martedì 10 novembre 2009

Una risposta nella mostra sui cento capolavori dell'Ermitage.





Chiedere a un matematico di commentare dei quadri è come chiedere a un pittore di dipingere dei numeri: un evento a prima vista piuttosto improbabile, che a uno sguardo approfondito risulta però possibile. Anzi, tanto possibile da essersi già verificato più volte. Basta ricordare l'esoterica Malinconia di Albrecht Dürer (1514), in cui di numeri ne compaiono addirittura sedici, disposti in forma di quadrato magico: un'opera sulla quale il professor Nanni Moretti espresse tutta la sua sorpresa in un'imbarazzante lezione del film Bianca (1976).
Altri esempi sono i telescopici Numeri innamorati di Giacomo Balla (1925), in cui vengono raffigurati i primi termini della misteriosa successione di Fibonacci che descrive le simmetrie della natura, e il Cinque dorato di Charles Demuth (1949), che rappresenta appunto ciò che dichiara: un enorme e luccicante cinque. Quest'ultimo fu tanto influente da essere stato ripetutamente citato e ripreso, per esempio nel Cinque di Demuth di Robert Indiana (1963): un artista che deve la sua fama al celeberrimo Love (1967), di cui si appropriarono i Beatles per la copertina di un loro disco. Per quanto riguarda noi e oggi, basta citare Ugo Nespolo, che ha fatto dei numeri il soggetto preferito della propria ispirazione e dei propri acrilici su legno. Se i pittori si permettono di dipingere numeri, i matematici potranno dunque ben azzardarsi a commentare quadri.
Avviamoci quindi a curiosare insieme nella mostra dei cento capolavori dell'Ermitage, alla ricerca di elementi di riflessione scientifica più che artistica. Il gioco è difficile, perché i quadri in esibizione alle Scuderie Papali del Quirinale appartengono a un periodo e a pittori non particolarmente sensibili al razionalismo matematizzante che ci interessa in questa sede. Poiché però i giochi facili divertono poco, di questo saremo più felici che preoccupati.
Quasi all'inizio della mostra, il primo dipinto ad attirare la nostra attenzione è il numero 23: La Chiesa di Santa Maria degli Angeli di Henry Edmond Cross (1909), un tipico esempio di "puntillismo". Questa tecnica, scoperta o inventata da Georges Seurat nel corso dei suoi studi sui colori e da lui chiamata "divisionismo", rappresentò una vera e propria rivoluzione euclidea nell'arte: il riconoscimento, cioè, che come lo spazio geometrico è costituito di punti immateriali e senza dimensione, così lo spazio pittorico si compone di punti colorati ai quali è possibile ridurre ogni figura.
Oggi siamo tutti puntillisti senza neppure accorgercene, perché sappiamo benissimo che le immagini degli schermi televisivi o informatici sono appunto composte di cosiddetti pixel colorati: più grande è il numero dei pixel usati, maggiore è la risoluzione dello schermo e delle relative immagini. I puntillisti non erano invece interessati alla risoluzione, ma al suo esatto contrario: il loro obiettivo non era nascondere la natura atomica dello spazio visivo, ma esibirla.
Proprio negli stessi anni in cui gli artisti decostruivano le immagini pittoriche in punti colorati, i matematici e i fisici decostruivano le curve geometriche in funzioni sinusoidali e gli atomi materiali in particelle elementari. In tutti i casi si trattò di una medesima riduzione della realtà a fenomeni ondulatori (ottici, trigonometrici o quantistici) rimasti fino ad allora nascosti: come disse Einstein, si era finalmente "sollevato un lembo del grande velo" che cela la dinamica essenza del divenire dietro la statica apparenza dell'essere.
La parte centrale della mostra riguarda artisti, da Gauguin a Matisse, alla cui opera poco si addice un'analisi matematica.
La cosa cambia invece quando ci imbattiamo, verso la fine, in una serie di quadri cubisti di Pablo Picasso (1907-1917).
Se il puntillismo atomizzava le figure in singoli punti, il cubismo decompone i contorni in tratti rettilinei e gli interni in tasselli triangolari, che nella geometria euclidea sono rispettivamente determinati da coppie o terne di punti.
