convenzione di definirli «avanguardie storiche».
Lo spazio temporale di questo fenomeno coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale. Le prime avanguardie sorgono intorno al 1905, con l’Espressionismo; le ultime agli inizi degli anni ’20, con il Surrealismo (1924).
Parigi, nel corso del XIX secolo, si era affermata come la capitale europea in campo artistico. Il fenomeno delle avanguardie storiche interessa invece tutta l’Europa, anche se Parigi continua a conservare un ruolo determinante nel campo artistico. Le prime due avanguardie sorsero infatti nella capitale francese. Nel 1905, si costituì il gruppo dei Fauves, che rappresenta il primo movimento di ispirazione espressionistica. Nello stesso anno l’Espressionismo si diffuse soprattutto in Germania e nei paesi nordici. Nel 1907, grazie a Picasso e Braque, sempre a Parigi sorse il movimento del Cubismo.
Anche il Futurismo, che è un’avanguardia decisamente italiana, partì da Parigi. Qui, infatti, sul quotidiano Le Figaro, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò nel 1909 il «Manifesto del Futurismo». Il Cubismo e il Futurismo produssero influenze notevoli in Russia, dove in quegli anni sorsero movimenti quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
Anche la seconda avanguardia italiana di quegli anni, la Metafisica, in embrione nacque a Parigi, dove Giorgio De Chirico, il massimo rappresentante del movimento, svolse parte della sua attività giovanile.
Una cesura notevole nello sviluppo delle avanguardie fu determinato dallo scoppio, nel 1914, della prima guerra mondiale. Numerosi artisti furono costretti a partire per il fronte bellico, e molti di essi morirono in guerra. A Zurigo, nella neutrale Svizzera, si rifugiarono numerosi artisti ed intellettuali, e qui nacque, nel 1916, il movimento di maggior rottura tra le avanguardie storiche: il Dadaismo.
Dal Dadaismo e dalla Metafisica, nel 1924, nacque quella che viene considerata l’ultima delle avanguardie storiche: il Surrealismo. Anche qui, il centro di maggior irradiamento del nuovo movimento fu soprattutto Parigi e la Francia.
Infine, pur se non può essere considerato un movimento omogeneo e compatto, le avanguardie storiche produssero il fenomeno di maggior novità nell’arte del Novecento: l’Astrattismo. L’abbandono definitivo della mimesi naturalistica avvenne intorno al 1910, grazie soprattutto ad un artista di origine russa, ma operante in Germania: Wassilj Kandiskij. La sua formazione artistica è di matrice espressionistica, tanto che l’Astrattismo, nella sua fase iniziale, può essere considerato un estremo limite dell’Espressionismo. In seguito, l’Astrattismo conobbe sviluppi notevolissimi, divenendo, soprattutto nel secondo dopoguerra, terreno fertile per numerose sperimentazioni, che attraverso l’arte Informale e l’arte Concettuale, arrivano fino ai giorni nostri.
Il fenomeno delle avanguardie si spense intorno agli anni ’30. La foga rinnovatrice aveva momentaneamente esaurito la sua carica rivoluzionaria. A questo momento di pausa artistica, corrispose, in quegli anni, l’affermazione, in campo politico, di regimi totalitari e reazionari, quali il fascismo in Italia e il nazismo in Germania, che si fecero fautori di un indirizzo artistico di stampo tradizionalistico e accademico. Avversarono apertamente i nuovi stili artistici, arrivando in Germania a definirli «arte degenerata», eliminandola dai musei e dalle collezioni statali. Molti esponenti artistici che avevano operato in Germania furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti, dove trasferirono molte delle novità culturali prodotte in Europa. Un fenomeno analogo accadde in Russia, dove, sotto Stalin, si affermò un indirizzo artistico, definito «realismo socialista», che rifiutava la sperimentazione, in favore di un’arte di matrice popolare, con forti contenuti ideologici.
Ma le avanguardie storiche avevano oramai totalmente modificato il concetto di arte visiva. In pochi anni avevano accumulato un patrimonio enorme di idee e di concetti, che divennero la vera eredità per tutti i futuri movimenti che si sono sviluppati in campo artistico fino ai giorni nostri.
L’Espressionismo
Il termine espressionismo indica, in senso molto generale, un’arte dove prevale la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori emozionali ed espressivi. In tal senso, il termine espressionismo prende una valenza molto universale. Al pari del termine «classico», che esprime sempre il concetto di misura ed armonia, o di «barocco» che caratterizza ogni manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, il termine «espressionismo» è sinonimo di deformazione.
Nell’ambito delle avanguardie storiche, con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale.
Alla nascita dell’Espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch ed Ensor. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti.
Il primo movimento che può essere considerato espressionistico, nacque in Francia nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero dispregiativamente indicati alcuni pittori, che esposero presso il Salon d’Automne quadri dall’impatto cromatico molto violento. Fauves, in francese, significa «belve». Di questo gruppo facevano parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica era il colore, steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto decorativa. Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori, i fauves presero la sensibilità per il colore acceso, e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale.
Nello stesso anno, il 1905, che comparvero i Fauves si costituì a Dresda, in Germania, un gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte). I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità, che, ad esempio, nei Fauves non era presente. Nell’espressionismo nordico, infatti, prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento.
Alla definizione dell’espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori quali Munch ed Ensor. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore. Un grido che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo.
Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco, nel 1911: «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandiskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta decisiva. Nella pittura fauvista, o dei pittori del gruppo Die Brücke, la tecnica era di rendere «espressiva» la realtà esterna, così da farla coincidere con le risonanze interiori dell’artista. Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente principale era l’espressione interiore dell’artista, che, al limite, poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente astratta, il passo era breve. Ed infatti, fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’astrattismo totale.
Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra, e Franz Marc, partito per il fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius. All’interno di questa scuola, l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando l’espressionismo e l’astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica.
Il termine espressionismo nacque come alternativa alla definizione di impressionismo. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde. L’impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce ed l’occhio. In tal modo, cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità, cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici che rendono piacevole ed interessante uno sguardo sul mondo esterno.
L’espressionismo, invece, rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio, secondo l’espressionismo, è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo, non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno.
Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli, e vissuta quasi con spensieratezza.
Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta, con tanta enfasi, nella storia dell’arte occidentale.
Da un punto di vista stilistico, la pittura espressionista muove soprattutto da Van Gogh e da Gauguin. Dal primo prende il segno profondo e gestuale, dal secondo, il colore come simbolo interiore. La pittura espressionistica risulta quindi totalmente antinaturalistica, lì dove l’aderenza alla realtà dell’impressionismo, collocava questo movimento ancora nei limiti di un naturalismo seppure inteso solo come percezione della realtà.
Il cubismo
Il percorso dell’arte contemporanea è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale. Nella storia artistica occidentale l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia, le immagini della pittura devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano, che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Il tutto era finalizzato a rispettare il principio della verosimiglianza, attraverso la fedeltà plastica e coloristica.
Questi princìpi, dal Rinascimento in poi, sono divenuti legge fondamentale del fare pittorico, istituendo quella prassi che, con termine corrente, viene definita «accademica».
Dall’impressionismo in poi, la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi princìpi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole. Già Manet aveva totalmente abolito il chiaroscuro, risolvendo l’immagine, sia plastica che spaziale, in soli termini coloristici.
Le ricerche condotte dal post-impressionismo avevano smontato un altro pilastro della pittura accademica: la fedeltà coloristica. Il colore, in questi movimenti, ha una sua autonomia di espressione, che va al di là della imitazione della natura. Ciò consentiva, ad esempio, di rappresentare dei cavalli di colore blu, se ciò era più vicino alla sensibilità del pittore e ai suoi obiettivi di comunicazione, anche se nella realtà i cavalli non hanno quella colorazione. Questo principio divenne, poi, uno dei fondamenti dell’espressionismo.
Era rimasto da smontare l’ultimo pilastro, su cui era costruita la pittura accademica: la prospettiva. Ed è quando fece Picasso, nel suo periodo di attività che viene definito «cubista».
Già nel periodo post-impressionista, gli artisti cominciarono a svincolarsi dalle ferree leggi della costruzione prospettica. La pittura di Gauguin ha una risoluzione bidimensionale che già la rende antiprospettica. Ma, colui che volutamente deforma la prospettiva è Paul Cezanne. Le diverse parti che compongono i suoi quadri sono quasi tutte messe in prospettiva, ma da angoli visivi diversi. Gli spostamenti del punto di vista sono a volte minimi, e neppure percepibili ad un primo sguardo, ma di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista.
