GRECIA "LA VITA INTELLETTUALE" Prima, durante e dopo la guerra del Peloponneso (periodo 435-390 a.C. )
POESIA - TRAGEDIA - COMMEDIA - L'ARTE - LA MUSICA
I Greci consapevoli del valore artistico della parola e della sua efficacia nella pratica della vita, curarono tale pregio e sentirono che la parola pur avendo sempre uno stesso valore acquistava importanza diversa a seconda delle condizioni nelle quali era usata. Nutrito dall'entusiasmo, il parlare diventa pieno di ritmica musicalità, un linguaggio che "crea", e dal verbo poièin che significa appunto fare, creare, chiamarono questo linguaggio poesia, cioè creazione.
Anche nella poesia i Greci toccarono vette sublimi, mai raggiunte da un altro popolo. Nella civiltà greca arte, mitologia, religione, filosofia, costituirono per molto tempo quasi una cosa sola; e non diventarono discipline distinte, autonome se non partecchi secoli dopo. Studiando la letteratura greca bisogna tener conto della quantità di opere e di aspetti che sembrerebbero non avere relazioni con il mondo esclusivamente letterario. Di più la mancanza di unità propria dei greci anche nel campo politico si riflette anche nel campo letterario. Pur possedendo chiara e ferma coscienza della loro origine comune i Greci non arrivarono mai a costituire uno Stato unitario. Ma il vincolo principale che collegò le varie stirpe dell'Ellade fu proprio la letteratura e la poesia. Il popolo greco come sappiamo era distinto in "città", diviso dall'origine, oscura, in alcune grandi stirpi che avevano tradizioni e disposizioni e dialetti diversi. Tre stirpi principali esercitarono una cospicua attività nel campo letterario; gli Ioni, gli Eoli e i Dori. Anche quando parliamo di lingua greca ci riferiamo al dialetto attico, mancando, una vera lingua nazionale, essendoci solo dialetti parlati nelle varie regioni.
La stirpe degli Ioni ebbe la prevalenza morale sulla Grecia e il dialetto ionico diede la base fondamentale del nuovo linguaggio, che a lungo andare diventò lingua nazionale, cioè una lingua comune, (o dialetto attico) quando la potenza politica dei Greci decadde e la civiltà ellenica si diffuse per i nuovi paesi.
Verso la fine dell'indipendenza greca, tutti o quasi, usarono, almeno scrivendo, il dialetto attico, pur continuando ognuno a servirsi del proprio per il discorso. Avvenne insomma nella Grecia quel che avvenne in seguito in Italia, dove il dialetto toscano prevalse e diventò la lingua italiana. E accadde come in Italia, vedi il nostro Manzoni, che andò a "risciacquare nelle acque dell'Arno" i suoi "Promessi Sposi"). Quando uno scrittore componeva una sua opera nel suo dialetto, per renderla più famosa, doveva necessariamente risciacquarla in dialetto attico.
Retorica, filosofia e scienze speciali ebbero il predominio nella vita intellettuale del IV secolo; di fronte ad esse la poesia fu meno curata. Non è a dire che la produttività in questo campo sia però diminuita; la folla esigeva ora come prima che le fossero elargiti i suoi abituali trattenimenti teatrali ed a questo scopo vennero scritti anche in questo periodo innumerevoli drammi. Ma la tragedia rimase assolutamente schiava dell'indirizzo inaugurato da EURIPIDE (480-406), e naturalmente le imitazioni non poterono eguagliare l'originale, per quanto meritevoli di considerazione siano la opere di parecchi poeti di quest'epoca. Ne seguì che invalse l'uso di rappresentare accanto alle produzioni nuove anche tragedie del tempo classico, di regola naturalmente quelle di Euripide.
Migliori furono i contributi portati dalla commedia. Le commedie di ARISTOFANE (455-388) e dei suoi contemporanei con le loro continue allusioni ad avvenimenti dei propri tempi erano già divenute inintelligibili alla generazione venuta subito dopo di loro, e soprattutto non rispondevano più al sentimento dal decoro più raffinato della nuova epoca. Venne quindi abbandonato l'uso del costume grottesco dagli attori col suo fallo colossale e l'aziona scenica fantastica fu surrogata da una favola che, sebbene non badasse per il sottile alla verosimiglianza, pure si mantenne nei limiti dal possibile. Anche la tinta politica di questo genere d'arte andò sempre più dileguandosi, la commedia divenne uno spettacolo di carattere meramente civile, di intrattenimento (diremmo noi oggi "nazionalpopolare"), che perciò non ebbe più un determinato colore locale, di modo che le varia produzioni poterono essere date su tutti i teatri nonostante che esse, come avveniva di regola, fossero state principalmente create avendo in mira il pubblico ateniese. Nel complesso anche in questo campo la produzione non si elevò al di sopra del livello della mediocrità, finchè nell'epoca succeduta ad Alessandro non si ebbe in MENANDRO (342-290) un nuovo poeta classico della commedia.
Aristofane fu chiamato il principe della commedia antica, come Menandro fu detto quello della nuova.
Il primo quando venne col suo genio rinnovò e perfezionò la commedia. Egli diede al genere una forma del tutto singolare di queste rappresentazioni; con colori differenti trattò i medesimi soggetti. Si piangeva alla Niobe di Euripide, e si rideva a quella di Aristofane. Le commedie che compose furono una cinquantina di cui 11 a noi pervenute esprimenti la più schietta e briosa gioia di vivere. Fra queste ricordiamo le Nuvole, il Pluto, gli Uccelli, le Rane, i Cavalieri, gli Acarnesi, la Pace, le Donne in Senato, Lisistrata, le Vespe e altre.
La prima elencata fu quella fatale a Socrate. E' controversa fra gli antichi scrittori se Aristofane si decidesse di porre in ridicolo Socrate in teatro, dietro le insinuazioni di Melito; oppure lo facesse per vendicarsi della disapprovazione che il filosofo dava intorno alle maniere indecenti con le quali il nostro compositore di commedie peccava a danno del pubblico costume. Comunque sia la cosa, è certo che nessun poeta fece dell'arte sua un così indegno traffico.