Si tratta di un duplice processo di approssimazione, di curve mediante segmenti e di superfici mediante triangoli, che ammette illustri precursori matematici. Già i Greci sapevano infatti che un cerchio si può approssimare a piacere con poligoni regolari, e ne La dotta ignoranza (1440) il cardinal Cusano arrivò all'ardita concezione del cerchio come poligono a infiniti lati di lunghezza infinitesima.
Quanto alla possibilità di approssimare superfici curve mediante poligoni, l'architettura moderna ci ha assuefatti all'idea mediante le famose cupole geodesiche di Buckminster Fuller, e il pallone da calcio ci ricorda che una sfera non è troppo diversa da una combinazione di dodici pentagoni e venti esagoni. I due esempi convergono nel cosiddetto buckminsterfullerene, un composto superstabile le cui molecole sono appunto costituite da sessanta atomi di carbonio disposti nei vertici dei poligoni che formano il pallone da calcio.
Per tornare all'arte, puntillismo e cubismo effettuarono una rivoluzione linguistica della pittura, ma non ne mutarono il soggetto: i dipinti di Cross e di Picasso in esibizione rappresentano ancora i soliti paesaggi e personaggi, sia pure raffigurati con una tecnica diversa. E questo destino accomuna non solo l'arte, ma anche la letteratura, la filosofia, la scienza e la matematica. Anzi, è proprio perché ogni epoca narra spesso le stesse storie, sia pure raccontandole con un suo linguaggio diverso, che noi possiamo continuare a godere anche oggi delle opere del passato.
A ricordarci che a volte però le cose cambiano non solo nella forma ma anche nella sostanza, è il dipinto numero 99 al termine della mostra: il Violino e chitarra di Ferdinand Léger (1924). Nonostante il titolo, di violini e chitarra qui non c'è l'ombra. O meglio, rimane soltanto una letterale ombra, cioè un'astrazione: sulla tela non si vedono infatti altro che figure geometriche, ossia le forme astratte degli oggetti concreti.
Il quadro di Léger non è certo rappresentativo né dell'artista, né della mostra, e all'interno della collezione dei capolavori dell'Ermitage è forse uno dei meno interessanti.
Svolge però il ruolo essenziale di puntatore verso l'esterno, verso quella forma intellettuale e sofisticata dell'arte moderna che è l'astrattismo di gruppi quali il Bauhaus o il De Stijl, e di artisti quali Mondrian o Kandinskij.
Siamo qui finalmente approdati a ciò che i Greci chiamavano "idee", e che noi faremmo meglio a tradurre con "forme". La teoria platonica delle idee, sfrondata della metafisica di cui si è ammantata nei secoli, si riduce infatti alla constatazione che la vera essenza di questo imperfetto mondo è la perfetta geometria. E l'arte moderna, nel suo percorso alla ricerca della forma pura ed essenziale, non poteva che approdare alla stessa conclusione e diventare matematica. Scopriamo dunque che le attività del matematico e dell'artista non sono poi così diverse, perché comuni sono gli oggetti delle loro ricerche, e le forme delle loro rappresentazioni: la prossima volta si potrà allora chiedere a un artista di commentare delle formule.