Picasso, meditando la lezione di Cezanne, portò lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri, le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse, e miscelati in una sintesi del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale, la scelta di un unico punto di vista, imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nei quadri di Picasso, l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista, così da ottenere una rappresentazione «totale» dell’oggetto. Tuttavia, questa sua particolare tecnica lo portava ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibiltà, in quanto risultavano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a vedere le cose.
E da ciò nacque anche il termine «Cubismo», dato a questo movimento, con intento denigratorio, in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi.
Il Cubismo, a differenza degli altri movimenti avanguardistici, non nacque in un momento preciso, né con un intento preventivamente dichiarato. Il Cubismo non fu cercato, ma fu semplicemente trovato da Picasso, grazie al suo particolare atteggiamento di non darsi alcun limite, ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue possibilità.
Il quadro che, convenzionalmente, viene indicato come l’inizio del Cubismo è «Les demoiselles d’Avignon», realizzato da Picasso tra il 1906 e il 1907. Subito dopo, nella ricerca sul Cubismo si inserì anche George Braque, che rappresenta l’altro grande protagonista di questo movimento, che negli anni antecedenti la prima guerra mondiale vide la partecipazione di altri artisti, quali Juan Gris, Fernand Léger e Robert Delaunay. I confini del Cubismo rimangono però incerti, proprio per questa sua particolarità, di non essersi mai costituito come un vero e proprio movimento.
Avendo soprattutto a riferimento la ricerca pittorica di Picasso e Braque, il cubismo viene solitamente diviso in due fasi principali: una prima, definita «cubismo analitico» ed una seconda, definita «cubismo sintetico».
Il cubismo analitico è caratterizzato da un procedimento di numerose scomposizioni e ricomposizioni, che danno ai quadri di questo periodo la loro inconfondibile trama di angoli variamente incrociati. Il cubismo sintetico, invece, si caratterizza per una rappresentazione più diretta ed immediata della realtà che vuole evocare, annullando del tutto il rapporto tra figurazione e spazio. In questa fase, compaiono nei quadri cubisti dei caratteri e delle scritte, e infine anche i «papier collés»: ossia frammenti, incollati sulla tela, di giornali, carte da parati, carte da gioco e frammenti di legno. Il cubismo sintetico, più di ogni altro movimento pittorico, rivoluziona il concetto stesso di quadro, portandolo ad essere esso stesso «realtà» e non «rappresentazione della realtà».
L’immagine naturalistica ha un limite ben preciso: può rappresentare solo un istante della percezione. Avviene da un solo punto di vista, e coglie solo un momento. Quando il cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista, di fatto introduce, nella rappresentazione pittorica, un nuovo elemento: il tempo.
Per poter vedere un oggetto da più punti di vista, è necessario che la percezione avvenga in un tempo prolungato, che non si limita ad un solo istante. È necessario che l’artista abbia il tempo di vedere l’oggetto, e quando passa alla rappresentazione porta nel quadro la conoscenza che egli ha acquisito dell’oggetto. La percezione, pertanto, non si limita al solo sguardo, ma implica l’indagine sulla struttura delle cose e sul loro funzionamento.
I quadri cubisti sconvolgono la visione, perché vi introducono quella che viene definita la «quarta dimensione»: il tempo. Negli stessi anni, la definizione di tempo, come quarta dimensione della realtà, veniva postulata in fisica dalla Teoria della Relatività di Albert Einstein. La contemporaneità dei due fenomeni rimane tuttavia casuale, senza un reale nesso di dipendenza reciproca.
Appare tuttavia singolare come, in due campi diversissimi tra loro, si avverta la medesima necessità, di andare oltre la conoscenza empirica della realtà, per giungere a nuovi modelli di descrizione e rappresentazione del reale.
L’introduzione di questa nuova variabile, il tempo, è un dato che non riguarda solo la costruzione del quadro, ma anche la sua lettura. Un quadro cubista, così come tantissimi quadri di altri movimenti del Novecento, non può essere letto e compreso con uno sguardo istantaneo. Deve, invece, essere percepito con un tempo preciso di lettura. Il tempo, cioè, di analizzarne le singole parti, e ricostruirle mentalmente, per giungere con gradualità dalla immagine al suo significato.
Il futurismo
Il Futurismo è un’avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909, grazie al poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti del concetto stesso di arte.
Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità, contro l’antico, la velocità, contro la stasi, la violenza, contro la quiete, e così via.
In sostanza il futurismo si connota già al suo nascere come un movimento che ha due caratteri fondamentali:
- l’esaltazione della modernità
- l’impeto irruento del fare artistico.
Il futurismo ha una data di nascita precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno, infatti, Marinetti pubblicò sul «Figaro», giornale parigino, il Manifesto del Futurismo. In questo scritto sono già contenuti tutti i caratteri del nuovo movimento. Dopo una parte introduttiva, Marinetti sintetizza in undici punti i principi del nuovo movimento.
1. Noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e mugnificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica.
11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.
In un altro suo scritto, Marinetti disse come doveva essere l’artista futurista.
«Chi pensa e si esprime con originalità, forza, vivacità, entusiasmo, chiarezza, semplicità, agilità e sintesi. Chi odia i ruderi, i musei, i cimiteri, le biblioteche, il culturismo, il professoralismo, l’accademismo, l’imitazione del passato, il purismo, le lungaggini e le meticolosità. Chi vuole svecchiare, rinvigorire e rallegrare l’arte italiana, liberandola dalle imitazioni del passato, dal tradizionalismo e dall’accademismo e incoraggiando tutte le creazioni audaci dei giovani».
Il fenomeno del Futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Oltre ciò, la tarda cultura ottocentesca si era anche caratterizzata per quel decadentismo, che proponeva un’arte fatta di estasi pensose, quale fuga dalla realtà nel mondo dei sogni. Contro tutto ciò insorse il futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo, per costruire un mondo nuovo basato su una nuova estetica.
L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti, tra cui numerosi pittori, che crearono nel giro di pochi anni uno stile futurista ben chiaro e preciso. Tra essi, il maggior protagonista fu Umberto Boccioni, al quale si affiancarono Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Carlo Carrà.
Il movimento ebbe due fasi, separate dalla prima guerra mondiale. Lo scoppio della guerra disperse molti degli artisti protagonisti della prima fase del futurismo. Boccioni morì nel 1916 in guerra. Carrà, dopo aver incontrato De Chirico, si rivolse alla pittura metafisica, e come lui, altri giovani pittori, quali Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi erano stati da pittori futuristi.
Nel dopoguerra il carattere di virile forza di questo movimento, finì per farlo integrare nell’ideologia del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice, e finire paradossalmente assorbito negli schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato la critica riscoperta da parte della cultura italiana, che ha sempre visto questo movimento come qualcosa di folkloristico e provinciale. La sua rivalutazione sta avvenendo solo da pochi anni, e solo dopo che soprattutto la storiografia inglese ha storicamente riscoperto questo fenomeno artistico. Il futurismo, tuttavia, nonostante il suo limite di essere un movimento solo italiano, e non internazionale, ha esercitato notevole influenza nel dibattito artistico di quegli anni, e contribuendo in maniera determinante alla nascita delle avanguardie russe, quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
Uno dei tratti più tipici del futurismo è proprio la grande produzione di manifesti. Attraverso questi scritti, gli artisti dichiaravano i propri obiettivi, e gli strumenti per ottenerli. Essi risultano, quindi, molto importanti per la comprensione del futursimo. Da essi è possibile non solo valutare le intenzioni degli artisti, ma anche in che misura le intenzioni si sono attuate nella loro produzione reale.
Il primo manifesto sulla pittura futurista risale al 1910. A firmarlo furono Boccioni, Carrà, Russolo, Severini e Balla. In esso non si va molto oltre della semplici enunciazioni di principi, che ricalcano gli obiettivi fondamentali del movimento. Si ribadisce il rifiuto del passato, dell’accademismo, delle convenzioni e delle imitazioni.
Molto più interessante appare il secondo manifesto, che gli stessi artisti redassero l’anno successivo, e datato 11 febbraio 1911. In esso, chiamato La pittura futurista. Manifesto tecnico, si legge:
Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale.
Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo da corsa non ha quattro gambe: ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari.
In questo passo si coglie già uno dei principali fondamenti della pittura futurista: l’intenzione di rappresentare non degli oggetti statici, ma degli oggetti in continuo movimento. E cercando soprattutto di rappresentarli dando l’idea del loro dinamismo. La sensazione dinamica doveva ricercarsi moltiplicando le immagini, scomponendole e ricomponendole secondo le direzioni del loro movimento.
Più oltre, segue un passo che ci fornisce un altro dei parametri fondamentali della pittura futurista.
