giovedì 31 gennaio 2008

LA CREATIVITA’

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La creatività rappresenta un’ancora di salvezza in tanti momenti nella vita di
tutti i giorni, ci aiuta a generare idee utili in momenti di difficoltà, ci aiuta ad
uscir fuori dalla prevedibilità della quotidianità e a scoprire le bellezze
nascoste che ci portiamo dentro inconsapevolmente. Nei momenti di blocco
emotivo ci serve a risolvere situazioni imbarazzanti in modo inaspettato. Di
creatività ne facciamo uso nel lavoro, in famiglia, sempre. Il processo creativo è stato oggetto di studio sin dall’antichità.
Se in passato era considerato un fenomeno inspiegabile ( dote innata riservata
a pochi individui tra cui gli artisti ), attualmente il pensiero di molti studiosi è
che la creatività sia una condotta comportamentale che riguarda tutti gli esseri
umani. Vittorio Rubini, psicologo, sostiene che tutti gli individui posseggono più tipi
di abilità, tra cui la creatività, che si sviluppa in base alle circostanze di vita in
cui l’individuo si trova. Nell’antichità si pensava che la creatività fosse dote di persone che
crescevano in ambienti di estrazione sociale medio – alta grazie agli stimoli a
cui erano esposti. Col tempo si è capito che l’estrazione sociale non influiva
sulla creatività. Si ha un maggiore sviluppo della creatività se l’educazione che
si riceve nell’ambiente domestico tende a formare individui autonomi; i
genitori che stanno troppo vicini ai propri figli e tendono a controllarli non
favoriscono la creatività ma sviluppano la dipendenza. Edward De Bono, laureato in psicologia e medicina, è conosciuto per i
sui studi sulla creatività. Egli sostiene che la creatività è strettamente legata al
“pensiero laterale” che si contraddistingue come “un modo di usare la mente
e di trattare le informazioni”. Il pensiero laterale è generativo e intuitivo.
Se un problema viene affrontato col “pensiero verticale”, si ottengono
sicuramente risultati corretti ma limitati. Per avere una soluzione innovativa bisogna rovesciare i punti di partenza e
servirsi di ipotesi apparentemente lontane. Tutti i dati, anche quelle marginali,
vengono presi in considerazione al fine di ottenere una “ristrutturazione
intuitiva”: questo, in sintesi, è il “pensiero laterale”. Il pensiero laterale (generativo) e quello verticale (intuitivo) si completano in quanto il fine comune è l’efficacia. Howard Gardner, psicologo americano, si è specializzato in psicologia
dell’età evolutiva e in neuropsicologia. Egli sostiene che è errato misurare il
QI (quoziente intellettivo) di un individuo considerato unitario per tutti gli
individui: ogni soggetto ha una propensione particolare e non è dotato di
“intelligenza generale”. Egli crede che ogni soggetto abbia delle attitudini particolari che interessano
aree di conoscenza specifiche nelle quali egli sarà maggiormente creativo.
Partendo da questo presupposto, Gardner si è occupato dello sviluppo delle
capacità artistiche nei bambini e della progettazione di strumenti per
migliorare l’apprendimento e la creatività attraverso un tipo di insegnamento
e valutazione personalizzato. Bisogna pensare alla creatività nei termini delle “diverse intelligenze”, poiché
alla base della creatività c’è una intelligenza specifica. Un individuo sarà
maggiormente creativo nei campi in cui è maggiormente dotato.
Le intelligenze di Gardner si dividono in sette tipologie: Intelligenza Linguistica: tipica degli scrittori. Per capire e valutare se un bambino possiede questa abilità gli si possono far inventare delle storie e
osservare la capacità che ha acquisito nell’ adattare le parole alla natura del
compito Intelligenza Logico-matematica: tipica degli scienziati e dei matematici.
Per valutare la presenza di questa abilità nei bambini gli si deve dare la