SCI - L'uso degli sci sembra sia stato il più antico mezzo di locomozione inventato dall'uomo,




> SCI - L'uso degli sci sembra sia stato il più antico mezzo di locomozione inventato dall'uomo, prima ancora della ruota. Un'incisione rupestre all'isola di Rodoy in Norvegia databile nel 3000 a.C. raffigura uomini che hanno ai piedi degli sci. A confermare questa scoperta, in una torbiera di Hoting in Svezia, ne sono stati rinvenuti un paio in ottime condizioni di conservazione databili 2500 a.C.Ma sembra che l'invenzione dello sci e insieme della slitta, affonda nella preistoria e che perfino la prima e originaria colonizzazione dell'America sia avvenuta proprio con gli sci ai piedi. Alcuni grandi esploratori e storici (Luther, Nansen) studiando le origini degli sci, fanno risalire questa invenzione nella zona della Siberia e della Mongolia. Precisamente nella zona degli Altai. Fu qui che si formarono - prima della fine dell'ultima era glaciale - due correnti migratorie: una verso la Manciuria e proseguendo attraverso lo stretto di Bering ghiacciato entrarono nell'Alaska poi in Canadà colonizzando il continente; mentre l'altra dirigendosi a ovest attraverso la Siberia sarebbe pervenuta nei paesi scandinavi sul Baltico. (Non dimentichiamo che si possono percorrere con gli sci ai piedi dai 300 ai 400 chilometri al giorno. Il record é del finlandese Rantenen con 401,28 km. Quello femminile detenuto da Kainulaisen é invece di 330 chilometri. Poi non dimentichiamo l'impresa dello stesso Nansen (direttore del museo di Bergen) che nel 1888 in 39 giorni raggiunse la Groenlandia, la attraversò interamente e raggiunse la baia di Baffin (America). La teoria di Luther e di Nansen è avvalorata dal rinvenimento di questi attrezzi (sci e racchette) nelle tribù athabasca del Canadà che hanno una straordinaria somiglianza a quelle in uso nelle popolazioni arcaiche in Islanda, in Finlandia, in Lapponia ed infine dopo aver fatto mezzo giro del mondo rinvenute proprio nel nord-est asiatico in Manciuria e nella punta estrema della Siberia.Una saga norvegese narra che il paese venne occupato circa 8000 anni fa da un popolo di sciatori venuti dal nord-est. Mentre una cronaca della Cina Manciù, nella regione di Mukden (nello Shen-Yang)  narra l'incontro di un gruppo di cacciatori con delle assicelle di legno con la punta ricurva fissate ai piedi con dei lacciuoli, che scivolavano velocissimi sulla neve aiutandosi con due bastoncini. Luther ha pure scoperto nell'arcaico alfabeto cinese un ideogramma che significa e indica un preciso attrezzo: la "tavoletta per scivolare". Veri specialisti degli sci (dato l'ambiente) furono però i Lapponi; circa 2000 anni fa calzavano uno sci lungo e sottile, quasi come quello attuale nel piede destro, mentre nel sinistro ne calzavano un altro più corto con sotto una pelle di foca, usato per appoggiarsi e darsi la spinta.  Questo particolare mezzo di locomozione era ancora in uso in Lapponia fino all'inizio del nostro secolo. Una cronaca Norvegese ancora del 1200 narra che in una famosa battaglia (quella di Isen) i soldati calzarono gli sci. Ma é tre secoli dopo che in Svezia inizia la vera leggenda dello sci. Re Gustavo I di Vasa, convinto di aver perso la guerra contro i Danesi fuggì verso la Norvegia, mentre i suoi sudditi ritornati alla riscossa avevano ripreso in mano la situazione nel paese. Due di loro per dargli la bella notizia e farlo tornare indietro, per raggiungerlo percorsero senza mai fermarsi 89 chilometri. (In memoria della leggendaria "galoppata" nel 1923 é stata istituita la famosa Vasa-loppet).Il primo manuale-trattato di sci che si conosca (come si fabbricano e come si usano; insegnandolo perfino con delle illustrazioni) è quello di un vescovo svedese Olaus Magnus, che però rientrando in Italia dai Paesi nordici pubblica il volume a Roma nel 1555. Quel trattato rimase nell'Urbe una bizzarria e nulla più.Una prima mostra di sci lapponi si svolse in una Fiera Commerciale nel 1636 a Worms, ma anche qui molti dei visitatori presero quelle assicelle come una stramberia degli uomini delle nevi, attrezzi adatti ai primitivi del nord. Nelle valli alpine italiane gli sci invece arrivarono con moltissimo ritardo, ma non in una zona molto limitata