Lo spazio non esiste più; una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastronata nel disco solare? […] Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro tre: stanno ferme e si muovo; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta, sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa oltre. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così che il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano.
«I nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi»: la frase esprime con estrema chiarezza uno dei tratti più tipici del futurismo: la scelta di intersercare le immagini, arrivando ad una rappresentazione di sintesi, dove tutte le cose si compenetrano tra loro, creando un nuovo tipo di spazialità.
Parte del manifesto è ovviamente dedicata allo stile, affermando che la nuova pittura deve basarsi sulla scomposizione del colore, già attuata dai divisionisti. Ma il divisionismo deve essere solo uno strumento, non un fine della rappresentazione. La scomposizione dei colori (che loro definiscono «complementarismo congenito»), non solo deve esaltare la sensazione di dinamicità, ma deve contribuire a quella nuova spazialità, dove è proprio la luce, insieme al moto, a far compenetrare gli oggetti tra loro.
Il manifesto si conclude con una sintesi finale, espressa in quattro punti:
NOI PROCLAMIAMO:
1. Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica;
2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica;
3. Che nell’interpretazione della Natura occorre sincerità e verginità;
4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi.
La pittura futurista ha molte analogie con il cubismo, e qualche notevole differenza. Il cubismo scomponeva l’oggetto in varie immagini, e poi le ricomponeva in una nuova rappresentazione. Il futurismo non intersecava diverse immagini della stessa cosa, ma interseca direttamente diverse cose tra loro. Il risultato stilistico a cui si giungeva era, però, molto simile ed affine. Del resto, non bisogna dimenticare che gli artisti futuristi erano ben a conoscenza di ciò che il cubismo faceva in Francia. Non solo perché il futurismo nacque, di fatto, a Parigi con Marinetti, ma anche perché uno di loro, Gino Severini, viveva ed operava nella capitale francese.
Ciò che invece distingue principalmente i due movimenti, fu soprattutto il diverso valore dato al tempo. Come detto, la dimensione temporale era già stata introdotta nella pittura dal cubismo. Ma si trattava di un tempo lento, fatto di osservazione, riflessione e meditazione. Il futurismo ha invece il culto del tempo veloce. Del dinamismo che agita tutto, e deforma l’immagine delle cose.
È proprio la velocità il parametro estetico della modernità. Del resto il mito della velocità, per il futurismo ha degli impeti quasi religiosi. Disse Marinetti in un suo scritto: «Se pregare vuol dire comunicare con la divinità, correre a grande velocità è una preghiera».
Nei quadri futuristi, la velocità si traduceva in linee di forza rette, che davano l’idea della scia che lasciava un oggetto che correva a grande velocità. Mentre, in altri quadri, soprattutto di Balla, la sensazione dinamica era ricercata come moltiplicazione di immagini, messe in sequenza tra loro. Così che le innumerevoli gambe che compaiono su un suo quadro, non appartengono a più persone, ma sempre alla stessa bambina, vista nell’atto di correre («Bambina che corre sul balcone»).
La Metafisica
La Metafisica è l’altro grande contributo all’arte europea che provenne dall’Italia, nel periodo delle avanguardie storiche. Per la sua palese figuratività, esente da qualsiasi innovazione del linguaggio pittorico, la Metafisica è da alcuni esclusa dal contesto vero e proprio delle avanguardie. Essa, tuttavia, fornì importanti elementi per la nascita di quella che viene considerata l’ultima tra le avanguardie: il Surrealismo.
Protagonista ed inventore di questo stile fu Giorgio De Chirico. Iniziò a fare pittura metafisica già nel 1909, anno di nascita del Futurismo. Ma rispetto a quest’ultimo movimento, la Metafisica si colloca decisamente agli antipodi. Nel Futurismo è tutto dinamismo e velocità; nella Metafisica predomina la stasi più immobile. Non solo non c’è la velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo, dove le cose e gli spazi si pietrificano per sempre. Il Futurismo vuol rendere l’arte un grido alto e possente; nella Metafisica predomina invece la dimensione del silenzio più assoluto. Il Futurismo vuole totalmente rinnovare il linguaggio pittorico; la Metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della pittura: soprattutto la prospettiva.
Si potrebbe pensare che la Metafisica sia alla fine solo un movimento di retroguardia, fermo a posizioni accademiche. Ed invece riesce a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata ed evidente. Le atmosfere magiche ed enigmatiche dei quadri di De Chirico colpiscono proprio per l’apparente semplicità di ciò che mostrano. Ed invece, le sue immagini mostrano una realtà che solo apparentemente assomiglia a quella che noi conosciamo dalla nostra esperienza. Uno sguardo più attento, ci mostra che la luce è irreale, e colora gli oggetti e il cielo di tinte innaturali. La prospettiva, che sembrava costruire uno spazio geometricamente plausibile, è invece quasi sempre volutamente deformata, così che lo spazio acquista un aspetto inedito. Le scene urbane, che sono protagoniste indiscusse di questi quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse predomina l’assenza di vita e il silenzio più assoluto. Le rappresentazioni di De Chirico superano la realtà, andando in qualche modo «oltre». Ci mostrano una nuova dimensione del reale. Da ciò il termine «metafisica» usata per definirla. Le immagini di De Chirico sono il contesto ultimo a cui può pervenire la realtà, creata dal nostro vivere.
La Metafisica, come movimento dichiarato, sorse solo nel 1917, a Ferrara, dall’incontro tra De Chirico e Carlo Carrà. Quest’ultimo proveniva dalle file del Futurismo, ma se ne era progressivamente distaccato. L’incontro con De Chirico lo convinse al recupero della figura, e l’esplorazione di quel mondo arcaico e fisso che caratterizza la pittura metafisica di De Chirico. Dal Futurismo si convertì anche Giorgio Morandi, che nella purezza e severità delle immagini metafische trovò la sua cifra stilistica più personale. Alla Metafisica aderirono, seppure a tratti, altri pittori italiani, tra cui Alberto Savinio, fratello di De Chirico, Filippo De Pisis, Mario Sironi e Felice Casorati.
Nel 1921 il gruppo della Metafisica era già sciolto, dato che la maggior parte dei suoi protagonisti si erano aggregati intorno alla corrente di Valori Plastici. Ma la pittura metafisica di fatto non scomparve, restando una cifra di fondo, molto riconoscibile, di Giorgio De Chirico, e di molti degli artisti che avevano condiviso la sua esperienza.
Il Dadaismo
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, e il loro esordio ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco.
Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. Ed in effetti i due movimenti, futurismo e dadaismo, hanno diversi punti comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Questa diversa impostazione conduce ad una facile, anche se non proprio esatta, valutazione per cui il futurismo è un movimento di destra, mentre il dadaismo è di sinistra. Altri punti in comune tra i due movimenti sono inoltre l’uso dei “manifesti” quale momento di dichiarazione di intenti.
Ma veniamo ai contenuti principali del dadaismo. Innanzitutto il titolo. La parola Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa.
Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi. Benché il dadaismo è un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero luogo a New York negli Stati Uniti. L’esperienza dadaista americana nacque dall’incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz.
Ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire proposita necessitava di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nacque il surrealismo.
Il dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale, e per poter continuare a produrre opere d’arte si affida ad un meccanismo ben preciso: la casualità. Il “caso”, in seguito, troverà diverse applicazioni in arte: lo useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia gli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Polloch con l’action painting.
Ma torniamo al dadaismo. In un suo scritto, il poeta Tristan Tzara descrive il modo dadaista di produrre una poesia. Il passo, che di seguito riportiamo, è decisamente esplicativo del loro modo di procedere.
Per fare un poema dadaista.
Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema.
Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano.
Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco.
Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà.
Ed eccovi “uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada”.
In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria».
Si capisce come il dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma, in effetti, nel surrealismo, movimento, quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo.
Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i «ready-made». Il termine indica opere realizzate con oggetti reali, non prodotti con finalità estetiche, e presentati come opere d’arte. In pratica i «ready-made» sono un’invenzione di Marcel Duchamp, il quale inventa anche il termine per definirli che in italiano significa approssimativamente «già fatti», «già pronti».
I «ready-made» nascono ancor prima del movimento dadaista, dato che il primo «ready-made» di Duchamp, la ruota di bicicletta, è del 1913. Essi diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali di arte. Soprattutto quando Duchamp, nel 1917, propose uno dei suoi più noti «ready-made»: fontana.
In pratica, con i «ready-made» si ruppe il concetto per cui l’arte era il prodotto di una attività manuale coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte poteva essere qualsiasi cosa: posizione che aveva la sua conseguenza che nulla è arte. Ma questa evidente tautologia era superata dal capire che, innanzitutto l’arte non deve separarsi altezzosamente dalla vita reale ma confondersi con questa, e che l’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» era solo nell’idea. Abolendo qualsiasi significato o valore alla manualità dell’artista, l’artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose, anche per quelle già esistenti.
