mercoledì 2 luglio 2008

Impronta digitale

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Una impronta digitale (detta più correttamente dermatoglifo) può essere definita come lo schema alternato di creste e valli che possono essere facilmente rilevate sulla superficie delle dita, in particolar modo sull'ultima falange. Le creste variano in ampiezza da 100 ai 300 micron, mentre il periodo cresta/valle corrisponde all'incirca ai 500 micron.
Esse sono utilizzate da molto tempo ed estensivamente per l’identificazione degli esseri umani in generale, e per poterne inoltre rilevare la presenza su oggetti collegati ad eventi criminosi.
A livello globale, lo schema di creste/valli esibisce una o più regioni caratterizzate da una forma particolare; esse vengono definite "regioni singolari". La presenza di tali regioni determina la classificazione dell'intera impronta in una delle cinque classi definite da Sir Edward Henry in India nei primi anni del ventesimo secolo, espandendo un lavoro precedente di Sir Francis Galton. Già agli albori della loro utilizzazione infatti, appariva necessario un sistema di suddivisione delle impronte in classi per rendere più veloce il processo di comparazione. Tali classi sono chiamate Right Loop (che è rilevabile con una frequenza del 31,7%), Left Loop (33,8%), Arch (3,7%), Tented Arch (2,9%) e infine, Whorl (27,97%).
A livello locale invece, le discontinuità delle creste vengono chiamate minuzie, o "dettagli di Galton", in onore del primo studioso che ne approfondì lo studio e ne accertò la persistenza. Esse possono essere fatte corrispondere semplicisticamente alle terminazioni o alle biforcazioni delle creste (vedi l'esempio in Figura, dove il cerchio evidenzia una terminazione e il quadrato, una biforcazione), anche se in dettaglio la loro forma può essere descritta in modo più preciso: esistono ad esempio minuzie a forma di punto, uncino e biforcazione multipla.
Storia
Per quanto riguarda i primordi della storia delle impronte digitali, sono state trovate tavolette Babilonesi risalenti al 500 A.C. (e quasi contemporaneamente anche in Cina) riguardanti transazioni commerciali e recanti impronte impresse sulla loro superficie, probabilmente utilizzate come una specie di firma personale del documento. Lo studio vero e proprio delle impronte digitali, che va sotto il nome di dattiloscopia, affonda le sue radici in un passato molto più recente, ma comunque sempre abbastanza lontano dai nostri giorni: le moderne tecniche si sono evolute da studi compiuti per la prima volta alla fine del XVII secolo d.C.
In questo senso, il primo documento scientifico è stato redatto nel 1684 dal botanico e fisico inglese Nehemiah Grew e riguarda uno studio sulla struttura delle creste e dei pori. Successivamente, nel 1788, J.C.A. Mayer individuò e descrisse alcune caratteristiche ricorrenti delle impronte papillari, affermando anche la loro unicità da individuo a individuo. La prima classificazione delle impronte in nove categorie, basate sulla struttura generale delle creste, viene ideata nel 1823 con John Evangelist Purkinji, professore di anatomia all’Universita di Bresalu in Germania. Nel 1880, lo scozzese Henry Faulds, dottore ed evangelista in Giappone, suggerì in un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Nature l’individualita delle impronte digitali ed un loro possibile utilizzo nell’identificazione dei criminali. Quasi contemporaneamente, William Herschel annunciò di averle già utilizzate per diversi anni in India per fini investigativi, dimostrando così la praticabilità dell'idea.
Le ultime due importanti scoperte in questo campo furono apportate da Sir Francis Galton, che introdusse la struttura di minuzia nel 1888, e Sir Edward Henry, che nel 1899 realizzò un sistema di classificazione delle impronte in grado di semplificare molto il processo si identificazione, visto che al tempo era chiaramente ancora realizzato manualmente da esperti del settore.