Aristofane compose espressamente per Socrate le Nuvole. Nella commedia introduce un personaggio chiamato Socrate, il quale figura come un filosofo sciocco, ridicolo ed empio; gli fa parlare il linguaggio dell'impostura, e le più stomachevoli stranezze nel declamare alcume massime. Non contento di ciò lo rappresenta come un uomo che adora le nuvole che per lui sono la divinità. Inoltre lo dipinge mentre ammaestra con la retorica un giovane dissoluto, e i frutti di tale insegnamento sono che il giovane nega un debito al suo creditore, e percuote il proprio padre, provando al primo che nulla gli deve, ed al secondo che è rivestito di competente autorità per così trattarlo. Fa di Socrate un ritratto perfetto di un filosofo irreligioso e di un retore libertino. Un carattere che Aristofane regala gratuitamente al saggio Socrate per renderlo ridicolo e dispregevole al pubblico.
Questa rappresentazione eccitò il popolo che vi accorreva sempre in gran folla. A una rappresentazione prima che si svolgesse il processo a suo carico, ci andò anche Socrate, e nonostante la indegna parodia, mantenne l'impertubabilità fino alla fine, che poi al processo progredì fino all'eroismo. Certamente una prova luminosissima di fermezza d'animo.
Torniamo alla Poesia. Il primo periodo corrisponde all'età eroica con gli inni e le lodi agli dei. Nell'età monarchica cominciò ad esistere una poesia profana che cantava gli eroi, cioè la epica, con in mezzo tante leggende popolari che raccontavano e ingrandivano quelle imprese, aggiungendovi l'elemento meraviglioso. Erano questi gli aedi e i rapsodi, e ve ne furono prima e dopo Omero. Lo stile è conforme all'indole semplice di quei tempi, anche se talvolta tocca la vera sublimità.
Dopo l'invasione dorica nel Peloponneso, vi fu in Grecia un gran movimento di popoli: si fondarono nuove colonie, divennero vivissimi i commerci; abbattuti i tiranni sorsero le repubbliche democratiche: e come l'epica aveva cantata le gesta dei re, sorse una nuova poesia che rappresentò i sentimenti del popolo, ormai giunto a libertà: questa nuova poesia fu la lirica.
Al principio del IV secolo, ANTIMACO di Colofone, ardì contrapporre con la sua Tebaide all'epopea omerica un'epopea moderna, e con la sua Lyde (poema erotico) una elegia moderna alla elegia ionica. Presso i suoi contemporanei egli incontrò poco successo, benché non gli sia stato negato il plauso dei migliori. E perciò appunto fu suo il futuro. Un secolo dopo la Lyde era su tutte le bocche, ed essa ha esercitato una influenza decisiva sullo svolgimento della letteratura nell'epoca alessandrina. Per il momento Antimaco non trovò successori; l'epopea non venne ulteriormente perfezionata e la lirica si limitò a comporre libretti per musica.
Ma prima che sorgesse la vera lirica, vi fu una poesia che i Greci non consideravano tale: essa consiste nelle elegie nel giambo, due generi di tenore opposto.
L' "elegia" era nata come lamento funebre, servì in seguito a esprimere i contenuti più vari: patriottico, amoroso, civile, narrativo-celebrativo, ed erotico-erudito.
Il "giambo" era invece un genere tipico dell'invettiva (sembra che il suo inventore fu Archiloco di Paro - VII sec . a.C. - il poeta dell'amore e dell'odio). La poesia giambica era comparsa nella commedia attica antica, poi cedendo all'epigramma la sua iniziale virulenza, si traformò in semplice parodia. Solo molto più tardi ritornò all'antico spirito con Catullo, Orazio, Marziale; fino ai tempi moderni con Carducci.
A proposito della poesia giambica è opportuno parlare anche della favola sviluppatasi nel Vi sec. I Greci venendo dall'Asia, in quei luoghi appresero alcune favole, poi con la loro fantasia le seppero abbondantemente moltiplicare, per esprimere velatamente e allegoricamente molte verità morali. Venne un ESOPO di origine Frigia, il quale girando per i vari luoghi della Grecia imparò a conoscere quasi tutte le favole, alcune delle quali erano note solo localmente: e, aggiungendone altre di sua invenzione, le andò poi tutte raccontando. Infatti Esopo non scrisse favole, egli va definito come raccoglitore e compositore di favole a voce. Solo più tardi e in questi tempi dell'erudizione ( IV sec.), alcuni osservando l'importanza delle favole, credettero opportuno di farne raccolta per iscritto e così nacquero diverse raccolte di favole cosiddette esopiche.
Altre le scrissero Esiodo, Archiloco, Simonide d'Amorgo, Babrio. All'inizio del I sec. a introdurre le favole presso i Romani fu poi Fedro, un macedone che era giunto a Roma come schiavo di Augusto.
Sono tutte favole che sono degli ingenui e garbati apologhi di animali, suggellati da una morale, dove si esaltano la prudenza e la moderazione, ma anche l'astuzia e l'oppressione dei deboli da parte dei potenti.
LA POESIA DRAMMATICA - LA TRAGEDIA
TESPI (non sappiamo l'anno della sua nascita, Orazio nell'Arte Poetica la fissa nel 566 a.C. - Aristotele, riferisce che organizzò e vinse il primo concorso drammatico in Atene nel 534 a.C.) A Tespi viene attribuito l'onore di essere stato il primo poeta tragico e l'inventore della Tragedia, o meglio l'inventore della separazione dell'attore dal coro in una embrionale azione drammatica.
Fu contemporaneo di Susarion; entrambi trattarono la tragedia, ma a Tespi viene attribuito di esserne stato l'inventore, poichè prima di lui questa specie di dramma non si riduceva che in alcune canzoni.