Il Surrealismo
La nascita della psicologia moderna, grazie a Freud, ha fornito molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del Novecento. Soprattutto nei paesi dell’Europa centro settentrionale, le correnti pre-espressionistiche e espressionistiche hanno ampiamente utilizzato il concetto di inconscio, per far emergere alcune delle caratteristiche più profonde dell’animo umano, di solito mascherate dall’ipocrisia della società borghese del tempo.
Sempre da Freud, i pittori, che dettero vita al Surrealismo, presero un altro elemento che diede loro la possibilità di scandagliare e far emergere l’inconscio: il sogno.
Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. O, per meglio dire, possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali, mostrando situazioni che, in genere, nella realtà sono impossibili a verificarsi. Il primo studio sistematico sull’argomento risale al 1900, quando Freud pubblicò L’interpretazione dei sogni. Secondo lo studioso, il sogno è la «via regia verso la scoperta dell’inconscio». Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo, e può quindi liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria per capire il messaggio che proviene dall’inconscio, in termini di desideri, pulsioni o malesseri e disagi.
Il sogno propone soprattutto immagini: si svolge, quindi, secondo un linguaggio analogico. Di qui, spesso, la sua difficoltà ad essere tradotto in parole, ossia in un linguaggio logico. La produzione figurativa può, dunque, risultare più immediata per la rappresentazione diretta ed immediata del sogno. E da qui, nacque la teoria del Surrealismo.
Il Surrealismo, come movimento artistico, nacque nel 1924. Alla sua nascita contribuirono in maniera determinante sia il Dadaismo sia la pittura Metafisica.
Teorico del gruppo fu soprattutto lo scrittore André Breton. Fu egli, nel 1924, a redigere il Manifesto del Surrealismo. Egli mosse da Freud, per chiedersi come mai sul sogno, che rappresenta molta dell’attività di pensiero dell’uomo, visto che trascorriamo buona parte della nostra vita a dormire, ci si sia interessati così poco. Secondo Breton, bisogna cercare il modo di giungere ad una realtà superiore (appunto una surrealtà), in cui conciliare i due momenti fondamentali del pensiero umano: quello della veglia e quello del sogno.
Il Surrealismo è dunque il processo mediante il quale si giunge a questa surrealtà. Sempre Breton così definisce il Surrealismo:
«Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».
L’automatismo psichico è quindi un processo automatico che si realizza senza il controllo della ragione (il pensiero senza freni inibitori, siano essi morali o estetici, libro di vagare e raccogliere immagini, idee, parole, senza costrizioni o propositi precostituiti, senza scopi preordinati), e fa sì che l’inconscio, quella parte di noi che si fa viva nel sogno, emerga e si esprima divenendo operante mentre siamo svegli. È così raggiunta quella realtà superiore, la surrealtà, in cui si conciliano veglia e sogno.
Al Surrealismo aderirono diversi pittori europei, tra i quali Max Ernst, Juan Mirò, René Magritte e Salvador Dalì. Non vi aderì Giorgio De Chirico, che pure aveva fornito con la sua pittura metafisica un contributo determinante alla nascita del movimento, mentre vi aderì, seppure con una certa originalità, il fratello Andrea, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio.
Il Surrealismo è un movimento che pratica una arte figurativa e non astratta. La sua figurazione non è ovviamente naturalistica, anche se ha con il naturalismo un dialogo serrato. E ciò per l’ovvio motivo che vuol trasfigurare la realtà, ma non negarla.
L’approccio al Surrealismo è stato diverso da artista ad artista, per le ovvie ragioni delle diversità personali di chi lo ha interpretato. Ma, in sostanza, possiamo suddividere la tecnica surrealista in due grosse categorie: quella degli accostamenti inconsuenti e quella delle deformazioni irreali.
Gli accostamenti inconsueti sono stati spiegati da Max Ernst, pittore e scultore surrealista. Egli, partendo da una frase del poeta Comte de Lautréamont: «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», spiegava che tale bellezza proveniva dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse».
In sostanza, procedendo per libera associazione di idee, si uniscono cose e spazi tra loro apparentemente estranei, per ricavarne una sensazione inedita. La bellezza surrealista nasce, allora, dal trovare due oggetti reali, veri, esistenti (l’ombrello e la macchina da cucire), che non hanno nulla in comune, assieme in un luogo ugualmente estraneo ad entrambi. Tale situazione genera una inattesa visione che sorprende per la sua assurdità e perché contraddice le nostre certezze.
Le deformazioni irreali riguardano invece la categoria della metamorfosi. Le deformazioni espressionistiche nascevano dal procedimento della caricatura, ed erano tese alla accentuazione dei caratteri e delle sensazioni psicologiche. La metamorfosi è invece la trasformazione di un oggetto in un altro, come, ad esempio, delle donne che si trasformano in alberi (Delvaux) o delle foglie che hanno forma di uccelli (Magritte).
Entrambi questi procedimenti hanno un unico fine: lo spostamento del senso. Ossia la trasformazione delle immagini, che abitualmente siamo abituati a vedere in base al senso comune, in immagini che ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà.
Tra i surrealisti, chi più gioca con gli spostamenti del senso, è il pittore belga René Magritte (1898-1967). Dopo aver scoperto la pittura di De Chirico, si avvicinò nel 1927 al Surrealismo, divendone uno dei principali protagonisti. I suoi quadri sono realizzati in uno stile da illustratore, di evidenza quasi infantile.
Nell’opera di Magritte è possibile trovare un po’ tutti gli elementi e le tecniche del surrealismo. Egli gioca con le immagini e le parole, accostando oggetti e nomi non loro, oppure disegnando una pipa e scrivendoci sotto che quella non è un pipa. Gioca con il rapporto tra immagine naturalistica e realtà, proponendo immagini dove il quadro nel quadro ha lo stesso identico aspetto della realtà che rappresenta, al punto da confondersi con esso. Combina, nel medesimo quadro, cieli diurni e paesaggi notturni. Accosta, sospesi nel cielo, una nuvola ed un enorme masso di pietra. Trasforma gli animali in foglie o in pietra. Fa ritratti, dei quali nasconde la parte più significativa, il volto. Fa baciare due persone tra loro con la testa completamente coperta da un lenzuolo bianco. Il suo è un surrealismo molto mentale, anche se ha contenuti di una poesia lieve e suggestiva.
L’Astrattismo
Nelle arti figurative il concetto di astratto assume il significato di «non reale». L’arte astratta è quella che non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva. Essa, cioè, cerca di esprimere i propri contenuti nella libera composizione di linee, forme, colori, senza imitare la realtà concreta in cui noi viviamo.
L’astratto, in tal senso, nasce agli inizi di questo secolo. Ma esso era già presente in molta produzione estetica precedente, anche molto antica. Sono astratte sia le figurazioni che compaiono sui vasi greci più antichi, sia le miniature altomedievali, solo per fare alcuni esempi. In questi casi, però, la figurazione astratta aveva un solo fine estetico ben preciso: quello della decorazione.
L’arte astratta di questo secolo ha, invece, un fine completamente diverso: quello della comunicazione. Vuole esprimere contenuti e significati, senza prendere in prestito nulla dalle immagini già esistenti intorno a noi.
All’astratto si è arrivati mediante un processo, che può essere definito di astrazione. Il concetto di astrazione è molto generale, ed esprime un procedimento mediante il quale l’intelletto umano descrive la realtà solo in alcune sue caratteristiche. Da processi di astrazione nascono le parole, i numeri, i segni, e così via.
Nel campo delle immagini, i segni, intesi come simboli che rimandano a cose o idee, è già un modo “astratto” di rappresentare la realtà. Nel campo dell’astrazione entrano anche la stilizzazioni che, ad esempio, proponeva l’arte liberty. Ed, ovviamente, tutta l’esperienza estetica delle avanguardie storiche è un modo tendenzialmente astratto di rappresentare la realtà.
La scomposizione di una bottiglia, ad esempio, che effettua Picasso, gli consente di giungere ad una rappresentazione “astratta” di quella bottiglia. Ma nel suo quadro la bottiglia, intesa come realtà esistente, rimane presente.
L’Astrattismo nasce, invece, quando nei quadri non vi è più alcun riferimento alla realtà. Nasce quando i pittori procedono in maniera totalmente autonoma rispetto alle forme reali, per cercare e trovare forme ed immagini del tutto inedite e diverse da quelle già esistenti. In questo caso, l’Astrattismo ha un procedimento che non è più definibile di astrazione, ma diviene totale invenzione.