possibilità di verificare semplici ipotesi e lasciargli individuare relazioni e
principi. Intelligenza Musicale: i bambini dotati di tale abilità si avvicinano al mondo
dei suoni in modo spontaneo. Bisogna lasciarli sperimentare e creare proprie
melodie. Questa abilità si rivela nella capacità di comporre e analizzare,
nonché nella capacità di distinguere le diverse altezze, timbri e ritmi.
Intelligenza Spaziale: capacità di orientarsi nello spazio e capire la
dimensione che occupano gli oggetti nello spazio. La presenza di tale capacità
perlopiù mentale si può verificare lasciando che il bambino costruisca degli
oggetti con le costruzioni e metta in gioco la capacità di immaginare l’oggetto,
anche se assente nello spazio. Intelligenza Cinestetica: avere la capacità attraverso i movimenti del
proprio corpo di trovare soluzioni. Tale capacità motoria e abilità mentale si
esercita e si scopre con lo sport: nelle partite di pallone , si rivela l’aspetto
funzionale del controllo e del coordinamento corporeo, nel ballo, si rivela
l’aspetto espressivo. Intelligenza Interpersonale: abilità di capire gli altri e di interpretare le
emozioni e le motivazioni. Abilità nel trovare soluzioni che risolvano
situazioni sgradevoli tra litiganti. Intelligenza Intrapersonale: questa intelligenza consente di conoscere
bene se stessi. Consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza, dei
desideri e delle paure. Attraverso la conoscenza dell’io si ha la capacità di
adattarsi a svariate circostanze. Bisogna incoraggiare i bambini ad essere introspettivi attraverso un diario
che rileggeranno per potenziare l’intelligenza intrapersonale. Per Goleman, Ray, Kaufman la creatività è il risultato dell’incontro di alcuni componenti: a) “l’expertise”: esperienza e padronanza in un ambito specifico; il talento
che ogni individuo possiede in un settore specifico. b) “la capacità di pensare in modo creativo”: la capacità di non temere il rischio, la tenacia nell’affrontare il problema, la capacità di rielaborare e
rovesciare le cose nella propria mente. c) “la passione”: motivazione intrinseca che fa agire per il puro piacere di
farlo. d) “la costanza”: permette all’individuo, anche nei momenti di frustrazione e
stanchezza a “non mollare”. e) “la capacità di vedere le cose in modo nuovo”: non avere preconcetti.
f) “la capacità di essere pronti a correre dei rischi”: non avere paura di sbagliare.
g) “la capacità di saper trarre dagli eventuali errori informazioni utili”: capacità
selettiva sui modi più adeguati con cui agire. h) “ la capacità di accettare le proprie ansie”: riconoscere la paura e servirsene al
momento giusto. La natura del pensiero creativo si configura attraverso cinque stadi:
1) “la preparazione”: momento in cui si viene a conoscenza del
problema e si raccolgono tutti i dati utili alla risoluzione,
anche quelli non essenziali. Non bisogna prendere posizioni
fisse, ma essere aperti e recettivi. 2) “la frustrazione”: avviene nel momento in cui il pensiero
verticale, quindi quello razionale, durante la ricerca della
soluzione non riesce a trovarla. La tenacia in questo punto
del processo creativo è la migliore arma per raggiungere
l’obiettivo. 3) “l’incubazione”: è il momento in cui la mente elabora i dati
raccolti precedentemente. Gran parte dell’elaborazione
avviene a livello inconscio. 4) “il fantasticare”: è il momento in cui la mente è aperta ad ogni
tipo di soluzione e non pensa a nulla di particolare. Si è più
aperti all’intuizione. 5) “l’illuminazione”: è il momento in cui si ha l’intuizione della
nuova idea. Il passaggio seguente è quello di saperla tradurre in azione.
Gli stadi descritti da Goleman, Ray, Kaufman sono per linee generali
quelli condivisi da più studiosi.DI Mariangela Amore