Tespi (secondo Orazio, ma sembra che sia una notizia infondata) si trasferiva da una città all'altra con un carretto sul quale innalzava un palco; due attori con i visi imbrattati di feccia di vino cantavano dei cori, il cui soggetto era quasi sempre preso dalla storia.
Dopo qualche tempo vi aggiunse un terzo attore, il quale separatamente dai cori recitava dei versi; questa innovazione unitamente ad altre libertà irritò molto Solone. Egli tento di persuadere il popolo a non assistere a simili rappresentazioni, dicendo: "Se noi onoriamo la menzogna nei nostri spettacoli, la troveremo ancora nelle nostre promesse più sacre"; ma nonostante che in questo veto contenesse la più purgata morale, non fu valida per ottenere ciò che Solone si era proposto.
Dopo Tespi, ricordiamo Frinico (ma di lui si sa poco), Cherilo e Pratina, che scrissero drammi satirici. Furono questi poeti che prepararono la nuova tragedia.
Il tipo di tragedia che Tespi aveva lasciata nell'infanzia, aquistò consistenza e una maggiore regolarità nelle mani di ESCHILO (Eleusi 525- Siracusa 456) poeta Ateniese. Prima di dedicarsi interamente Melpomene, aveva seguito Bellona; e nelle battaglie di Salamina, di Maratona e di Platea, fece conoscere che il valore era unito alle altre belle qualità del suo spirito. Ma la celebrità non arrivò con le sue gesta militari, ma dall'arte tragica. Si narra che scrisse 90 tragedie; quaranta furono reputate degne di premio. Di queste noi ne possediamo soltanto sette: Prometeo legato allo scoglio, I sette contro Tebe, I Persiani, Agamennone, Le Coefore, L'Eumenidi, Le Supplici.
Eschilo fornito dalla natura di uno spirito vivace, e nutrito nella sua gioventù con la lettura di quei poeti che più si avvicinavano ai tempi eroici, si era imbevuto delle loro idee per tutto ciò che riguardava il sorprendente e il prodigioso. Raramente ci furono tragedie di argomento contemporaneo o realistiche. Le storie mitologiche e di quell'età che lo avevano preceduto, ebbero grande influenza nelle sue produzioni. Le vendette atroci, i grandi delitti, e tutte le veemenze sociali, gli servirono come materiali per animare i suoi tragici quadri, tutti ispiranti un terrore profondo e salutare. Egli fu spesso inosservante delle regole che poi vennero stabilite per la tragedia: eppure non è difficile rilevare che alcune non gli erano affatto ignote, e che, se non per assoluta convinzione, almeno per senso intimo seppe seguirle. Infatti egli non si permise mai di insanguinare la scena. Riguardò l'unita d'azione e di tempo, come essenziali; ma l'unità di luogo volle reputarle poco importante, o almeno non sempre necessaria.
Il dialogo sotto Tespi, fu limitato fra due persone; Eschilo aumentò questo numero fino a cinque, che si succedevano nella scena regolarmente, senza che il discorso venisse interrotto. Questo è uno dei passi più importanti, e tutti i generi teatrali debbono all'intelligenza ed al genio del tragico Ateniese. Anche il vestire degli attori ebbe una essenziale riforma. Prima di Eschilo essa era capricciosa, mentre lui la istituì analoga al soggetto, alle circostanze ed ai tempi dell'azione.
Il suo teatro non era mobile come quello di Tespi, ma fisso, e lo ornò di macchine e di decorazioni. Nell'arte del gesto egli intervenne raffinandolo facendolo bene apprendere agli attori.
L'effetto prodotto dalle sue rappresentazioni erano perfettamente d'accordo con quelle ch'egli si proponeva di ottenere. I suoi eroi per volere del cieco fato, compievono involontariamente anche grandi delitti, eppure non destavano orrore bensì compassione, e perciò riuscivano interessanti. Destavano compassione perchè tutti vedevano in essi altrettanti automi che agivano per volontà del Fato.
Una trattazione aristotelica della tragedia, chiama questo atteggiamento catarsi. Purificazione, liberazione o rasserenamento delle passioni. Per il filosofo la tragedia assolve una funzione di liberazione in quanto in essa lo spettatore rivive le passioni allo stato contemplativo.
L'immaginazione di Eschilo era forte ma disordinata e anche un poco selvaggia, abbondante di prodigi e poco verosimili i suoi drammi. Fu così talmente libero nell'usare certe espressioni che alla fine fu accusato di volgarità e empietà e condannato a morte. A sottrarlo dalla pena fu il fratello Aminia. Si ritirò in Sicilia, cordialmente ricevuto alla corte di Gerone, presso cui morì all'età di 69 anni nel 456.
Anche la sua morte, stando alla leggenda è inverosimile, come alcune sue tragedie. Si narra che essendo stato avvertito che doveva morire sotto le rovine di una casa, l'abbandonò e si assise nei campi, ma qui un aquila che aveva in bocca una testuggine, osservando la testa calva del nostro poeta, la credette una pietra dove lasciar cadere sopra la sua preda per romperne il guscio, e nel colpo il nostro tragico finì di vivere.
Se nella tragedia si rappresentavano grandi virtù e vizi in un ideale vita e ambiente, nella Commedia invece attori e vita, vizi e virtù, tutto era reale e comune.
SOFOCLE nato a Colono presso Atene (496-406), ancora in giovane età entrò quasi per caso in gara con Eschilo, più vecchio di lui di trent'anni e già famosissimo per tutta la Grecia.
Era un militare. Dopo aver comandate le armate ateniesi, dopo aver esercitato anche la carica di Arconte, essendosi gli Ateniesi resi padrone dell'isola di Sciro, stabilirono per ricordare annualmente un simile evento si indicesse un concorso di compositori di tragedie. Sofocle -fino allora sconosciuto- fu riconosciuto il migliore anche a preferenza del noto Eschilo che si trovava quel giorno nel numero dei competitori. Da quel momento Sofocle lasciò ogni altro impegno e si dedicò interamente a scrivere per il teatro, che stava allora diventando di gran moda e un oggetto di molta importanza. Sofocle il premio lo vinse per altre 20 volte. E - si narra- per un eccesso di gioia per aver vinto un ennesimo premio nel 406, all'età di 91 anni cessò di vivere.