L’Astrattismo nasce intorno al 1910, grazie al pittore russo Wassilj Kandinskij. Egli operava, in quegli anni, a Monaco dove aveva fondato il movimento espressionistico «Der Blaue Reiter». Il suo astrattismo conserva infatti una matrice fondamentalmente espressionistica. È teso a suscitare emozioni interiori, utilizzando solo la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni.
Da questo momento, la nascita dell’Astrattismo ha la forza di liberare la fantasia di molti artisti, che si sentono totalmente svincolati dalle norme e dalle convenzioni fino ad allora imposte al fare artistico. I campi in cui agire per nuove sperimentazioni si aprono a dismisura. E le direzioni in cui si svolge l’arte astratta appaiono decisamente eterogenee, con premesse ed esiti profondamente diversi.
Nel campo dell’architettura e del design l’arte astratta smuove finalmente un grosso vincolo che aveva condizionato tutta la produzione ottocentesca: quella di mascherare le cose e gli edifici, con una “pelle” stilistica a cui affidare la riuscita estetica del manufatto. L’arte astratta sembra dire che può esistere un’estetica delle cose, che nasce dalle cose stesse, senza che esse debbano necessariamente imitare qualcosa di altro. E come l’arte astratta possa divenire metodo di una nuova progettazione estetica, nell’architettura e nelle arti applicate, è un processo che si compie nella Bauhaus, negli anni ’20 e ’30, e che vede protagonista ancora Wassilj Kandinskij. Ma l’idea, che l’astratto potesse servire a costruire un mondo nuovo, era già nata qualche anno prima in Russia, con quella avanguardia definita Costruttivismo.
Negli anni ’30, in coincidenza con quel fenomeno di ritorno alla figuratività, definito «ritorno all’ordine», l’astrattismo subisce dei momenti di pausa. È un’arte che, al pari di quella delle altre avanguardie, non viene accettata dai regimi totalitari che si formano in quegli anni: il nazismo in Germania, il fascimo in Italia, il comunismo in Russia, il franchismo in Spagna. E, in conseguenza di questo atteggiamento, molti artisti europei emigrarono negli Stati Uniti, dove portarono l’eredità delle esperienze artistiche dei primi decenni del Novecento europeo.
Le esperienze astrattiste hanno ritrovato nuova vitalità nel secondo dopoguerra, dando luogo a diverse correnti, quali l’Action Painting, l’Informale, il Concettuale, l’Optical art. Nuovi campi di sperimentazioni sono stati tentati dagli artisti, uscendo dal campo delle immagini, per rendere esperienza estetica la gestualità, la materia, e così via.
L’arte astratta nasce come volontà di espressione e di comunicazione, ma lo fa con un linguaggio di cui difficilmente si conoscono le regole. Il problema interpretativo dell’arte astratta è stato in genere impostato su due categorie essenziali: la prima si affida alla psicologia gestalitica, la seconda all’esistenzialismo.
La psicologia gestaltica studia l’iterazione tra l’uomo e le forme. Ossia, come la percezione delle forme diviene esperienza psicologica. Il modo come si struttura questa esperienza psicologica segue leggi universali. Ad esempio, il cerchio tende ad esprimere sempre la medesima sensazione, indipendentemente da cosa abbia forma circolare. E così avviene per i colori. E avviene per l’articolazione tra forme e forme, tra colori e colori, e tra forme e colori. In sostanza l’atto percettivo, affidandosi ad esperienze già possedute e a meccanismi di fondo, tende a interpretare le cose che vede, indipendentemente da cosa esse rappresentino.
Pertanto anche l’immagine astratta trasmette informazioni percettive che stimolano una reazione di tipo psicologico. Se la psicologia gestaltica può spiegare il meccanismo per cui un’opera astratta può apparire bella o brutta, difficilmente può spiegare quale opera apparirà bella e quale brutta. In sostanza, non può fornire elementi di valutazione critica, restando questi comunque pertinenti al campo specifico della storia dell’arte e alla storia del gusto.
Tuttavia la psicologia gestaltica ha fornito numerosi elementi per inquadrare il problema, chiarendo come l’arte astratta riesca a comunicare con la psicologia dell’osservatore. E, soprattutto nella sua fase iniziale, l’astrattismo si è ampiamente appoggiata alle categorie interpretative gestaltiche.
Altro metodo di decifrazione dell’arte astratta è quello di rintracciare l’esperienza esistenziale da cui è nata la specifica opera. L’artista, come qualsiasi altra persona di questo mondo, vive la medesima realtà di tutti. Riceve le medesime sollecitazioni, le interpreta con la sua specifica sensibilità, e, in più rispetto agli altri, le sa tradurre in forma. Il gesto creativo, sostanziandosi in un’opera, diviene traccia esistenziale. L’opera creata diviene traccia di tutta l’iterazione tra realtà, sollecitazione, sensibilità e creatività, che può essere comune a tutti, ma che solo l’artista, proprio perché è tale, sa esprimere e oggettivare.
In questo caso, l’opera non solo è traccia del proprio essere al mondo, che risulta il valore minimo, ma rimane come testimonianza dell’essere al mondo in un particolare momento, in una particolare situazione, in un particolare contesto e così via. Ed assume, pertanto, valore di documento storico-culturale, proprio perché è il frutto di quella particolare storia e di quella particolare cultura.
Il secondo dopoguerra
Le avanguardie storiche, nei primi due decenni di questo secolo, hanno totalmente rivoluzionato il panorama artistico europeo. In nome di una sperimentazione continua, giungono con l’astrattismo ad un’arte che è totalmente agli antipodi con qualsiasi tradizione precedente. La rottura con il passato appare definitiva.
Ma l’apice di questa parabola si esaurì già nel terzo decennio del secolo. Il riflusso ad un’arte più tradizionale si compì soprattutto negli anni ’30. In questo decennio si incontrarono due opposte tendenze che ricondussero il panorama artistico ad un ritorno alla figuratività. Da un lato vi fu l’atteggiamento dei regimi totalitari che si instaurarono in Europa, i quali furono fondamentalmente contrari alle arti di avanguardia ed alle implicite libertà che esse pretendevano, dall’altro vi fu il riflusso degli stessi protagonisti delle avanguardie (emblematico il caso di Picasso) che, inaspettatamente, ritornarono a modelli rappresentativi più tradizionali.
Quando nel 1937 Picasso compose la sua grande opera sul bombardamento di Guernica, il suo linguaggio figurativo tornò improvvisamente alle scomposizioni e sintesi cubiste. Ma ciò passò quasi in secondo piano rispetto al grande significato extra-artistico dell’opera: ossia l’impegno che l’artista esplicava nel denunciare una grande tragedia dell’umanità. Il significato di Guernica fu quindi principalmente letto come monito per gli artisti ad impegnarsi nella lotta ideologica e politica.
Non bisogna infatti dimenticare che il momento storico era dei più drammatici: la conquista del mondo, tentata dai nazisti, con l’immane conflitto bellico che scatenò, non consentiva ad alcuno di estraniarsi da un impegno attivo. Neppure agli artisti era consentita l’evasione dalla realtà che, in quel momento, si presentava così tragica.
Questo atteggiamento si protrasse anche negli anni immediatamente seguenti la fine della seconda guerra mondiale. I grandi problemi lasciati sul campo dal conflitto bellico, ma soprattutto l’inizio della guerra fredda, con lo scontro ideologico tra mondo occidentale capitalistico e paesi a regime comunista, indussero molti artisti a mettere la propria arte al servizio delle idee politiche e sociali.
Questo atteggiamento segnò la situazione artistica italiana di quegli anni, determinando la comparsa di due opposti schieramenti: i realisti ed i formalisti. I primi, capeggiati soprattutto da Guttuso, proponevano un’arte che si impegnasse nella realtà sociale del tempo, i secondi (Pietro Consagra, Achille Perilli, Piero Dorazio ed altri) pretendevano una maggior autonomia, rivendicando il diritto alle ricerche formali e stilistiche.
Questo tipo di polemica culturale ci dà comunque il senso di quell’idealismo ingenuo, tipicamente europeo, di credere che l’arte possa servire a cambiare la realtà e a costruire un mondo migliore. Rispetto a ciò, di tutt’altra portata e segno appare quindi la comparsa sulla scena artistica internazionale dell’espressionismo astratto americano. La sua grande carica rivoluzionaria fu proprio la dichiarata disillusione nelle possibilità dell’arte.