della Carnia per una singolare circostanza: nella Guerra dei trentanni partecipò un gruppo di soldati scandinavi, che alla pace di Westfalia del 1648 rimasero in Carnia (Cortina e dintorni) trapiantandovi così questo costume che non fece molta presa sui nativi, anche perchè grandi distese di terreno piano innevato come nei paesi nordici non ce ne sono, ci sono valli e montagne; i valligiani indigeni alla prima discesa ruzzolavano, e sappiamo tutti, quanto bisogna insistere senza scoraggiarsi per stare in piedi con gli sci. I montanari rinunciarono subito a imparare pensando che quelli erano "diavoli", già nati con gli sci ai piedi, quindi inutile insistere a volerli imitare. Anche se col tempo i "Cortinesi" diventarono poi dei grandi campioni. Il resto d'Italia dovrà aspettare più di due secoli, e per merito di un altro "diavolo", "el diau". L'ing. Adolf Kind (Coira 1848 - Bernina 1907) Svizzero, di antica origine Walser, arrivò a Torino nel 1890. Vi aprì una fabbrica di lucignoli incurante della diffusione delle lampadine alimentate dalle centrali idroelettriche che Giovanni Giolitti disseminava in tutto il Piemonte.Ma Adolf Kind ci interessa per la sua intraprendenza, non tanto industriale quanto sportiva. Di ritorno da uno dei suoi viaggi, un giorno del 1897, portò infatti con sé dalla Svizzera (qui esistevano  artigiani che già firmavano i propri sci) ) un paio di ski di frassino marca JAKOBER , il cui uso Kind illustrò nel salotto di casa agli sbigottiti amici, poi cominciò a portarli a Bardonecchia, e lui che era già partico esibendosi con grande abilità nei pendii insegnò loro i primi rudimenti. Facciamo notare che aveva già 50 anni! Si dice che i montanari che per primi videro quell'uomo scendere leggero dai pendii, skivolando sulla neve, rosso in viso e con una fluente barba bianca, scapparono gridando spaventati: "el diau, el diau". Un buon diavolo però, la cui passione per la montagna fece nascere in breve tempo vari Ski Club in Italia



Nell’Europa del secondo dopoguerra, crollata la tirannia nazifascista, l’unico principio è: rinascere. La ricostruzione ed il rilancio economico del vecchio Continente, raso al suolo dai bombardamenti, sono sostenuti dalla cultura, dall’arte, dalla moda, dal design, dalla tecnologia e dalla scienza; questi e altri fattori contribuiscono a formare la nuova mentalità dell’uomo europeo, dei sopravvissuti ancora in crisi di coscienza per il trauma subito. Dopo l’espressionismo astratto americano, l’informale europeo è il nuovo linguaggio artistico in opposizione al realismo più o meno “socialista”. L’informale, nel periodo della ricostruzione, riflette un momento di transizione e di profonda crisi e critica alla civiltà contemporanea, rispondendo anche alle necessità evolutive di una pittura figurativa che ormai ha fatto il suo tempo, puntando sul gesto pittorico, sullo spazio e sui materiali industriali. Nel 1947 dall’America, con gli aiuti finanziari del piano Marshall, arriva il “dripping”(il termine significa “gocciolare” o “sgocciolare”): una tecnica rivoluzionaria caratterizzata dal gesto di lasciare cadere il colore acrilico sulla tela (“action painting”) elaborata da Jackson Pollock (1912-1956), anche se già anticipata dal surrealista Max Ernst e Hans Hoffmann. E’ evidente che la scrittura automatica dei surrealisti, il dripping americano e la pittura informale europea, nomadica e soggettivista, sono accomunati dalla dissoluzione della figura e dalla tensione d’infrangere gli schemi figurativi, geometrici, prospettici delle composizioni tradizionali, enfatizzando l’esplosione segnica, all’insegna di un neo-espressionismo materico-cromatico o spazialista, originale anche per stridenti contrasti cromatici e per le stratificazioni di colore, dagli esiti suggestivi per gli effetti tattili autoreferenziali. Dal 1951, Michel Tapié definisce informale (dal francese “informel”) questo nuovo linguaggio non figurativo, liberatorio, spontaneo e casuale che sviluppa tracce, segni ed esplosioni di colore come espressioni di stadi emotivi, di pulsioni secondo la soggettività dell’autore. La pittura informale non corrisponde a un modello unitario prestabilito, ma segue le potenzialità espressive dell’artista sempre più distaccato dalla