La funzione dell’inconscio nel pensiero creativo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI


In Goleman, Ray, Kaufman l’inconscio è un aspetto importante del processo
creativo poiché nello stadio dell’incubazione gran parte dell’elaborazione
avviene a questo livello della psiche. « L’inconscio è più predisposto all’intuizione creativa di quanto non lo sia la
mente cosciente; [...] non esiste autocensura, e le idee sono libere di
combinarsi fra loro secondo disegni diversi e associazioni imprevedibili [...]».
Freud nella teoria psicoanalitica del comportamento umano, ha esaminato il
processo creativo sostenendo che nella produzione artistico – pittorico e/o
letteraria si fanno circolare delle tensioni che in altro modo si riverserebbero
in espressioni nevrotiche: il nevrotico blocca la sua energia per reprimerla,
l’artista la libera per creare. L’opera d’arte è una manifestazione dell’inconscio e quindi del lato irrazionale
della psiche umana, è dominata dal principio del piacere e quindi soddisfa i
desideri profondi e le pulsioni sessuali. L’opera d’arte nasce attraverso la
sublimazione in cui le “forze pulsionali sessuali” vengono mutate verso
destinazioni non sessuali, trasformando la “carica inconscia” in qualcosa di
socialmente utile e attendibile. Sulla scia di Freud si muovono Rogers e Maslow (psicologi) sostenendo che
la creatività è legata alla liberazione di “spinte e motivazioni profonde”
dell’individuo. La motivazione non è legata all’inconscio ma al bisogno dell’io
di autorealizzazione a cui appartengono svariati condizionamenti di tipo
culturale e sociale. La creatività e il pensiero cognitivo
Per gli studiosi della “teoria della forma” ovvero la teoria della gestalt, oggetto
di studio non sono i singoli elementi che compongono la “forma”, ma la
forma è intesa come un tutto preposto alle sue parti.
Di una melodia musicale, ad esempio, si percepisce l’unità e non la
successione o la somma delle singole note. Gli studiosi della Gestalt sostengono che il pensiero inteso come processo
mentale attivo non è la ripetizione di comportamenti e di abitudini (teoria
sostenuta dal comportamentismo) ma intuizione ( ristrutturazione di vecchi
schemi) e creatività (provocazione di nuovi schemi) che si svelano attraverso
l’illuminazione o l’“insight”. Il pensiero creativo non può essere scomposto in stadi tra loro separati ma è
una struttura d’insieme . Pensiero intelligente è sinonimo di pensiero
creativo. Tra i gestaltisti, Wertheimer ha cercato di delineare due tipi di
percorsi: a) il pensiero produttivo: capace di organizzare gli elementi in modo
nuovo a seconda delle esigenze che si presentano (pensiero creativo).
b) Il pensiero riproduttivo: che tende a ripetere le cose sempre allo stesso
modo. Il pensiero divergente contrapposto alla teoria della Gestalt
I gestaltisti facevano risalire alla formula “pensiero produttivo” o “creativo”
solamente la soluzione di un problema. A questa formula si “sottintendeva”
un “direzionalità convergente” verso la soluzione voluta rintracciare. La
creatività era quindi intesa come una nuova elaborazione della struttura degli
elementi del problema. Questa spiegazione non era coerente con la natura
stessa della creatività intesa come illuminazione originale e innovativa
caratterizzata dal pensiero divergente. Guilford tra gli anni ’50 e ’60 eliminò la confusione che c’era tra intelligenza
e creatività introducendo due tipi di pensiero : “pensiero convergente” e
“pensiero divergente”. Secondo Guilford la creatività non è una funzione mentale unitaria ma va
spiegata attraverso un gran numero di elementi traducibili in capacità mentali.
«L’intelletto può essere suddiviso in memoria e pensiero. Nella creatività è il
pensiero che conta». Il Pensiero Convergente è quello che concepisce un unico risultato e lo dà
per buono, come unica soluzione corretta. Prende il nome dal procedimento
che esso usa poiché fa convergere in una sola direzione la risposta perché è
la domanda che lo presuppone. Ad esempio: qual è la capitale della Francia?
E’ una domanda nozionistica. Il Pensiero Divergente è di tipo non convenzionale e anticonformista, ecco
perché formula idee e soluzioni nuove e originali. Durante la formulazione di risposte si cambia spesso direzione e si possono
ipotizzare risultati che sono lontani dalla meta. Del pensiero divergente ne fa grande uso l’artista. Più uno scrittore, ad
esempio, ipotizza svariati finali per il suo romanzo più avrà la possibilità di
trovarne uno davvero originale. Le caratteristiche che lo delineano sono:
a) “ fluidità”: capacità di formulare tante idee, di varia qualità, da uno
stimolo specifico; b) “flessibilità”: capacità di rovesciare gli schemi per produrre nuove idee;
c) “elaborazione”: capacità di dare risposte e soluzione lavorando su
elementi semplici. d) “valutazione”: capacità di selezionare le idee di maggior efficacia.
e) “l’originalità” : avviene nel momento in cui dal numero di risposte date
dalla fluidità si ha la capacità di trovare quella giusta e meno ovvia.
La differenza sostanziale fra il pensiero divergente e quello convergente è che