Con l’espressionismo astratto si inaugurò un nuovo filone artistico, definito in seguito Informale, e che costituisce di fatto la prima tendenza nuova del secondo dopoguerra. Ma con l’espressionismo astratto abbiamo un’ulteriore novità. Le tendenze innovative dell’arte contemporanea non si formano più solo in Europa, ma anche nel continente americano.
Il decennio degli anni ’30 fu infatti significativo per un altro fenomeno: la grande emigrazione di artisti europei verso gli Stati Uniti. Qui la loro presenza fornì grandi stimoli, innescando una serie di esperienze che sul suolo americano avrebbero prodotto molte novità, soprattutto nel dopoguerra. Ed in questi ultimi quarant’anni si è prodotto il netto fenomeno di uno spostamento dei baricentri artistici. Se prima Parigi poteva ben considerarsi la capitale mondiale dell’arte moderna, questo primato si è successivamente spostato verso New York. Tuttavia la rapida evoluzione dei sistemi di comunicazione e spostamenti, hanno creato oggi anche nel mondo dell’arte quel senso di «villaggio globale» che caratterizza la cultura odierna, rendendo di fatto inattuale la definizione di capitale artistica.
L’Informale
Con il termine «informale» vengono definite una serie di esperienze artistiche, sviluppatesi soprattutto negli anni ’50, e che hanno una fondamentale matrice astratta. La caratteristica dell’«informale» è di essere contrario a qualsiasi «forma».
Ma cosa sono le «forme»? Nella realtà sensibile è forma tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante, e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta, soprattutto nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazione di forme. Queste, non più imitate dalla natura, nascono solo nella visione (o immaginazione) dell’artista, ma rimangono pur sempre delle forme.
L’informale, rifiutando il concetto di forma, si differenzia dalla stessa arte astratta, costituendone al contempo un ampliamento. Questo ampliamento non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove, ma anche come allargamento del concetto stesso di creatività artistica in quanto l’informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze che finiscono per sconfinare del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura. L’informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea.
Il termine «informale» fu coniato negli anni ’50 dal critico francese Tapié. A questa etichetta sono state variamente attribuite, e poi negate, molte ricerche di quegli anni. Oggi si tende a individuare, nell’ambito dell’informale, due correnti principali: l’informale gestuale e l’informale materico. Ma a queste due tendenze vanno di certo uniti altri due segmenti: quello dello spazialismo e quello della pittura segnica.
L’informale gestuale, anche definito «action painting» proviene soprattutto dagli Stati Uniti, e coincide di fatto con l’espressionismo astratto. Suo maggior rappresentante è Jackson Pollock. La sua tecnica pittorica consisteva nello spruzzare o far gocciolare (dripping) i colori sulla tela senza procedere ad alcun intervento manuale diretto sulla superficie pittorica. Le immagini così ottenute si presentano come un caotico intreccio di segni colorati, in cui non è possibile riconoscere alcuna forma.
I quadri informali sono pertanto la negazione di una conoscenza razionale della realtà, ossia diventano la rappresentazione di un universo caotico in cui non è possibile porre alcun ordine razionale. In tal modo l’esperienza artistica diventa solo testimonianza dell’essere e dell’agire. E in ciò si lega molto profondamente alle filosofie esistenzialistiche di quegli anni, che proponevano una visione di tipo pessimistico della reale possibilità dell’uomo di realizzarsi nel mondo.
Le premesse dell’informale di gesto si legano in maniera molto diretta ad alcune esperienze delle avanguardie storiche. In particolare dal dadaismo si può fa risalire il suo rifiuto per la cultura, dall’espressionismo la violenza delle immagini proposte, ma soprattutto dal surrealismo l’informale prende un principio fondamentale: la valorizzazione dell’inconscio. Nell’informale di gesto infatti il risultato che si ottiene è del tutto automatico: deriva non da scelte formali coscienti ma da gesti compiuti secondo movenze in cui la gestualità deriva dalla liberazione delle proprie energie interiori. In tal modo l’automatismo psichico dei surrealisti arriva alle sue estreme conseguenze: in esso non vi è alcun momento cosciente che cerca di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio.
Uno dei grandi fascini di quest’arte risiede proprio nel suo farsi. Da essa infatti possiamo far derivare tutte quelle esperienze successive, quali il comportamentismo, la body art o le performance, in cui il risultato estetico non risiede più nell’opera compiuta, ma solo nel vedere l’artista all’opera.
Tra i principali artisti americani dell’action painting vanno ricordati, oltre a Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline.
L’informale di materia è la tendenza che maggiormente si manifesta in Europa. Esso deriva da un’antica dicotomia, da sempre presente nella cultura occidentale, da Platone in poi: la polarità materia-forma. Il primo termine indica il magma informe delle energie primordiali, il secondo definisce l’organizzazione della materia in organismi superiori. Questo contrasto materia-forma divenne un termine problematico nella scultura di Michelangelo, e da lì ha influenzato, attraverso la riscoperta di Rodin, la scultura moderna. Con l’informale si appropriano di questa problematica anche i pittori, proponendo immagini in cui i valori estetici ed espressivi sono appunto quelli dei materiali utilizzati.
L’informale di materia inizia nello stesso anno in cui Pollock inventa l’action painting: il 1943. Protagonista è il pittore francese Jean Fautrier. Egli rifacendosi alle esperienze del cubismo sintetico di Picasso e Braque, e alle ricerche surrealiste di Max Ernst, inserisce nei suoi quadri materiali plastici che emergono dalla superficie del quadro. In tal modo rompe il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle tradizionali categorie di pittura o scultura.
Ai valori espressivi dei materiali si rivolgono altri artisti informali europei: tra essi emergono soprattutto il francese Jean Dubuffet, lo spagnolo Antoni Tápies e l’italiano Alberto Burri. Quest’ultimo, in particolare, propone opere dalla singolare forza espressiva, ricorrendo a materiali poveri: legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere, plastica, ecc.
Lo spazialismo è una corrente non uniforme, che può aggregarsi intorno a due artisti principali: il milanese Lucio Fontana e il russo (ma naturalizzato americano) Marc Rothko. Anche le loro ricerche possono ricondursi all’informale per la comune assenza di «forme», così come sopra definite. Tuttavia la loro ricerca mira ad altri risultati, diversi da quelle degli altri informali. Con le loro opere mirano a suggerire effetti spaziali del tutto inediti, il primo Fontana, ricorrendo a buchi e tagli prodotti nelle tele, il secondo ricorrendo invece alle stesure di colori secondo macchie di sottile variazione tonale. Entrambe queste ricerche hanno la capacità di suscitare atmosfere immateriali e non terrene, proponendo una inedita visione di spazi che vanno al di là dello spazio percettivo naturale.
La pittura segnica è, infine, un’ultima versione dell’informale anche se da questa si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma. In queste ricerche la forma, benché non del tutto assente, tende a trasformarsi in «segno», cioè in un elemento grafico di riconoscibilità formale ma non contenutistica. Le ricerche della pittura segnica tendono a costruire nuovi alfabeti visivi, ma non concettuali, in cui è evidente la componente calligrafica. Tra gli artisti più significativi di questa tendenza sono da citare l’italiano Giuseppe Capogrossi e in Francia George Mathieu, Wols (pseudonimo di Wolfgang Schultze) e Hans Hartung, questi ultimi due di origine tedesca.
La Pop Art
L’informale ha sicuramente ben rappresentato un certo clima culturale esistenzialistico tipico degli anni Cinquanta. La sua carica pessimistica di fondo fu tuttavia compresa solo da una ristretta cultura d’élite. E ben presto ha mostrato la sua inattualità nei confronti di una società in rapida trasformazione, che si caratterizzava sempre più come società di massa dominata dai tratti positivi ed ottimistici del consumismo.
Ed è proprio dall’incontro tra arte e cultura dei mass-media che nacque la pop art. La sua nascita avviene negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50 con le prime ricerche di Robert Raushenberg e Jasper Johns. Ma la sua esplosione avviene soprattutto nel decennio degli anni ’60, conoscendo una prima diffusione e consacrazione con la Biennale di Venezia del 1964.
I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono tutti artisti americani: Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein ed altri. Ed in ciò si definisce anche una componente fondamentale di questo stile: essa appare decisamente il frutto della società e della cultura americana. Cultura largamente dominata dall’immagine, ma immagine che proveniva dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, dai rotocalchi, dal paesaggio urbano largamente dominato dai grandi cartelloni pubblicitari.
La pop art ricicla tutto ciò in una pittura che rifà in maniera fredda ed impersonale le immagini proposte dai mass-media. Si va dalle bandiere americane di Jasper Johns alle bottiglie di Coca Cola di Warhol, dai fumetti di Lichtenstein alle locandine cinematografiche di Rosenquist.
