mercoledì 6 maggio 2009

Trasformazione emozionale e trascendenza

A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nella cultura psicologica si parla di espressione delle emozioni oppure della loro manifestazione, comunque la direzione è verso il disfarsene. L’idea del conoscere semplicemente l’emozione avviene piuttosto raramente. Senza agire le emozioni, ma neanche reprimendole, abbiamo l’occasione di conoscere le identificazioni che ne sono alla base.

Ricordo che non molti anni fa stavo seduto nell’ufficio del mio terapista e gli raccontavo la discussione avuta con una persona a me cara. Oggi i particolari mi sfuggono, ma avevo fatto qualcosa che aveva addolorato la mia amica, la quale si era arrabbiata in un modo che mi sembrava sproporzionato e ingiustificato. Ricordo che mentre raccontavo i fatti, mi sentivo frustrato e turbato.

“Tutto quello che posso fare è amarla di più in quei momenti”, insistevo con una certa mestezza, facendo ricorso agli anni di pratica meditativa e alla sincerità dei miei sentimenti più profondi.

“Questo non funzionerà mai”, tagliò corto il terapista, e fu come venire colpiti dal bastone di un maestro zen. Mi guardò con una certa aria canzonatoria, quasi fosse meravigliato dalla mia stupidità. “Cosa c’è di sbagliato nell’essere arrabbiati?”, chiese.

Questo scambio di battute mi è rimasto impresso per anni, perché, in un certo senso, cristallizza le difficoltà che ci troviamo di fronte quando cerchiamo di integrare l’approccio psicologico occidentale con quello del buddismo. Il buddismo ci dà un messaggio ambivalente sulle emozioni: da un lato dice che dobbiamo sforzarci di eliminarle, dall’altro insegna ad accettare tutto ciò che sorge. C’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati? Possiamo liberarci di questo sentimento? Cosa vuol dire venirne a capo? Nel mio lavoro di terapista, devo affrontare in continuazione queste domande.

Oggi mi è chiaro che venire a capo di un’emozione come la rabbia, spesso, vuol dire qualcosa di diverso dalla sua mera eliminazione. Infatti, come nel buddismo si ripete più volte, è la prospettiva di colui che soffre a determinare se una data esperienza perpetua la sofferenza o è un veicolo per il risveglio. Venire a capo di qualcosa vuol dire cambiare il proprio punto di vista; se invece cerchiamo di cambiare l’emozione, nel breve termine potremmo avere successo, ma resteremmo prigionieri dell’attaccamento e dell’avversione per il sentimento stesso da cui vogliamo liberarci.

Naturalmente, il desiderio di cambiare i miei sentimenti difficili con il loro opposto non era un’idea originale. Nel mio caso, ciò veniva dalla psicologia buddista dell’abhidharma, i primi scritti psicologici del buddismo. La maggior parte di noi vuole essere libera dalla pressione delle emozioni, cerca di eliminare i limiti della nostra vita emozionale e di sostituire i sentimenti problematici con i loro opposti meno conflittuali. Nella sfera delle emozioni esiste una tendenza universale allo svilimento, sembra. Diamo per scontato che l’unico modo per liberarci dal dolore è sbarazzarci completamente di esso.

Questo intenso desiderio di quiescenza emotiva ha avuto una grossa influenza sul modo in cui pratichiamo il buddismo. Gli insegnamenti stessi sembrano talvolta suggerire che questo è il modello che dobbiamo cercare di raggiungere. Certe emozioni sono nocive, insegna l’abhidharma. Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per ridurre la loro influenza sulla nostra mente. Di conseguenza, quando leggiamo le storie di insegnanti buddisti che esprimono liberamente la loro rabbia o tristezza, restiamo confusi. Queste storie contraddicono gli insegnamenti più formali del buddismo e ci costringono a rivedere i nostri pregiudizi secondo cui le emozioni sono sbagliate.

La nostra propensione a credere in un modello nel quale non ci sia posto per le emozioni deriva, in parte, dalla volontà inconscia di separare le emozioni dal resto della nostra esperienza, e di fare di esse le colpevoli della nostra situazione difficile. Se solo riuscissimo a sradicare e distruggere la nostra natura emotiva, pensiamo, potremmo seguire le orme del Buddha.

Tale desiderio di distruggere le emozioni negative è molto comune anche tra coloro che praticano la psicoterapia. Così come molti meditatori pensano che la giusta meditazione consista nell’avere sentimenti meno intensi, molte persone in psicoterapia demonizzano quelle stesse emozioni indesiderate che le spingono a cercare aiuto. Dopo la rottura di un matrimonio che durava da dieci anni, per esempio, un mio buon amico ha cominciato la psicoterapia in una clinica di salute mentale. Il suo unico desiderio, disse alla nuova terapista, era liberarsi da ciò che stava provando. La implorò dunque di levargli il dolore, liberandolo da queste emozioni sgradite.

