martedì 18 novembre 2008

L'origine dello Stato "Un percorso da Platone a Marx"

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Il maestro di Platone, Socrate, rappresentò per lui non solo un esempio di sapienza e di ricerca teorica della verità, attraverso
il continuo dialogare, ma anche un esempio morale e politico di comportamento nei confronti della comunità, della polis e
del potere.
Fin dall’inizio della sua ricerca teorica, Platone si avvicina alla filosofia intesa socraticamente come scienza non solo teoretica
- ricerca della verità - ma anche pratica e morale - come scienza del bene e del male - ; il piano puramente teorico del
pensiero, del ragionamento, della discussione intorno alla verità delle cose viene tenuto insieme a quello del comportamento
morale, del rapporto politico fra il cittadino e la polis, fra l’individuo e la comunità. La ricerca della verità è, per Socrate,
consapevolezza di ciò che è bene e di ciò che è male; ricerca che avviene in un contesto di rapporti umani, politici e sociali,
quale era quello della polis (Atene) nel corso del V secolo a. C.
La vicenda umana e filosofica di Socrate si conclude tragicamente, come si sa, nel 399 a.C. con la condanna a morte del
filosofo, il quale, fedele ai propri princìpi, pur non riconoscendosi colpevole di fronte ai giudici - colpevole di tradire la
religione olimpica e di deviare i giovani dalla tradizione - accetta e porta di persona a termine la propria condanna bevendo
la cicuta.
L’esempio socratico costituisce per Platone un punto di partenza per il suo successivo percorso filosofico che si distaccherà,
a un certo punto, dalla concezione della dialettica che aveva Socrate approdando a quella "dottrina delle idee" che, invece di
eliminare l’esigenza filosofica di interrogarsi sulla verità, accentuerà la necessità, da parte di chi ricerca il vero, di percorrere
un cammino di conoscenza verso quelle forme o idee delle cose (éidos o idéa in greco) che, non sconosciute all’animo umano,
debbono però essere faticosamente riportate alla memoria.
Socrate costituisce un fondamentale punto di partenza anche per la riflessione e l’attività politica di Platone, il quale, dopo la
morte del maestro, si recherà in Sicilia a Siracusa, presso la corte del tiranno Dionigi il Vecchio, con il fine di realizzare, fuori
d’Atene (la città che aveva condannato il più sapiente fra gli uomini), uno stato in cui potere politico e filosofia fossero
organicamente uniti.
La forte delusione, per altro ripetuta in altri due successivi viaggi, che seguì all’incontro e al tentativo di collaborazione col
tiranno, spinse Platone, tornato ad Atene, da una parte a fondare nel 387 a.C. l’Accademia, alla quale si dedicò per circa 20
anni, e dall’altra ad occuparsi in modo prevalentemente teorico dei problemi e delle questioni politiche.
Nei primi dialoghi (Gorgia, Menone) del secondo periodo platonico (periodo della maturità che segna il distacco da Socrate),
vengono fatti accenni per lo più negativi alla politica, considerata in modo assai pessimistico, data la vicenda socratica alle
spalle. La politica però viene definita eticamente, e cioè proprio come la pratica consapevole del bene da parte di chi vuole
estendere la virtù a tutta quanta la città, a tutti i cittadini e al loro comportamento complessivo; cosa a cui finora si sono
sottratti tutti i (falsi) politici, e della quale solo Socrate si è seriamente occupato.
La teoria politica di Platone si fa più complessa e articolata nella Repubblica dove il filosofo viene descritto come il perfetto
politico, e cioè come colui che sa cos’è la giustizia e la applica consapevolmente. Il dialogo comincia con la domanda che
cosa sia veramente giustizia, approdando a una feconda analogia fra la giustizia nell’uomo e la giustizia nello Stato. Da
questo punto in poi viene ricercata la genesi dello Stato, la sua origine di carattere economico, fondata cioè sulla necessità di
soddisfare i bisogni naturali dell’uomo e della comunità. D’altra parte lo Stato si fa "gonfio di lusso" e cioè aumentando la
popolazione, aumentano e si complicano quei bisogni che si distaccano dalla iniziale naturalità e necessitano di un
allargamento, che provoca guerre, ma soprattutto disequilibri interni.
La giustizia viene allora identificata proprio con l’equilibrio, con la capacità di ciascuno - e di ciascuna classe presente nello
Stato - di svolgere bene il proprio compito. Ma per fare questo è necessaria la massima consapevolezza dell’identità fra