La pop art documenta quindi in maniera precisa la cultura popolare americana (da qui quindi il suo nome, dove pop sta per diminutivo di popolare), trasformando in icone le immagini più note o simboliche tra quelle proposte dai mass-media. L’apparente indifferenza per le qualità formali dei soggetti proposti, così come il procedimento di pescare tra oggetti che apparivano triviali e non estetici, ha indotto molti critici a considerare la pop art come una specie di nuovo dadaismo. Se ciò può apparire in parte plausibile, diverso è il fine a cui giunge la pop art. In essa infatti è assente qualsiasi intento dissacratorio, ironico o di denuncia.
Il più grosso pregio della pop art rimane invece quello di documentare, senza paura di sporcarsi le mani con la cultura popolare, i cambiamenti di valori indotti nella società dal consumismo. Quei cambiamenti che consistono in una preferenza per valori legati al consumo di beni materiali e alla proiezione degli ideali comuni sui valori dell’immagine, intesa in questo caso soprattutto come apparenza. E in ciò testimoniano dei nuovi idoli o miti in cui le masse popolari tendono ad identificarsi. Miti ovviamente creati dalla pubblicità e dai mass-media che proiettano sulle masse sempre più bisogni indotti, e non primari, per trasformarli in consumatori sempre più avidi di beni materiali.
In sostanza un quadro di Warhol che ripete l’ossessiva immagine di una bottiglia di Coca Cola ci testimonia come quell’oggetto sia oramai divenuto un referente più importante, rispetto ad altri valori interiori o spirituali, per giungere a quella condizione esistenziale che i mass media propagandano come vincente nella società contemporanea.
Il Concettuale
Il termine «concettuale» ha assunto, nel campo artistico, un significato polivalente, per cui è necessario fare una premessa sul suo utilizzo. Il primo artista ad aver usato programmaticamente la definizione «concettuale» è stato Joseph Kosuth intorno alla metà degli anni Sessanta. Il suo intento era di proporre opere il cui fine non era il godimento estetico bensì l’attività di pensiero. Del 1965 è una delle sue opere più famose, «Una e tre sedie», in cui egli espone una sedia vera, un’immagine fotografica e la definizione scritta della parola “sedia”. Ciò a cui egli tende è di avviare nello spettatore la riflessione sul rapporto, problematico e conflittuale, che esiste tra realtà, rappresentazione iconica (immagine) e rappresentazione logica (parola).
Si comprende come un’arte di questo tipo tende ad eliminare qualsiasi significato emozionale, per proporsi con lucida e fredda razionalità. Nell’opera di Kosuth ciò avviene ancora attraverso la proposizione di opere concrete, ma ben presto si comincia a comprendere come si può giungere all’obiettivo “concettuale” anche facendo a meno di opere materiali o durature. Arte diviene anche il parlare dell’arte, il comportamento, la riflessione, e così via. E da questo punto comincia il significato più pregnante del termine «concettuale»: un’arte che riesce a fare a meno delle opere d’arte.
Se guardiamo all’arte del ventesimo secolo da una particolare ottica, ci accorgiamo che l’evoluzione artistica ha seguito una linea di progressive “riduzioni” o “privamenti”. Gli artisti si sono aperti territori nuovi di ricerca “privandosi” di qualcosa che sembrava appartenere indissolubilmente al significato stesso di arte (così come storicamente si era costruito in Occidente). Si inizia con il fare a meno del “naturalismo” e della “mimesi” (post-impressionismo, espressionismo, ecc.), si procede facendo a meno della “prospettiva” (cubismo), del “passato” (futurismo), del “valore venale” dell’opera (dadaismo), della “realtà” (astrattismo), della “forma” (informale), fino a giungere a fare a meno dell’“opera d’arte”.
Si è così rotto l’ultimo tabù, in quanto un’arte che si manifesti senza opere era decisamente l’ultima frontiera che restava da conquistare.
Torniamo al problema iniziale. Il termine «concettuale» può essere utilizzato in una accezione ristretta, riferendoci ad un gruppo limitato di esperienze, o in una accezione più ampia, guardando a tutte le esperienze in cui la mancanza dell’«opera» tradizionalmente intesa appare il dato caratterizzante. Come già fatto con l’«Informale», noi utilizzeremo l’accezione più ampia, comprendendo in questo termine molteplici esperienze, anche tra loro molto diverse, ma che si accomunano per una intenzionalità di fondo che appare molto evidente.
Cominciamo a delimitare i termini cronologici: il Concettuale inizia alla metà degli anni Sessanta e si esaurisce alla fine degli anni Settanta. Dura appena una quindicina d’anni, e tuttavia rimane una delle fasi più salienti dell’arte contemporanea. In questo periodo troviamo una serie di movimenti e di artisti che, con maggiore o minore consapevolezza, propongono un’arte il cui approccio è effettivamente concettuale: l’Environment, la Land Art, l’Arte Povera, la Body Art, la Narrative Art, ecc.
Giusto per comodità di classificazione, possiamo dividere le esperienze concettuali in due gruppi principali: quelle legate al «pensiero» e quelle legate all’«evento». Nel primo caso abbiamo artisti la cui attività, pur legata alla produzione di opere concrete, si pone come messaggio prettamente intellettuale. Nel secondo caso rientrano quelle esperienze artistiche che non producono opere ma solo eventi temporalmente limitati, e la cui traccia rimane solo nella testimonianza (fotografica, filmica o altro) dell’evento stesso.
Il «pensiero» concettuale. Le premesse più dirette dell’atteggiamento concettuale vanno individuate soprattutto in alcuni movimenti che vengono a definirsi già negli anni Cinquanta e agli inizi degli anni Sessanta. Ci riferiamo soprattutto al «New Dada» e alla «Minimal Art».
Con New Dada si intende un movimento nato inizialmente negli Stati Uniti e i cui protagonisti americani coinfluiranno in seguito nella Pop Art (Rauschenberg e Jasper Johns). Caratteristica di questo movimento fu soprattutto il recupero, in chiave dadaista, dell’oggetto d’uso quotidiano da inserire nelle opere d’arte. Atteggiamento che finirà per attraversare trasversalmente molti fenomeni artistici del dopoguerra: l’uso e la manipolazione di oggetti presi dalla realtà è tratto comune a molti movimenti ed artisti. In Italia il fenomeno del New Dada arriva agli inizi degli anni ’60 con il gruppo dei Nouveaux Réalistes ed in Italia con l’attività di alcuni artisti tra cui il più emblematico rimane Piero Manzoni. Di Manzoni rimangono celebri alcune provocazioni, quali le famose scatolette con i suoi escrementi, il cui significato non può che essere concettuale.
Con il termine «Minimal Art» si intende invece un movimento, nato anch’esso negli Stati Uniti negli anni ’60, la cui produzione si caratterizza per grandi strutture tridimensionali, realizzate in forma di geometria assoluta, spesso metalliche a tinte unite, unite secondo criteri di asettica composizione. Le strutture minimaliste si pongono quindi ad una fruizione da cui è del tutto escluso il piacere estetico, ma in cui prevale l’atteggiamento di freddo razionalismo.
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, i movimenti che più si pongono in linea con queste premesse sono soprattutto tre: l’«Arte Concettuale», intesa nel senso più proprio, l’«Arte Povera» e la «Narrative Art».
Nel primo gruppo possono essere inclusi oltre al già citato Joseph Kosuth, gli americani Bruce Nauman e Lawrence Weiner, il tedesco Joseph Beyus, l’italiano Giulio Paolini. Con il termine «Arte Povera» si fa invece riferimento ad un gruppo di artisti italiani (Mario Merz, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, e altri), presentati per la prima volta nel 1967 dal critico Germano Celant. Il termine nacque a designare un’arte fatta di elementi primari (acqua, terra, luce, ecc.) che non disdegnava l’uso, alla maniera new dada, degli oggetti presi dalla realtà più umile: stracci, giornali vecchi e così via. Infine nella «Narrative Art» ritroviamo una serie di artisti che lavorano utilizzando testi scritti e immagini fotografiche, spesso a sfondo autobiografico, per costruire percorsi narrativi indipendenti, dove i testi narrano una storia mentre le foto ne narrano un’altra. Anche qui la derivazione dall’approccio già sperimentato da Joseph Kosuth appare evidente.
L’«evento» concettuale. In questa categoria possiamo includere quegli artisti e quei movimenti la cui attività si esprime soprattutto attraverso happening e performance. Ricordiamo che, benché i due termini sono quasi equivalenti nel significato di fondo di “esibizione”, la differenza solitamente consiste nel fatto che l’happening è un’azione in cui gioca un ruolo determinante l’improvvisazione e il caso, e spesso prevede anche il coinvolgimento del pubblico, mentre la performance è un’azione o un evento pianificato, il cui esito non è casuale ma è quello che specificamente l’artista vuole ottenere. In senso più generale oggi è maggiormente usato il termine performance per indicare qualsiasi operazione artistica basata sull’esibizione di tipo teatrale.
