venerdì 22 agosto 2008

PLATONE, L’IDEA DEL BELLO E LA DIALETTICA DELL’AMORE (FEDRO)

a cura DI D. PICCHIOTTI

Nel brano viene descritta l’azione straordinaria che l’Idea del Bello ha sulle cose, il suo essere “la piú percepibile dai sensi” e l’effetto che essa produce sui corrotti e sui puri. Su questi ultimi la bellezza genera quel tipo di innamoramento che fa volare l’anima verso il sovrasensibile, cioè verso l’Idea. Parla Socrate, che riferisce un discorso del poeta Stesicoro.
Fedro, 249 d-252 c
Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come un uccello fissi l’altezza [e] e trascuri le cose terrene, offre motivo d’essere ritenuto uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la piú nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è piú nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto amatore. Perché, secondo quanto s’è detto, ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa [250 a] creatura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassú una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto allora videro di santo. Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi e non si tengono piú, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è [b] sufficientemente profonda. Ora nelle imitazioni terrene non traspare neppure un raggio di giustizia, di temperanza e di quant’altri beni siano preziosi per l’anima; ma solo pochi, con organi cosí ottusi, possono a fatica scorgere, accostandosi alle immagini, la natura di ciò che in esse è raffigurato. La bellezza brillava allora in tutta luce, quando nella beata schiera ne godevamo la beatifica visione, noi al seguito di Giove, altri di un altro dio, ed eravamo iniziati a quella iniziazione che si può ben dire [c] la piú beatifica di tutte; e la celebravamo integri ed inesperti dei mali che in seguito ci avrebbero atteso, in misterica contemplazione di integre e semplici, immobili e venerabili forme, immersi in una luce pura, noi stessi puri e privi di questa tomba che ora ci portiamo in giro col nome di corpo, imprigionati in esso come un’ostrica ...
2 Questo discorso sia il nostro tributo alla reminiscenza che già ci ha tirato ad una lunga digressione, presi dal rimpianto delle cose di allora. Ora, la bellezza, come s’è detto, splendeva di vera luce lassú fra quelle essenze, e anche [d] dopo la nostra discesa quaggiú l’abbiamo afferrata con il piú luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è il piú acuto dei sensi permessi al nostro corpo; essa però non vede il pensiero. Quali straordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche mai chiara immagine di sé da contemplare! Né può vedere le altre essenze che son degne d’amore. Cosí solo la bellezza sortí questo privilegio di essere la piú percepibile dai sensi e la piú amabile di tutte. Chi pertanto [e] ha una lontana iniziazione o è già corrotto non può rapidamente elevarsi da questo mondo a contemplare la bellezza in sé di lassú, col mettersi a guardare ciò che qui in terra si chiama bello; cosicché egli la riguarda senza venerazione e, arrendendosi al piacere, come una bestia, si lancia a seminare figlioli, o abbandonatosi agli eccessi non prova timore né vergogna a perseguire piaceri contro [251 a] natura. Ma chi sia iniziato di fresco e abbia goduto di lunga visione lassú, quando scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, súbito rabbrividisce e lo colgono di quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la venera come divina e se non temesse d’esser giudicato del tutto impazzito, sacrificherebbe al suo amore come a un’immagine di un dio. E rimirandolo, come avviene quando il brivido cede, gli subentra un sudore e un’accensione [b] insolita: perché man mano che gli occhi assorbono l’effluvio di bellezza, egli s’accende e col calore si nutre la natura dell’ala. Con il calore poi si discioglie intorno alle gemme l’ispessimento che, da tempo incallito, proibiva loro di germogliare. Affluendo il nutrimento, diviene turgida e lo stelo dell’ala riceve impulso a crescere su dalla radice, investendo l’intera sostanza dell’anima. Perché un tempo era tutta alata.
3 [c] Ora essa palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i bambini con i denti quando spuntano, quel prurito e tormento, ecco questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali: palpita, s’irrita e prova tormento mentre le spuntano. Quando dunque rimirando la bellezza d’un giovane, l’anima riceve le particelle che da quello partono e scorrono (ed è perciò che si chiama “fiume di desiderio”), se ne nutre, se ne riscalda, cessa [d] l’affanno e gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza l’anima inaridisce e le aperture dei meati attraverso i quali spuntano le penne disseccandosi si contraggono sí da impedire i germogli dell’ala. Ma questi, imprigionati dentro, insieme all’onda del desiderio amoroso, palpitando come un’arteria urgono ciascuno contro la propria apertura sicché l’anima, trafitta da ogni parte, smania per l’assillo ed è tutta affannata. Ma riassalendola il ricordo della bellezza, ringioisce. Cosí sovrapponendosi questi due sentimenti, l’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e [e] fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. Ed è cosí che non si staccherebbe mai dalla bellezza e che la tiene cara piú di tutte; anzi si smemora della madre, [252 a] dei fratelli e di tutti gli amici, e se il patrimonio rovina perché l’ha abbandonato, non gliene importa nulla, e, messe da parte norme e convenienze delle quali prima si adornava, è prona ad ogni schiavitú e a dormire in qualunque posto le si permetta, il piú vicino possibile al suo caro. Perché, oltre a venerare colui che possiede bellezza, ha [b] scoperto in lui l’unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell’anima, mio bell’amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore; ma quando ti dirò come lo chiamano gli dèi, forse sorriderai, data la tua giovinezza. C’è una coppia di versi sull’amore, citati da certi Omeridi, traendoli forse dalla loro tradizione segreta, il secondo dei quali è davvero insolente e zoppicante di metrica. Dicono cosí:
Gli uomini lo chiamano Amore che vola,
Alato gli dèi, perché fa crescere l’ali.
4 [c] Ci si può credere o no, tuttavia la causa delle condizioni degli innamorati è proprio questa. [...]

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