quest’ultimo rimane ancorato al problema stesso e si avvia verso una
soluzione che è indicata dalle informazioni date. Il primo invece rielabora
liberamente le informazioni senza limitazioni, con originalità associativa.
La personalità dei pensatori divergenti Le ricerche, che hanno fatto gli studiosi per tracciare i tratti caratteriali della
persona creativa, hanno delineato delle qualità specifiche comuni del
“creativo”: hanno uno spiccato senso estetico, una personalità ricca e
articolata, sono anticonformisti e impulsivi. Inoltre, sono stati messi in rilievo
atteggiamenti comuni come, ad esempio, il notevole senso dell’umorismo e
una grande abilità a “giocare” col senso delle cose. Studi specifici sugli adolescenti creativi hanno mostrato la presenza di
impulsività, aggressività, indipendenza, umorismo e giocosità.
Rodari afferma che il creativo ha la capacità di infrangere continuamente gli
“schemi dell’esperienza” e dove gli altri riconoscono soluzioni scontate il
creativo scorge ben altri problemi a cui trovare una soluzione. Il creativo
rifiuta ciò che è codificato e non si lascia inibire. Musica e creatività
In campo musicale la produttività sonora deve tener conto della creatività.
Nell’antichità la creatività era considerata dote di pochi, comunemente
chiamati geni, e si credeva che le opere composte venivano scritte di getto.
Nella storia della musica non è sempre stato così. A favore di chi compone
mettendo in azione esperienza e competenza si può fare riferimento a
Beethoven che tra i “padri” della musica era colui, e non solo, che scriveva
elaborando e rielaborando e appuntando tutte le nuove idee che giungevano
anche in prossimità del lavoro finito. Il creativo non è infatti colui che emerge perché beneficiato di doti speciali
che non sono comunemente presenti; la creatività è una condotta
comportamentale che potenzialmente è presente in tutti gli individui.
Bisogna, nella scuola di base, contribuire ad esercitare la creatività e a
servirsene in modo efficace partendo da un insegnamento creativo.
Un itinerario didattico che possiamo tracciare per grandi linee può mirare a
finalità creative. a) Competenza specifica di base. E’ il punto di partenza e mira allo
sviluppo delle capacità divergenti del bambino. La competenza di base è
presente sotto forma di “memoria sonora” e va rafforzata con
esperienze attive in tutti i campi del sonoro. b) Ricerca. Per gli allievi la ricerca degli oggetti e dei materiali sonori è una
conquista personale del mondo sonoro. Attraverso la ricerca sviluppano
la curiosità e il piacere della scoperta. c) Osservazioni, analisi, comprensione. E’ il momento in cui la curiosità
guida i gesti dei bambini. Gli “oggetti dell’esperienza” si manipolano e
si cerca di afferrare il maggior numero di informazioni possibili.
d) Produzione. Il suono viene prodotto attraverso il corpo e la voce,
favorendo la capacità di riprodurre e inventare in modo consapevole gli
“oggetti dell’esperienza”. e) Manipolazione creativa – invenzione. Entra in gioco il pensiero
divergente. Si rimonteranno gli oggetti in modo nuovo, non
convenzionale. Gli oggetti si potranno modificare per creare nuovi
suoni e nuove esperienze. f) Verifica. Non bisogna verificare il prodotto nuovo ma il percorso
didattico, la capacità creativa che è riuscito ad innescare e a sviluppare
negli allievi. Caratteristica degli insegnanti creativi
L’insegnante creativo è: 1) Aperto e anticonformista. Il suo atteggiamento deve fungere da
modello. 2) Deve avere competenze didattiche generali e specifiche nella disciplina
d’insegnamento. 3) Deve facilitare il confronto e la comunicazione interpersonale.
4) Deve favorire la collaborazione tra gli alunni e non la competizione.
5) Adoperare metodologie e pratiche che sviluppino la creatività.
6) Essere aperti a proposte e a tutto ciò che è innovativo, diverso,
originale sia di tipo culturale che sociale.
7) Deve curare attivamente la propria preparazione ed essere aperto a
interessi culturali vari. Teresa Amabile: I Killer della creatività
1) Sorveglianza: non far sentire i bambini sotto controllo.
2) Valutazione: non alimentare ansia e preoccupazione per il giudizio
degli altri. 3) Ricompense: i premi e le ricompense non devono essere usate in modo
esagerato perché tolgono ai bambini il piacere intrinseco di fare le cose
per il piacere di farle. 4) Competizione: non bisogna creare situazioni in cui si mettono i bambini
nelle condizioni di vittoria o di perdita. Ogni bambino ha i propri ritmi
e le proprie capacità che devono essere rispettati.
5) Eccessivo controllo. L’insegnate deve essere guida e riferimento ma
non deve invadere e controllare il percorso didattico. Ad ogni bambino
deve concedere la libertà di procedere: dagli errori si impara.
6) Limitare le scelte. I bambini vanno lasciati liberi sulle scelte e sugli
interessi. All’insegnate il compito e il limite di sostenerli.
7) Deprivazioni di tempo: Dare limiti di tempo vuol dire condizionare il
processo creativo. Il tempo da dedicare ad una attività deve essere
illimitato. Mariangela Amore