Anche di Sofocle si conservano -delle centoventi che compose- solo sette tragedie: l'Edipo re, l'Antigone, l'Edipo a Colono, l'Elettra, l'Aiace furente, il Filottete e le Trachinierine. Rispetto ad Eschilo, Sofocle è un tragico perfetto, sovrano dell'espressione dei sentimenti.
Profondo conoscitore del cuore umano, fece che su di una sola persona girasse tutto l'intreccio, e che esclusivamente su questa sola persona si dovessero provare sentimenti di pietà, di sollecitudine e di timore. Ebbero quindi origine le tre tanto ricordate unità delle composizioni greche, cioè di luogo, di tempo e di persona. Eschilo le aveva già osservate, ma Sofocle seppe trattarle con maggior esattezza e con più ricercato artificio.
Il terzo dei grandi tragici, fu EURIPIDE (480-406) nato a Salamina nel giorno stesso nel quale i Greci riportavano la strepitosa vittoria in quel luogo contro i Persiani. Quantunque non molto più giovane di Sofocle, e talora in antagonismo con lui nei concorsi, tuttavia segna già la decadenza. Egli introdusse una novità, il prologo, che prima di lui era una parte della tragedia e svolgeva il principio dell'azione; con lui diventò quale lo intendiamo noi, e cioè il poeta faceva con esso intendere agli spettatori l'argomento del dramma in pochi versi. Tolta la curiosità della catastrofe, perchè già annunciata nel prologo, fu necessario a Euripide adottare un intreccio complesso e artificioso, attraverso una strana successione di fatti inaspettati, e tutto ciò a scapito della verosomiglianza. Nondimeno Euripide, appunto per il suo carattere artificioso e retorico, fu nei tempi posteriori, in cui la vera arte era scaduta, studiato più di Eschilo e di Sofocle, artisticamente a lui superiori. Questo è il motivo per cui di Euripide si conservò un maggior numero di drammi, una ventina; le Fenicie, l'Oreste, la Medea, l'Andromaca, l'Elettra, l'Ippolito, l'Ifigenia in Aulide, l'Ifigenia in Tauride, l'Ercole furioso, le Troadi e l'Alceste.Di Euripide abbiamo pure un dramma satirico, Il Ciclope.
Euripide possedeva una grande abilità nell'esprimere le passioni amorose, specialmente quando dovevano spiegare una particolare tenerezza; al patetico seppe unire il sublime. Tuttavia fu continuamente censurato, ed anche esposto al ridicolo, a quel punto Euripide stabilì di abbandonare Atene ritirandosi alla corte Macedone, ove fu accolto con tutti gli onori. Lì finì i suoi giorni dopo aver vissuto 78 anni.
Si vuole che la sua morte sia avvenuta tragicamente, come le sue tragedie; inoltratosi in una valle solitaria una muta di cani lo assalirono e fu da questi sbranato.
Dei poeti tragici minori non è qui il caso di parlare, anche perchè sono di gran lunga inferiori ai tre sommi di cui abbiamo parlato sopra, e perché di loro non restano che scarsi frammenti. Per la "Commedia" viene ricordato EPICARMO di Coo (524-435) - massimo esponente della commedia dorica siciliana) , il quale venuto in Sicilia alla corte di Gelone, scrisse molte commedia in dialetto dorico. Venne poi SOFRONE siciliano a scrivere i mimi, commedie che rappresentavano con la maggior imitazione scene della vita siciliana, escludendo temi mitici, e contenente molti proverbi. E sotto tale aspetto Sofrone fu precursore di Teocrito, per i suoi idillii dialogici, che sono pure altrettanti bozzetti della vita particolare e popolare siciliana di quel tempo. Ci sono di lui rimasti un centinaio di frammenti. Un suo grande ammiratore era Platone.
Ma la "Commedia" giunse ad aver la perfezione presso gli Attici, dove ebbe una storia che si divide in tre stadi: attica antica, media, moderna. L'antica era personale e politica. Si mettevano sulla scena uomini di Stato col loro nome, con la loro figura, col loro vestito; insomma gli attori erano fotografie dei personaggi rappresentati.
La "Commedia" aveva, quanto alle sue parti, il prologo, come la tragedia di Eschilo e Sofocle, poi le altre parti dialogate. C'entrava anche il coro, che aveva una sua parte tutta speciale, che solo di rado mancava, detta parabasi. Essa consisteva in ciò che, quando l'azione era già avviata, in modo da destare interesse e curiosità, improvvisamente il corifeo o un attore speciale interrompeva l'azione, e passando dinanzi agli spettatori esprimeva le idee del poeta intorno l'argomento della commedia e lo scopo di essa, ecc. Quanto alla commedia attica di mezzo osserviamo che, mutati i tempi, non si permise più la satira personale politica, quale si manifestava soprattutto nel coro e nella parabasi, che esprimevano i pensieri del poeta; quindi si bandirono queste due parti. Con la commedia attica nuova il carattere personale scompare affatto : si satireggia il peccato e non il peccatore : invece di prender di mira i vizi gravi di un uomo solo, si satireggiano i piccoli vizi comuni a una intera classe. Si ebbe così la commedia di costume o di carattere, secondo il concetto moderno. Anch'essa come la media mancava di coro e di parabasi; del resto, a formarsi un concetto chiaro della sua natura, basta ricorrere all'imitazione che ne fecero i comici latini; giacchè della commedia di cui parliamo, come dell'attica media, non sono rimasti che scarsissimi frammenti.