Si può quindi ritenere che già nei primi anni del 20esimo secolo, la formazione e i principi generali alla base delle impronte digitali e della loro verifica fossero già ben compresi a tal punto da consentire un loro primo utilizzo, come difatti avvenne, nei tribunali di giustizia di diversi stati.
Persistenza e individualità
L’identificazione attraverso l’utilizzo delle impronte digitali è basata su due basilari premesse di persistenza, secondo la quale le caratteristiche delle impronte non cambiano attraverso il tempo, e individualità, la quale afferma che l’impronta è unica da individuo a individuo.
Per trattare brevemente l’aspetto dal punto di vista biologico, la pelle è costruita da tre tipi di tessuto, epidermide e derma, che insieme formano la cute e l’ipoderma che si trova più in profondità. Mentre l’epidermide costituisce lo strato più superficiale, il derma si trova immediatamente sotto a questa e quindi ha con lei intimi rapporti, perché la sostiene, la nutre ed offre sede alle appendici epidermiche (le ghiandole e i peli). L'epidermide e il derma sono uniti tramite le papille dermiche, cioè dei prolungamenti conici di tessuto connettivo che dal derma si estendono a compenetrare l'epidermide.
Il disegno superficiale della cute è in rapporto al variare della disposizione e dello spessore delle fibre connettive del derma e questo dà origine ad una precisa disposizione papillare. Questo disegno è appunto così tipico che è utilizzabile per l'identificazione di un individuo e, a meno di traumi o di interventi, la prima caratteristica di persistenza è assicurata quindi dalla ricrescita dello strato di pelle morta con le stesse esatte caratteristiche.
Le impronte digitali si formano definitivamente nel feto di 7 mesi e sono in generale, insieme all’aspetto fisico, facenti parte del fenotipo di un individuo, che si ritiene sia univocamente determinato dalla combinazione di uno specifico genotipo con uno specifico ambiente. La loro formazione è quindi simile a quella dei vasi sanguigni nell’angiogenesi; le caratteristiche generali cominciano ad emergere con la definizione della pelle sui polpastrelli, ma allo stesso tempo la posizione del feto nell’utero e i flussi del liquido amniotico cambiano durante questo processo di formazione rendendolo unico. Questo micro ambiente varia da mano a mano e da dito a dito: esistono quindi molti fattori che variano durante tale sviluppo, anche se esiste un patrimonio genetico che in principio lo ha fortemente influenzato.
Per quanto riguarda quindi la seconda premessa (individualità), essa viene ritenuta essere vera sulla base di risultati empirici, ma non ne è stata scientificamente dimostrata la validità assoluta. L’unicità di un’impronta digitale è un’ipotesi di lavoro che in senso matematico è difficile (se non impossibile) da provare; la dimostrazione opposta è sicuramente più facile da ottenere in teoria, trovando nella pratica due impronte identiche di due dita diverse. Ad oggi però, questo evento non si è ancora verificato.
Rilevamento delle impronte
Il rilevamento delle impronte è un’operazione comunemente effettuata nel corso di indagini di polizia; può avvenire in modo diretto, su individui in stato di fermo, ai quali si fanno imprimere su carta le impronte dei polpastrelli macchiati di inchiostro; oppure in modo indiretto, attraverso particolari procedure che permettono di rendere visibili le impronte presenti, ad esempio, nel luogo in cui è stato commesso un crimine.
In questo caso, una delle più usate procedure consiste nell’applicare sulle superfici dure e non assorbenti una polvere a base di alluminio, di carbone o di sostanze fluorescenti, capace di aderire alle tracce di sebo eventualmente presenti e, quindi, di evidenziare le impronte.
Per superfici porose o nel caso di tessuti, risultano più indicati trattamenti chimici a base di ninidrina e vapore di iodio. Le impronte, fotografate in scala 1:1 e archiviate, possono essere confrontate con quelle di individui sospettati, in modo da poterne escludere o confermare un possibile coinvolgimento con il reato. Tale operazione si avvale di sistemi computerizzati AFIS che permettono l’archiviazione di un gran numero di dati e la rapida effettuazione dei confronti.
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