realtà, deluso da una civiltà che ha prodotto guerre incomprensibili. In Francia, tra i protagonisti dell’informale più originali, si distingue Jean Fautrier (1898-1964), che già dagli anni Trenta aveva anticipato un linguaggio di tipo - appunto - informale, elaborato con la drammatica serie degli “Otages” (Ostaggi). Si deduce che i suoi ostaggi sono le vittime del nazismo, dipinti tra il 1943-1945: impronte indelebili nella memoria collettiva di uno sterminio di massa avvenuto nel silenzio. Queste opere sono esempi originalissimi di un “materismo” pittorico che ha spianato la strada a informalismi successivi, fino agli aniconici contemporanei. In generale, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i linguaggi informali sostenuti da ideologie anarchiche e individualiste si diffondono rapidamente in Europa come negli Stati Uniti. Tra i primi ad aprire nuove vie espressive è Lucio Fontana (1899-1968), con cinque manifesti “spazialisti”: manifesti teorici in riferimento all’era spaziale che all’epoca sta dischiudendo orizzonti ermeneutici rivoluzionari. A Milano Fontana fonda il “movimento spaziale”, unendo i percorsi di scienza e di arte e sviluppando un linguaggio gestuale e sperimentale basato su una spazialità tridimensionale riformulata in termini fisici. Da questi ed altri fatti si evince che nel dopoguerra è molto difficile parlare di gruppi unitari riconoscibili; anche la pratica del manifesto è sostituita dalle riviste fondate da intellettuali e artisti sperimentali. Con lo sbarco degli alleati nella vecchia Europa, si affermano nuovi modelli di vita e linguaggi rivoluzionari, che si consolideranno negli anni Sessanta (pop art e arte concettuale). Tornando all’informale europeo, si ricordano per originalità Wols, Soulanges, Mathieu, De Stael, Hartung, Jorn, Appel, Burri, Vedova, Crippa, Dova, Peverelli, Borlotti, Birolli, Chighine, Leoncillo: ognuno di loro presenta diversi codici e morfologie visive differenziate da immaginari e linguaggi sensibili ed evocativi, mai accademici. Alcuni artisti “informali” si rivelano più gestuali o materici, più vicini a Pollock o Sam Francis, mentre altri seguono una via più lirica ed emozionale, basata su tracce di figurazioni non definite, come per esempio fanno i sostenitori dell’“art brut”, teorizzata da Jean Dubuffet. In questo clima post-atomico di prevaricazione di segni, gesti, colature e macchie di colore, alla ricerca di nuova espressività, fioriscono diverse tendenze informali che si realizzano anche nella contrapposizione di materiali. In Giappone, grazie all’attività degli artisti Gutai, si sviluppano linguaggi originalissimi che puntano sul gesto e sul colore e danno il via a performance innovative, anticipando gli happening degli anni Sessanta. A Parigi, dal 1948 nasce dalle file del surrealismo olandese, danese e belga il movimento COBRA (da COpenaghen, BRuxelles, Amsterdam), caratterizzato da un linguaggio sperimentale e dall’atteggiamento nomadico degli artisti, sempre in movimento da una città all’altra d’Europa, più vicini alla tradizioni popolari, etniche, primitive e in contrapposizione ai linguaggi astrattisti, geometrici o formalisti, e con molti punti in comune all’art brut. Le ricerche del gruppo si esauriscono nel 1951, ma resta il loro linguaggio caratterizzato da una pittura con pennellate incisive, violente, spesse, contro la tecnologia e il progresso. Negli anni Sessanta la poetica gestuale ed emotiva dell’informale entra in crisi, anche se oggi l’aniconismo, o la non figurazione, che dir si voglia, continua ad essere praticato da molti artisti che esordirono negli anni Cinquanta e da altri più giovani, senza alcun riferimento al movimento storico descritto in questo articolo. Nel presente gli aniconici propongono linguaggi puramente emozionali; sono di cultura internazionale e seguono vie autonome, liriche e soggettive. E’ il caso ad esempio di Iachetti, Raciti, Olivieri, Monrad, Pierfranceschi, Coda Zabetta, Frangi, Spampinato, Spadari, fino al gruppo “Alterazioni Video”: sette giovanissimi artisti che utilizzando la tecnologia traducono i suoni e i fotoni della luce in esplosioni e vibrazioni cromatiche suggestive, oniriche e destabilizzanti allo stesso tempo. Autore: Jacqueline Ceresoli