Principale autore della commedia attica antica, per tacere di Eupili e Cratino, di cui poco sappiamo, fu il già citato Aristofane; di lui rimasero come detto sopra undici commedie, le sole commedie greche che giunsero fino a noi. Da esse noi ricaviamo il carattere della commedia attica antica. La sua vis comica, lasciata libera a sè stessa, è senza dubbio quanto di più vivace si possa immaginare : al suo confronto ogni altro autore può sembrare quasi privo di spirito. Certo è che con la sua libertà egli scrisse anche cose tanto licenziose da superare la licenza di qualunque romanzo verista. Per la commedia attica dell'età di mezzo non possiamo che ricordare i nomi di Antifone e Alessi, dei quali non restano che frammenti; della nuova menzioneremo sopra gli altri Menandro, fine e arguto (imitato da Plauto) e Filemone e Difilo, pur essi imitati dai commediografi romani. Il dialetto di tutte le commedie è attico puro.
L'ARTE FIGURATIVA
Contributi assai più notevoli arrecò l'arte figurativa. Atene rimase come lo era prima della guerra, la sua sede principale, benché peraltro lo Stato, a causa delle penose angustie finanziarie dalle quali non riuscì più a districarsi dopo la guerra del Peloponneso, non abbia potuto più esercitare a suo favore un'azione promotrice di qualche rilievo.
Anche Sparta e Tebe fecero ben poco per l'arte. In generale, coerentemente all'indirizzo di idee dell'epoca, la costruzione dei templi, nella quale l'arte del periodo precedente aveva prodotto le sue opere massime, cominciò ad essere ora meno curata; in sostanza tutto si limitò alla riedificazione di templi distrutti da incendi o da terremoti. Così tutta l'Ellade contribuì alla ricostruzione del santuario delfico, quando questo rimase abbattuto dal terremoto del 373. Il tempio di Atena Alea a Tegea fu ricostruito sontuosamente dopo l'incendio del 395 sotto la direzione di Scopa ; da allora esso fu tenuto come il più bel tempio del Peloponneso.
L'attività maggiore in questa materia fu spiegata nella Ionia, che era ritornata ora ad essere, come prima della fatale insurrezione dell'anno 500, la regione economicamente più fiorente del mondo greco. Il tempio di Apollo presso Mileto, che era rimasto un ammasso dì rovine dal tempo della sua distruzione ad opera dei Persiani, fu ricostruito in dimensioni colossali dagli architetti Peonio e Dafnide. Altrettanto si fece dopo l'incendio del 356 per l'Artemisio di Efeso, il santuario più venerato dell'Asia Minore; il nuovo edificio, eretto sotto la direzione di Democrate, fu ritenuto nei tempi posteriori come una delle sette meraviglie del mondo.
In compenso l'opera degli architetti dové cimentarsi in un altro campo. Lo sviluppo dell'arte drammatica fece si che ogni città greca volesse avere il suo teatro in pietra. Ebbe fama del più bello fra questi edifici il teatro costruito verso la metà del IV secolo da Policlito iuniore nei luoghi sacri ad Esculapio presso Epidauro ; esso in grazia della sua felice compagine è arrivato sino a noi quasi completo.
Ed alla fine anche Atene si decise a costruire il suo teatro, che sinora mancava di ordini di sedili in pietra e di un palco scenico fisso; l'opera fu iniziata dopo la guerra dei confederati e fu terminata a tempo di Alessandro. Anche lo stadio per le gare ginnastiche e per le corse dei carri fu eretto allora. Specialmente la monarchia pose all'architettura nuovi compiti, o a dir meglio richiese da essa la stessa opera che le aveva chiesta nell'età micenea. Famosi furono i palazzi che si fecero edificare re Archelao di Macedonia a Pella e Dionisio a Siracusa; anche ricchi privati cercarono di imitarne l'esempio.
Il portato più grandioso dell'architettura di quest'epoca fu però la tomba che Mausollo di Caria si fece erigere nella sua capitale Alicarnasso dagli architetti Piteo e Satiro; sopra una vasta base quadrilaterale vi si ergeva un tempio di stile ionico, coronato da una quadriga. In seguito esso, come l'Artemisio d'Efeso, fu tenuto come una delle meraviglie del mondo. Questa tomba è stata distrutta a tempo dell'invasione turca, ma ha legato in eterno il suo nome - mausoleo - a tutte le tombe dello stesso genere.
L'ingegno dei Greci, essenzialmente plastico, doveva necessariamente trovare la sua migliora forma esplicativa, la sua più energica affermazione nell'arte scultoria, che toccò infatti un grado di perfezione, mai più raggiunto da alcun altro popolo. Come i Greci vivevano interamente, si può dire, della vita pubblica, la scultura fu di questa il rispecchio più fedele e più vivo, e si volse di preferenza a ritrarre gli dei, che Omero aveva umanizzato, e gli uomini e gli avvenimenti eroici. Poichè l'ideale di ogni artista greco era l'armonia e la bellezza delle forme corporee, questa egli si curava di rendere costantemente con uniformità d'espressione plastica, e di chiudere in uno stesso armonico giro di linee. La scultura greca trasse all'inizio dalla religione le prime ispirazioni, con le varie immagini degli dei poste nei templi, i frontoni si popolavano di statue, le metrope si fregiarono di bassorilievi.
Ma nel periodo della gloriosa epoca di Pericle, si attenua il carattere religioso. È a tal riguardo significativo il fatto che ora non furono più erette se non per rara eccezione statue d'oro e di avorio (con eccezione della Dea Pallade Atena e lo Zeus di Fidia) che presentassero agli occhi dello spettatore l'immagine della divinità in tutta la sua grandezza sovrumana. Statue degli dei di bronzo e di marmo ne furono senza dubbio costruite ora come prima in gran quantità; ma quelli che gli artisti modellavano non erano più dei, sebbene uomini idealizzati e spesso le immagini cadono nel manierato. Dal punto di vista tecnico l'arte aveva indubbiamente fatto notevoli progressi; essa era ora capace di riprodurre l'espressione dei sentimenti dell'animo. Accanto a quest'arte si sviluppò pure il genere del ritratto, favorito dall'uso che sempre più invalse di erigere statue in onore non solo degli dei, ma bensì di uomini benemeriti. Anche grandi letterati vennero in quest'epoca onorati in tal modo; e così anche dopo, al tempo di Alessandro.
