martedì 26 agosto 2008

“Monadologia”

. a cura DI D. PICCHIOTTI

Nella “Monadologia” del 1714, sintesi di inarrivabile efficacia del suo complesso sistema, Leibniz (1646-1716) mostra di essere il vero e forse unico continuatore moderno dell’ilemorfismo aristotelico, cioè di quella cosmologia d’impronta schiettamente vitalistica, che fa di forma e materia i principi esplicativi della natura, prima che la frequenza statistica degli accadimenti e il modello meccanicistico trionfassero con Galileo e Cartesio, imponendo una rappresentazione del mondo di tutt’altro genere allo scientismo moderno.
Mi limito a postare alcuni paragrafi (il testo intero della Monadologia qui), senza appesantire con commenti. Basta osservare che qui i concetti di forma, psiche, percezione e immagine trovano un contesto che ne illumina le relazioni, nel senso indagato dai post precedenti.

Qualsivoglia porzione di materia può concepirsi come un giardino pieno di piante e come uno stagno pieno di pesci. Ma qualsivoglia ramo della pianta, qualsivoglia membro dell’animale, qualsivoglia goccia dei suoi umori è a sua volta un tale giardino o un tale stagno. (67)
Da ciò si vede che qualsivoglia corpo vivente ha un’entelechia dominante che è l’anima nell’animale, ma i membri di questo corpo vivente sono pieni di altri viventi, piante, animali, di cui ciascuno ha ancora la sua entelechia e la sua anima dominante. (70)
Lo stato transitorio che implica e rappresenta una moltitudine nell’unità o nella sostanza semplice non è altro che ciò che si chiama percezione, che dobbiamo distinguere dall’appercezione o coscienza, come vedremo. I cartesiani hanno sbagliato proprio in questo, perché hanno preso per un nulla le percezioni delle quali non siamo consci. Per questo erano convinti che solo gli spiriti fossero monadi, che non vi fossero anime degli animali né altre entelechie. (14)
L’azione del principio interno che opera il mutamento o il passaggio da una percezione a un’altra può essere denominato appetizione: è vero che l’appetito non può mai raggiungere interamente ogni percezione a cui tende, ma ne ottiene sempre qualcosa, e giunge a nuove percezioni. (15)

Sì è allora costretti ad annettere che la percezione e ciò che ne dipende non si può esplicare attraverso ragioni meccaniche, ossia tramite figure e moto. Perché se fingiamo che ci sia una macchina, che possa strutturalmente pensare, sentire, percepire, la si potrà concepire ingrandita, ma in modo tale che abbia conservato le stesse proporzioni, di modo che vi si possa entrare come in un mulino. Supposto questo, si troveranno, visitandone l’interno, solo parti che si spingono reciprocamente, mai qualcosa che spieghi la percezione. Perciò occorre cercarla nella sostanza semplice e non nel composto o macchina. Non si può trovare altro che questo nella sostanza semplice: non vi è nulla in essa al di fuori delle percezioni e dei loro mutamenti. Solo in questo possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze semplici (17)
Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha percezioni e appetiti nel senso generale che abbiamo appena esplicato, tutte le sostanze semplici o monadi create si possono chiamare anime. Ma, poiché l’appercezione è qualcosa di più di una qualsiasi semplice percezione, consentiamo a che il nome generale di monadi ed entelechie si attribuisca esclusivamente alle sostanze semplici che godano di semplice percezione, e che si chiamino anime solo quelle la cui percezione è più distinta e unita a memoria. (19)
Ora, questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna, e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia dei rapporti che esprimono tutte le altre e che, di conseguenza, sia uno perpetuo specchio vivente dell’universo. (56)
E come una stessa città vista da luoghi differenti sembra del tutto diversa ed è come moltiplicata prospetticamente, così accade che, a causa della moltitudine infinita delle sostanze semplici, ci siano altrettanti differenti universi che non sono perciò che le prospettive di uno solo secondo i diversi punti di vista di ogni monade. (57)
…ogni monade (…) avendo una natura rappresentativa, non può essere limitata da nulla che la obblighi a rappresentare solo una parte delle cose, sebbene, in verità, questa rappresentazione, nel dettaglio di tutto l’universo, sia solo confusa e non possa essere distinta che in una piccola parte delle cose, cioè in quelle che sono o le più prossime o le più grandi in rapporto a ciascuna delle monadi, altrimenti ogni monade sarebbe una divinità. Non è nell’oggetto, ma nella modificazione della conoscenza dell’oggetto che le monadi sono limitate. Vanno tutte confusamente verso l’infinito, verso il tutto, ma sono limitate e differenziate attraverso i gradi delle percezioni distinte. (60)
(Poichè) tutte le cose (sono) piene e di conseguenza ogni materia connessa, e siccome nel pieno ogni movimento produce un qualche effetto sui corpi distanti in rapporto alla distanza, di modo che un corpo qualsiasi non solo è affetto da quelli che lo toccano, e percepisce tutto ciò che accade loro, ma anche, tramite loro, percepisce quelli che toccano i primi, dai quali è toccano immediatamente, ne segue che questa comunicazione procede sino a qualsivoglia distanza. E di conseguenza ogni corpo è affetto da tutto ciò che accade nell’universo, a tal punto che colui, il quale vede tutto, potrebbe leggere in ognuno, ovunque, ciò che accade e anche ciò che è accaduto o accadrà, osservando nel presente ciò che è lontano tanto secondo il tempo quanto secondo lo spazio. (61)
Così, benché qualsivoglia monade creata rappresenti tutto l’universo, essa rappresenta più distintamente il corpo che le è assegnato in modo peculiare e di cui costituisce l’entelechia. E come questo corpo esprime tutto l’universo attraverso la connessione di tutta la materia nel pieno, così anche l’anima rappresenta tutto l’universo rappresentandosi il corpo che le appartiene in maniera peculiare. (62)
Così qualsivoglia corpo organico di un vivente è una specie di macchina divina o un automa naturale che sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali, poiché una macchina fatta tramite l’arte umana non è una macchina in qualsivoglia parte. Per esempio i denti di una ruota hanno parti o frammenti che non sono più qualcosa di artificiale e non hanno più nulla che connoti la macchina rispetto all’uso a cui era destinata la ruota. Ma le macchine della natura, ossia i corpi viventi, sono macchine sino nelle più minime parti, sino all’infinito. E in questo consiste la differenza tra natura e arte, cioè tra l’arte divina e la nostra. (64)
Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali attraverso appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei moti. E due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono tra loro armonici. (79)
In questo sistema i corpi agiscono l’uno sull’altro come se (per assurdo) non ci fossero affatto anime, e le anime agiscono come

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