Il precedente più diretto è da individuarsi senz’altro nell’opera di Jackson Pollock, la cui pittura avveniva con una gestualità che, indipendentemente dal prodotto finito, già aveva valenza spettacolari ed estetiche. Ma è anche da ricordare i precedenti più storici, in quanto i primi a pensare all’arte come spettacolo sono stati senz’altro i futuristi, con le loro “Serate futuriste”, subito seguiti dai dadaisti del Cabaret Voltaire.
Negli anni Sessanta la tendenza all’uso dell’azione teatrale e spettacolare trova sbocco in due direzioni principali: la «Body Art» e la «Land Art». Con il primo termine si indicano quegli artisti che tendono ad utilizzare se stessi in prima persona nell’evento proposto. Spesso, soprattutto negli anni Settanta, queste performance tendevano ad un effetto-choc ai limiti dell’irrazionale, quali il prodursi ferite o nell’infliggersi dolore per produrre negli spettatori livelli di emozione sicuramente inediti. In altri casi la performance aveva effetti meno cruenti, mettendo in gioco meccanismi quali il travestimento o l’azione collettiva.
Con il termine «Land Art» si indicano invece quelle operazioni, spesso condotte a scala territoriale, di durata limitata, che, come le performance, lasciano solo una traccia documentaria alla fine del suo accadere. Il caso più emblematico è quello dell’artista bulgaro Christo, divenuto famoso per avere completamente “impacchettato” monumenti di grande dimensione quali il Pont-Neuf a Parigi o il Palazzo del Parlamento di Berlino, o ambienti naturali quali un tratto di scogliera in Australia o un’intera isola in Florida. Ovviamente, l’effetto spettacolare di un simile “impacchettamento” è indubbio, proponendo una diversa percezione della scala di rapporti tra uomo e spazio, ma ovviamente non può che essere contenuta in tempi molto ristretti, qualche ora o al massimo qualche giorno. Altro caso tipico della «Land Art» è l’operazione «Lightning Field» dell’artista americano Walter De Maria, consistente in 400 pali d’acciaio infissi a distanze costanti, in un tratto inaccessibile del deserto del New Mexico. Questa imponente installazione è nota soprattutto attraverso le foto, e alla fine, come altre operazioni concettuali, funziona soprattutto per ciò che fornisce alla definizione di pensieri e concetti nuovi in campo artistico.
Il Post Modern
In contemporanea con l’affermarsi della pop art, altre esperienze artistiche iniziarono a sorgere a metà degli anni ’60. La maggior parte di queste sono confluite in quell’etichetta dai confini imprecisati che è l’«arte concettuale». Con tale termine si intese definire una serie di esperienze in cui il piano dei valori estetici e dei significati artistici veniva spostato prevalentemente sul piano delle idee, dei comportamenti, delle provocazioni, dei concetti. Non era più l’opera d’arte (intesa come oggetto) a stabilire un contatto tra artista e fruitore, ma il significato concettuale dell’operazione che egli andava a proporre.
In tal modo si ruppe l’ultima frontiera: si arrivò a proporre un’arte fatta senza opere d’arte. Ciò è evidente soprattutto in quelle ricerche legate alle Perfomance e alla Body Art, ma anche a ricerche nuove quali la Narrative Art o la Poesia Visiva, dove la creazione artistica si risolveva in fogli con su scritte delle frasi, o la Land Art con operazioni condotte su scala territoriale. Altre ricerche accomunabili al concettuale conservarono un rapporto con il fruitore mediato da «opere», quali l’Arte Povera o l’Enviroment, ma anche qui il significato andava ricercato maggiormente nella concettualità dell’operazione che non nel significato estetico delle opere.
Da questo panorama emerse una situazione in cui l’arte stessa sembrò priva di un identità certa e definita. Mischiate le tradizionali categorie di pittura e scultura, modificato totalmente il significato di creatività artistica, non più legata ad un fattività manuale ma solo alle idee da consumarsi sul piano della comunicazione, l’arte figurativa si trovò ad un nuovo grado zero. E da questo momento iniziano le nuove tendenze, poi definite «post-modern», accomunate dal desiderio di recupero di visioni più tradizionali dell’arte figurativa, in cui ritornare all’antica divisione tra quadri e sculture.
Con il termine post-modern venne inizialmente individuato un fenomeno stilistico, specifico dell’architettura, che iniziò a manifestarsi negli anni ’70. In seguito, la fortuna di questa etichetta, ha finito per identificare una intera epoca: l’ultimo scorcio di questo secolo.
La dizione post-modern indica la coscienza, nella società contemporanea, che un certo tipo di modernità è oramai finito. Ossia quella modernità che si basava sul concetto di progresso continuo ed ascendente, quasi condizione perenne di un futuro che si presentava sempre migliore delle epoche che lo precedevano. Questo ottimismo nel futuro inizia ad impoverirsi, fino a negare la fiducia in un mondo che vada nella direzione di uno sviluppo continuo. Epoca di crisi, quindi, in cui appare indispensabile rimeditare sul concetto di storia, inteso non più come eterna fuga in avanti, ma anche come stasi o ritorno.
Ma il post-modern, soprattutto nel campo delle arti e della cultura, esprime anche un diverso spirito: ciò che era possibile dire, o esprimere, era già stato detto. All’artista post-modern non rimane quasi possibilità di inventare altro di nuovo, ma, visto che è stato già espresso tutto, ha solo la possibilità di «citare». E così la «citazione» diviene uno dei procedimenti tipici e più riconoscibili delle varie tendenze artistiche accomunabili sotto l’etichetta di post-modern.
Altra componente fondamentale del post-modern è la memoria. La storia del passato, anche la più recente, è il deposito del «tutto già detto», ed è da qui che bisogna scegliere la citazione per esprimersi. Ma la storia, che l’artista post-modern sceglie per le sue citazioni, è solo quella filtrata dalla memoria. In tal modo si evita di ripetere il passato in formule di falsificazione storica (come faceva ad esempio l’eclettismo storicistico ottocentesco), ma si fa rivivere solo quel frammento che più interessa, o che più colpisce e si incide nella memoria. E così, l’utilizzo di più frammenti (o citazioni), che l’artista può scegliere anche da culture e storie diverse, può consentirgli il nuovo della sua arte: la composizione.
Nell’ambito delle arti figurative, benché non si può parlare di un vero e proprio stile post-modern, al suo spirito possono accomunarsi una serie di esperienze degli ultimi anni: in particolare la Transavanguardia, il Citazionismo, la Pittura Colta, i Nuovi nuovi. Sono tutte tendenze che, maturatesi negli anni ’70, emergono agli inizi degli anni ’80. In particolare è proprio il 1980 che può definirsi l’anno del post-modern. In quell’anno, infatti, le nuove tendenze apparvero tutte insieme alla ribalta.
La Biennale di Venezia dell’80 presentò due interessanti mostre: alla Corderia dell’Arsenale fu allestita la «Via Novissima», che rimane la prima e più completa mostra ad illustrare la nuova architettura post-modern, ed ai Magazzini alle Zattere, nell’ambito di Aperto ’80, si ebbe la prima mostra della Transavanguardia, curata da Achille Bonito Oliva. Sempre nel 1980 una mostra a Roma curata da Maurizio Calvesi presentò in maniera organica quella tendenza definita Pittura Colta, o Anacronismo o anche Nuova Maniera. Ed infine nel 1980 il critico Renato Barilli raggruppò una serie di artisti, sempre di spirito post-modern, nell’etichetta di Nuovi nuovi.
Le diversità tra queste correnti sono notevolissime e riguardano, oltre che lo stile, il diverso ricorso alla memoria. Nel caso della Transavanguardia la memoria è quella delle esperienze avanguardistiche di inizio secolo, con particolare predilizione per l’espressionismo. Gli artisti della Pittura Colta guardano invece alla storia dell’arte neoclassica o barocca, traendo di lì la loro diversa poetica e stile. I Nuovi nuovi praticano invece un citazionismo disimpegnato, talora ironico, fatto non solo di motivi iconici ma anche di motivi aniconici e decorativi.
In tutti prevale comunque l’atteggiamento di chi non è più obbligato a guardare affannosamente avanti alla ricerca continua del nuovo, ma può tranquillamente e senza inibizioni girarsi alle spalle e rimeditare sul proprio passato e sulla propria memoria.
(liberamente tratto da testi vari)