Questo periodo della gloriosa epoca periclea, che coincide con il secondo periodo della scuola attica, ha il suo più grande rappresentante in Fidia, che dà all'arte un mirabile impulso, un'espressione di verità e di vita, quale non si era mai vista prima di lui. Anche se è il più famoso scultore dell'antichità, della sua vita si hanno poche notizie. Nato intorno al 500 a.C. in Atene sappiamo che gli fu maestro il grande argico Agelada. Amico di Pericle, ebbe da lui l'incarico di abbellire il Partenone, ed ecco dal suo scalpello creatore sorgere, nel tempio sull'Acropoli, Pallade Atena. Poi al tempio di Olimpia il famoso Zeus. Molte sue opere non sono giunte fino a noi. I frammenti che ci restano dei bassorilievi del tempio di Teseo e delle sculture del Partenone, sono oggi al Museo Britannico di Londra, ma bastano a darci un'idea dell'arte insuperabile del maestro.
Mirabili le cariatidi dell'Eretteo. Scolpì anche molte Veneri. Per questi capolavori i Greci dissero Fidia divino; tuttavia ciò non impedì che l'ingratitudine popolare gli avvelenasse gli ultimi anni della vita (lo accusarono di essersi trattenuto l'oro e l'avorio delle statue)
Il carattere dello stile fiadiaco fu, secondo Plinio, la grandiosità e la magnificenza anche nelle cose piccole.
Prosecutore dell'arte fidiaca fu Alcamene, Callimaco e Policleto; ma forte fu l'influsso della grande genialità di Fidia nelle scuole che fiorirono in Atene e nelle Cicladi. La Venere di Milo esce appunto da una di queste scuole.
Fra i maestri plastici di questo periodo emerge SCOPA, originario dell'isola di Paro, l'isola dei marmi. Egli diresse la ricostruzione del tempio di Atena a Tegea e poi verso il 350 lavorò al Mausoleo di Alicarnasso. Di lui si ricordano anche altre opere in gran numero; particolarmente celebrati furono i suoi gruppi in marmo, dei quali ci può dare un'idea il gruppo delle Niobidi esistente a Firenze, malgrado resti incerto se l'originale da cui esso deriva sia dello stesso Scopa, oppure sia opera d'altri che imitarono la sua maniera.
Più famoso ancora fu l'ateniese PRASSITELE (verso il 350). La sua statua di Afrodite nel tempio di Cnido, con la quale egli osò per primo porgere senza velo agli occhi dello spettatore le bellezze della dea...
...ha esercitato sui contemporanei e sui posteri un fascino di illimitata ammirazione.
Anche un particolare della Venere di Cnidia (oggi in Vaticano) porge a noi oggi la possibilità di farci un'idea della perfezione della sua arte nel trattamento del marmo.
Accanto a questo originale stile di un maestro come Prassitele, i bassorilievi di stele sepolcrali attiche che ci sono pervenuti meritano invece posto modesto; sono lavori di artisti anonimi; in gran parte semplici operai dello scalpello, ma anche su di essi si diffonde il riflesso di una grazia e di una bellezza di forme che le epoche posteriori non hanno mai potuto eguagliare, e perciò sono proprio essi che dànno l'impressione più forte di quanto doveva essere alto il grado di capacità dell'arte attica di quel tempo.
Mentre gli artisti ateniesi lavorarono principalmente in marmo, nell'Argolide continuò a fiorire l'arte della fusione in bronzo, che aveva avuto là la sua patria fin dall'antichità. Il più grande maestro di questa tecnica fu ai tempi di ALESSANDRO LISIPPO di Sicione, uno degli artisti più fecondi dell'antichità, il figuratore della maschia bellezza, che nessun altro, anche in altri tempi, mai superò. Egli studiò di riprodurre al vero la realtà; a tale scopo creò un sistema proprio di proporzioni e col suo aiuto conferì alle sue figure uno slancio ed eleganza mai raggiunta da alcuno prima di lui. Egli infatti modellò a preferenza figure di atleti, e la copia in marmo di una di queste opere, il così detto Apossiomeno, esistente in Vaticano, è la più adatta a darci un'idea del carattere dell'arte sua. Anche il tipo ideale di Ercole è una creazione di Lisippo. Ma il genere nel quale produsse i suoi capolavori fu il ritratto; Alessandro non si volle far ritrattare che da lui, e Lisippo ha infatti modellato una lunga serie di statue del gran re. Dopo la vittoria al Granico gli fu commessa l'esecuzione del monumento ai caduti nella battaglia; esso era costituito da un gruppo di 25 cavalieri; è questo forse il più grande gruppo statuario eseguito sino allora.
Secondo Plinio, Lisippo scolpì più di 1500 statue, avendo come collaboratori i suoi figliuoli e alcuni discepoli.
Ma alla testa di tutte le arti in quest'epoca la pittura primeggiò in misura molto maggiore di quel che avesse fatto nel periodo precedente a datare da Polignoto; è a lui che Teofrasto dà il vanto d'inventore della pittura; lui ad usare nei suoi dipinti almeno tre colori fondamentali, il rosso, il giallo e il blu, a cui aggiunse un nero. Nel mescolarle seppe ottenere le tinte intermedie. Secondo Aristotele, Cicerone e Quintiliano, Polignoto si rese celebre principalmente per la bella forma delle sue figure, e perchè dava molto carattere alle stesse. Proprio Aristotele diceva "Passate dinanzi ai pittori che dipingono uomini come li vedono, e fermatevi davanti a Polignoto che li dipinge più belli".
Pausania dedica sette capitoli per narrare in successione i soggetti dipinti nella Laschè.