l’interesse proprio e l’interesse dello Stato. Gli unici a possederla, secondo Platone, sono i filosofi, ai quali viene affidato il
comando supremo. In questo senso si può parlare in Platone di uno Stato e di rapporti politici fra le classi (filosofi-
governanti, guerrieri-soldati e artigiani-agricoltori) in cui viga la noocrazia, e cioè l’egemonia e il potere di chi sa. Come si
vede, qui dove non ce lo aspettavamo, si impone il concetto e il termine nous, mente, conoscenza e consapevolezza
filosofica, la quale solamente può identificarsi senz’altro con il potere politico. La perfezione politica dello stato, in altri
termini, presuppone la perfezione filosofico-etica di esso, incarnata dalla classe dei filosofi al potere.
Si è a lungo parlato e discusso del valore storico e filosofico dello Stato platonico; se esso sia solo un’utopia (un’idea perfetta
ma difficilmente realizzabile), oppure abbia un carattere normativo nei confronti della realtà, e cioè sia un modello a cui gli
Stati reali devono, per quanto è possibile, rifarsi. Hegel ha sostenuto in vario modo che lo Stato platonico fosse una ‘utopia
reale’, e cioè certamente un prodotto di pensiero, ma non un ideale vuoto, piuttosto quel concetto di Stato che meglio di tutti
coglieva la natura stessa dell’eticità greca. D’altra parte la Repubblica di Platone ha riscontri oggettivi nell’esperienza da lui
vissuta con la vicenda di Socrate, dalla quale risultò l’esigenza di una profonda riforma politica che riportasse l’equilibrio
all’interno della democrazia e comunque prospettasse la concreta possibilità di fondare lo Stato non su interessi particolari e
privati ma universali e generali.
La riflessione politica di Platone, dopo la Repubblica, si sviluppò ulteriormente nel Politico e nelle Leggi, oltreché nel Timeo
(dove l’analogia fra la struttura dell’individuo e quella dello Stato è estesa a tutto l’universo), tutte opere della vecchiaia, nelle
quali il forte dualismo fra mondo delle idee e mondo della realtà concreta viene in un certo senso attenuato, e d’altra parte
l’idea di Stato come attuazione consapevole ed equilibrata della giustizia viene affiancata dalla necessità di osservare le leggi.
Nel Politico viene considerata la forma di costituzione democratica come la meno pericolosa - anche se la costituzione ‘regia’
rimane pur sempre l’ideale, ma ahimè perduto per sempre - perché la divisione dei poteri presente in essa limita quelle
tendenze nocive provenienti dal mancato rispetto delle leggi e dal prevalere di forze particolari sull’interesse comune. In
questo dialogo si prende a tema la necessità, da parte dello Stato che intende perfezionarsi, di darsi una costituzione, un
insieme di leggi, il più possibile misurata e bilanciata. Nelle Leggi verrà inoltre stesa da Platone una vera e propria legislazione
positiva, cioè un codice di leggi riguardante tutti i campi del diritto, da quello costituzionale, al pubblico, a quello privato.
Questo maggiore senso del concreto che l’ultimo Platone sembra manifestare nella sua ricerca in campo politico, individua
nello Stato spartano la forma costituzionale migliore, poiché essenzialmente mista: l’unità del principio monarchico è nella
figura del Re, di quello aristocratico nel Consiglio degli anziani e di quello democratico nell’Eforato. La predilezione
platonica per la politica spartana, rispetto a quella ateniese, risale in realtà al tempo della giovinezza, ma qui viene espressa
con riferimenti precisi al campo del diritto che precedentemente non erano mai stati presi in considerazione.
In conclusione si può dire che l’ultimo Platone si sia evoluto in senso pessimistico per quanto riguarda la politica, nella
misura in cui prende atto della sempre maggiore difficoltà di fondare uno stato veramente giusto ed equilibrato (si vedano
anche le negative esperienze politiche vissute in Sicilia); d’altra parte però non abbandona la sua convinzione profonda della
necessità di tenere organicamente unite la vita politica con la vita filosofica, la conoscenza dell’uomo con quella dello Stato,
quella dello Stato con quella dell’universo. In questo senso - e qui vi accenniamo soltanto - il Timeo risulta paradigmatico,
anche perché istituisce un nesso etico universale; si potrebbe dire che l’etica stessa, in questo dialogo, riceva una fondazione
cosmica. Come il mitico Demiurgo è l’artefice del mondo e dell’uomo, così l’uomo deve dar vita a uno stato basato su
equilibri che ricordino quelli dell’armonia universale. di Carla Maria Fabiani

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