Ma la sua terapista aveva appena lasciato una comunità zen, dove aveva vissuto per tre anni. Quando il mio amico si rivolse a lei, ella lo spinse a restare semplicemente con i suoi sentimenti, per quanto fossero spiacevoli. Non cercò di rassicurarlo né di aiutarlo a cambiare ciò che stava provando. Quando lui si lamentava della sua ansia o della sua solitudine, lei lo incoraggiava a sentire tutto ciò con più intensità. Anche se non si sentiva affatto meglio, il mio amico fu incuriosito dall’approccio di questa terapista e cominciò a praticare la meditazione. Un momento fondamentale della sua meditazione fu, secondo lui, quando la depressione cominciò a schiarirsi.

Terribilmente a disagio con i pruriti, le irrequietezze e i dolori della pratica, e incapace di restare semplicemente con le sensazioni, egli ricorda che alla fine riuscì a osservare l’insorgere, l’aumentare e lo scomparire di un prurito, senza mai grattarsi. In tal modo, egli dice, comprese improvvisamente quello che intendeva la terapista quando gli consigliava di restare con il suo stato emotivo, e da quell’istante la sua depressione cominciò a sparire. I suoi sentimenti cominciarono a cambiare solo quando smise di desiderare un cambiamento.

Esistono scuole di pensiero – sia all’interno del buddismo che della psicoanalisi – che non ammettono tanto facilmente la possibilità di una trasformazione emotiva come quella sperimentata dal mio amico. Sia gli psicoanalisti ortodossi che i fondamentalisti buddisti vedono le emozioni come forze coercitive che sono, per loro natura, minacciose, destabilizzanti e potenzialmente schiaccianti. Il massimo che si può fare con queste passioni è, secondo tale concezione, controllarle, padroneggiarle o – almeno secondo la filosofia buddista – estinguerle. Il denominatore comune è che le passioni sono considerate forze oscure, dotate di una loro volontà, che vanno severamente controllate. Secondo questa concezione, una persona che ha terminato con successo l’analisi è quella che ha portato alla scoperto tutte le proprie emozioni primitive, facendo sì che esse non impediscano più il raggiungimento delle soddisfazioni di una persona matura.

Un praticante buddista di successo, dal canto suo, viene immaginato come qualcuno le cui emozioni non disturbano più una grande equanimità. Ecco perché siamo così perplessi quando leggiamo di Marpa che piange la morte del figlio. Perché egli non ha trasceso la sua emozione?

Tuttavia, all’interno sia del buddismo sia della psicoanalisi, esiste un altro punto di vista sulle emozioni, secondo il quale è possibile non tanto la trascendenza, quanto la trasformazione. In tale concezione le emozioni non sono considerate necessariamente un nemico, ma un cugino da lungo tempo perduto. Lasciandole entrare nella consapevolezza, le emozioni non sono più percepite come forze aliene, bensì come una parte inseparabile di un tutto più grande. In tal modo, alle emozioni viene permesso di maturare spontaneamente, un processo di cui il mio amico ha colto un bagliore nella sua meditazione.

Freud ha descritto questo processo parlando della “sublimazione”, che egli ha definito come il mezzo attraverso cui “l’energia dei desideri impulsivi infantili non viene eliminata, ma resta disponibile all’uso; lo scopo inutilizzabile dei vari impulsi viene sostituito da uno più elevato, e forse non più di natura sessuale”. La sublimazione, per Freud, offriva la possibilità di fare a meno delle richieste impossibili degli “infiniti desideri impulsivi”, ma non significava che le passioni in sé erano pericolose. Ascoltate, per esempio, la descrizione che Freud fa di Leonardo da Vinci: “I suoi affetti erano controllati…; egli non amava né odiava, ma si interrogava sull’origine e il significato dell’amore e dell’odio. Così, era inevitabile che all’inizio apparisse indifferente al bene e al male, alla bellezza e alla bruttezza…

In realtà, Leonardo non era privo di passione… Semplicemente, aveva trasformato la sua passione in una sete di conoscenza… Quando, all’apice di una scoperta, riusciva a vedere il nesso di ciò che stava cercando, era sopraffatto dall’emozione, e con parole estatiche celebrava lo splendore di quella parte della creazione che aveva studiato, o – per usare una fraseologia religiosa – la grandezza del Creatore”.

Tutte le qualità solitamente attribuite al Buddha sono presenti nella descrizione freudiana di Leonardo da Vinci: il controllo degli affetti, la trasformazione dell’amore e dell’odio in interesse intellettuale, il primato dell’indagine, persino il climax dell’ode alla grandezza del Creatore. L’esclamazione del Buddha nell’istante della sua illuminazione rende più forti queste somiglianze: Estratto da un bellissimo articolodi Mark Epstein | Permalink |

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