Tuttavia la scasezza di documenti rende la storia della pittura greca assai difficile, ed esercitò poca influenza sull'arte posteriore dell'Occidente (qualcosa poi a Roma, a Ercolano, in Licia) mentre si può dire che la scultura rimase, fino ai giorni nostri, il modello insuperato, e l'architettura greca successivamente non ebbe che una sola antagonista: la gotica.
La pittura sia per la natura stessa dell'arte pittorica, condannata a un rapido deperimento, sia perchè la tecnica così complessa, comprendente ad un tempo la prospettiva, la teoria dei colori e delle ombre, fosse ancora bambina, tuttavia si trovava ora nel pieno possesso della tecnica e quindi era meglio che la plastica in grado di riprodurre il vero e gli elementi psicologici. Se non che a suo riguardo, data la caducità delle opere di quest'arte, ci è negato quasi ogni possibilità di formarci un giudizio proprio; tuttavia le stele sepolcrali di recente scoperte a Pagase ci fanno per lo meno conoscere la tecnica della pittura di quest'epoca, per quanto questi lavori di dozzina restino certamente indietro di molto alle opere dei maestri dell'arte. A capo del movimento pittorico rimasere per qualche tempo gli Joni, che sfoggiarono figure variamente colorate, e il loro talento di narratori.
Anche a Calcide nell'Ubea l'arte della pittura era notevole, e narrava gesta di eroi.
A qual grado salisse l'arte della pittura, la si vede nei cosiddetti vasi a figure nere, che ci offrono una singolare varietà. Composizioni mitologiche e scene d'ambiente sono le rappresentazioni preferite.
Come uno dei più grandi pittori ci è segnalato ARISTIDE di Tebe, il cui fiorire coincide con l'ascensione politica della sua città in seguito alla liberazione dalla signoria di Sparta; egli è citato come il primo che avrebbe saputo conferire ai tratti del viso una espressione vivente.
Non meno grande di lui fu EUFRANORE di Corinto, che, lavorò soprattutto ad Atene, dove dipinse una serie di affreschi famosi; anche come scultore egli produsse molte buone opere. Il suo discepolo, l'ateniese NICIA, lo superò forse come pittore; egli seppe ottenere grandi risultati mediante effetti di luce, e specialmente le sue figure di donne erano in sommo grado celebrate. Anche a Sicione la pittura fu coltivata con entusiasmo; qui esisteva una specie di Accademia, che sotto la direzione di PANFILO salì a tale fama che da ogni luogo vi affluirono scolari. In essa si dava particolare importanza alla correttezza del disegno, ma non perciò si trascurava la tecnica del colorito. Qui fu perfezionata infatti la « pittura encaustica », nella quale si adoperavano colori a cera e si mescolavano fra loro mediante assicelle di metallo arroventate, ottenendo così colori di uno splendore che non fu poi raggiunto nuovamente che dalla pittura ad olio. Il discepolo di Panfilo, PAUSIA, produsse in questa tecnica opere di gran valore; erano specialmente famosi i suoi fiori.
Anche APELLE di Colofone ebbe la sua educazione artistica, o per lo meno la completò a Sicione alla scuola di Panfilo. Di qui egli venne chiamato a Pella dal re Filipppo e in seguito, dopo la liberazione della Jonia ad opera di Alessandro, ritornò nella sua patria. L'opera sua più più famosa fu l'Afrodite emergente dalle onde, da lui dipinta per il tempio di Esculapio a Cos, e che fece degno ed ammirato riscontro all'Afrodite di Prassitele. Nè meno grande egli fu come ritrattista cortigiano, e si narra che Alessandro gli cedette la sua più bella schiava Campaspe, la quale gli servì di modello per la celebre Venere Anadiomene. Assai pregiati furono i ritratti del suo munifico Alessandro il Grande. Con Apelle la pittura greca raggiunse l'apogeo della perfezione.
Sempre a Sicione dalla omonima scuola pittorica, abili caposcuola come Eupompo e Melanzio diedero grande importanza alla pittura idealista e all'insegnamento dell'arte, fondando una specie di accademia, visitata anche dagli stranieri.
E sempre la "Scuola Attica" (così chiamata benchè i suoi principali rappresentanti non vivessero ad Atene) diede splendidi frutti spingendosi oltre le tendenze psicologiche di Parrasio, compiacendosi di soggetti malinconici. Il già citato Eufranore e Nicia erano di questa scuola.
LA MUSICA
dei Dori (1000 a.C.); il secondo va fino alla guerra del Peloponneso e il terzo quello della decadenza fino alla conquista romana.
Tralasciamo l'epoca mitica. All'inizio del VI secolo, in Grecia, Olimpo il Giovane era celebrato quale inventore del genere enarmonico, e Terpandro (nativo di Lesbo e che visse a Sparta) il vero padre della teoria musicale, Egli infatti compose delle melodie (nomi) che durarono per tradizione lungo tempo e alle quali fu ascritta, a somiglianza delle melodie indiane, grande influenza sulla morale e sul costume. A lui si tributava pure l'onore di essersi servito di una notazione musicale e di aver aggiunto altre tre corde all'antica lira di quattro corde. Subito dopo, importanti per lo sviluppo della musica e specialmente per la teoria fu Pitagora, il celebre filosofo e matematico di Samo (580-504 a.C.) il quale nei suoi lunghi viaggi in Egitto e in Asia ebbe occasione di studiare la musica di quei paesi e di conoscerne i sistemi, che egli introdusse con alcune modificazioni nella sua patria: fu il primo che trovò i rapporti numerici fra i toni, servendosi del monocordo (cassetta risonante, sulla quale era tesa una corda, a cui si potevano applicare ponticelli mobili alteranti il tono della corda medesima).
Ai tempi di Pisistrato e ancor di più di Pericle il sorgere e lo svilupparsi della tragedia nazionale rappresentano l'epoca del maggior fiorire della musica greca.
L'importanza dei cori è massima in Eschilo, minore in Sofocle e in Euripide. Che i cori venissero cantati è ormai cosa certa, e sembra pure sicuro che la musica fosse scritta dai poeti tragici o almeno da loro designata, togliendola da canzoni popolari note, che si adattavano alla situazione e ai sentimenti espressi nelle loro tragedie. I cori consistevano in tre parti: strofa, antistrofa, ed epodo; le prime due erano cantate dai cori separati che si univano nell'epodo.
Benchè la musica greca non conoscesse la melodia nel senso moderno della parola non è ammissibile che la musica dei cori fosse semplicemente una recitazione cadenzata, ma deve essersi avvicinata per il carattere della sua poesia esprimenti considerazioni generali e sentimenti astratti, al genere melodico lirico; sembra poi che tanto i cori quanto la parte recitata fossero accompagnati da strumenti, probabilmente flauti e cetre. Alcune opere artistiche ce ne danno ampia testimonianza, come la bellissima suonatrice di flauto oggi al Museo Nazionale di Roma....
... o nelle decorazioni del vaso di Duride, oggi al Museo Reale di Berlino.
In entrambe le due opere i musicanti hanno in mano flauti e cetre.
Con la decadenza delle repubbliche greche cominciò pure l'epoca di decadenza della musica. La voce dei saggi che piangevano i tempi passati, era soffocata dalla folla che donava corone d'alloro al citaredo Frimi, al cantante Mosco, all'etera Taide, e innalzava un tempio alla flautista Lamia.
Poi sotto i Macedoni l'arte musicale perde ogni importanza fra gli uomini di cultura, e diventa un semplice sollazzo della plebe nei vari festeggiamenti e nelle chiassose baldorie.
Restano solo qualche appassionato dotto che seguita a meditare sulle questioni teoriche musicali, e rivive il passato, come Aristosseno (detto l'Armonico 350 a.C.) che scrive e ci lascia tre libri di Elementi di armonia, in cui, a differenza delle teorie pitagoriche, viene istituito a giudice supremo l'udito e non le leggi matematiche; come più tardi (200 a.C.) Alipio, un frammento del quale sembra contenere un sistema di notazione musicale con lettere; come più tardi fece Plutarco (49 d.C.).
Alla Grecia era pure riservata la gloria di essere la prima a occuparsi di estetica musicale e a studiare la sua influenza sull'animo, sull'educazione e sullo sviluppo del carattere. Platone ascrisse alla musica una potenza morale: essa deve influire sul carattere, informarlo al bene e ispirare odio e ribrezzo per il male. Aristotele, d'accordo in genere con tali massime, riconobbe altresì nella musica lo scopo di dilettare (negato però da Platone) e, dilettando, di nobilitare l'animo.
Il sistema musicale greco si fonda sul tetracordo, serie di quattro toni corripondenti a quella della lira. Esso consiste in due toni e un semitono. La scala greca è composta di due tetracordi o congiunti da un tono comune o con un intervallo di un tono intero fra l'uno e l'altro.
I Greci avevano sette gamme, o toni, da essi chiamate modi; questi comprendevano due tetracordi separati, ossia otto note, o una estensione d'ottava, e servivano a determinare se non la tonalità nel senso che noi attribuiamo oggi a questa parola, almeno il punto di partenza di ciascun tono o frammento della scala. I sette modi erano i seguenti:
Il metodo di notazione era formato col mezzo di lettere dell'alfabeto distese, capovolte, modificate in vari modi e variava secondo le voci e gli strumenti. L'esecuzione comprendeva la musica vocale accompagnata da strumenti a corda pizzicati (i Greci non conoscevano l'archetto) o da strumenti a fiato. L'antica questione se i Greci abbiano conosciuto l'armonia nel senso moderno della parola sembra essere decisa negativamente.
Questa opinione ormai universalmente accettata, ebbe la miglior conferma nella scoperta (1893) dell' Inno ad Apollo, trovato a Delfo, probabilmente del II secolo a.C.: esso è inciso su una pietra e contiene oltre al testo anche i segni musicali sopra ogni sillaba, corrispondenti a quelli che abbiamo di Aristosseno. Il suo valore è inestimabile, perchè è l'unico monumento genuino d'importanza, che ci resta della musica greca. Gli altri frammenti conservatici sono i tre inni di Mesomede, pubblicati per la prima volta da Vincenzo Galilei nel Dialogo della musica antica (1581), un frammento dell'Oreste di Euripede, uno scolio scoperto sopra un epitaffio a Tralles e pubblicato nel 1891 da O. Crusius, e altri frammenti quasi indecifrabili scoperti nel 1893 a Delfo insieme con l'inno ad Apollo.
Le speranze che si nutrivano, d'aver trovata la chiave della musica greca, furono quasi interamente deluse e bisogna concludere che o noi non siamo capaci di decifrare quei frammenti o il nostro modo di sentire la musica è affatto differente da quello dei greci.
Quanto agli strumenti suonati dai Greci, aggiungeremo che oltre agli strumenti a corda (a pizzico) e a fiato (flauti, clarinetti, trombette, corni) essi ebbero più tardi anche strumenti simili ad organi. Tuttavia gli strumenti più prediletti dai Greci furono però quelli a corda (lira e cetra). Meno amati, e importati dall'Asia Minore, quelli a fiato.
A CURA DI DANILO PICCHIOTTI
Bibliogrfia e testi
Varie citazioni di Pausania, Cicerone, Strabone, Quintiliano, Plutarco, Plinio
SENOFONTE, Anabasi
WILLIAM ROBERTSON - ISTORIA DELL'ANTICA GRECIA
PFLUGK-HARTTUNG - STORIA UNIVERSALE, LO SVILUPPO DELL'UMANITA' , Vol. 1/6 - Sei
STORIA UNIVERSALE DELLE CIVILTA' - SONZOGNO
STORIA ANTICA CAMBRIDGE- VOL V- GARZANTI
STORIA UNIVERSALE , CURCIO, VOL.2/20