Nella mitologia greca il Caos costituiva il “principio"

DI D. PICCHIOTTI

Nella mitologia greca il Caos costituiva il “principio”, una
massa informe di tutti gli elementi della natura, da cui ha
avuto origine il mondo. Nella moderna teoria dei sistemi il
caos fa riferimento non tanto al disordine totale, quanto a
sistemi perfettamente ordinati che manifestano però una
estrema sensibilità alle più piccole perturbazioni. La
descrizione completa del comportamento di tali sistemi
richiederebbe un enorme, al limite infinito, ammontare di
informazioni. Esso può però essere rappresentato in forma
facilmente comprensibile dalla visualizzazione del
movimento di un sistema in un paesaggio di valli, colline,
precipizi, punti di sella, che costituiscono la riproduzione
grafica dei sottostanti sistemi di equazioni.
La natura caotica dell’esperienza è stata catturata in modo
analogo nelle opere di grandi artisti, che hanno portato la
pittura a formidabili livelli di rappresentazione del mondo: la
calibrazione, l’accostamento, la luminosità e la saturazione
dei colori, le prospettive irreali, le atmosfere oniriche
trasportano la mente dell’osservatore calamitandone
l’attenzione e trascinandolo alle frontiere del suo inconscio,
luogo da cui si può meglio percepire l’essenza della realtà.
Con queste operazioni creative gli artisti riconducono il caos
a forme comprensibili.
Elementi altrettanto caotici si ritrovano nell’attività di
impresa, che dà forma a percezioni, bisogni ed emozioni
attraverso l’uso di capitali e persone, in contesti in cui
l’orizzonte temporale di previsioni affidabili si fa sempre più
ristretto o manca del tutto, a causa della forte sensibilità
all’indeterminazione iniziale sulla conoscenza del sistema, in
un mondo in cui l’insieme delle possibili evoluzioni diventa
sempre più complesso. Anche in questo caso, un processo
fortemente creativo.
Se si prova a caratterizzare il processo creativo comune ad
arte ed impresa (ma anche a scienza e tecnologia) si vede che
esso non è solo e semplicemente racchiuso nelle menti dei
“creativi”. Tale processo può essere compreso solo se si
guarda all’interazione tra tre elementi: l’intuizione e il
talento, caratteristiche dell’individuo; i metodi e le pratiche
caratteristiche di uno specifico dominio; i soggetti che
costituiscono il sottoinsieme sociale di riferimento e per i
quali la “creazione” ha valore (che può di volta in volta
essere identificato, ad esempio, negli appassionati d’arte o in
un segmento di mercato).
Creatività, metodo e valore costituiscono i tre nodi dalla cui
interazione nasce e si afferma il nuovo e prende forma il
mondo. Si capisce così come i concetti di eccellenza e di
innovazione non possano essere riferiti ad un singolo
soggetto, ma debbano per forza tener conto delle relazioni
tra i tre nodi fondamentali della creatività.
Competere alla frontiera della tecnologia richiede quindi
non solo il rafforzamento dei singoli elementi, ma anche un
complesso lavoro di attivazione e mantenimento di un
efficace sistema di relazione tra di essi. Non è un compito
facile. In questa sessione di studio, che traccia idealmente
un parallelo tra arte e impresa, ne discutono accademici e
imprenditori.

A PROPOSITO DI CREATIVITA

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI



La creatività esiste veramente e se esiste è qualcosa di latente e di inespresso in ognuno oppure una qualità di pochi privilegiati ? A. Einstein ad esempio riteneva che esistesse, non a caso dichiarò che “l’immaginazione è più importante della conoscenza”, nel senso che questa può dare apporto culturale e fornire nuova conoscenza. Come scrive C. Trombetta nel suo libro intitolato “La creatività” i primi studi su questo argomento riguardarono delle distinzioni tra i concetti di fantasia, immaginazione creatrice ed invenzione. L’interesse sull’argomento si intensificò in America nel 1957 dopo il lancio andato a buon fine dello Sputnik russo verso la Luna, evento che decretò la sconfitta americana della sfida spaziale tra le due superpotenze. Come scrive A. J. Cropley in “La creatività nella scuola e nella società” in quel frangente gli americani intuirono che l’individuo creativo era necessario per l’avanzamento del progresso scientifico e tecnologico. Fino ad allora era opinione diffusa ritenere che i migliori scienziati fossero delle persone con elevato tasso di istruzione e con elevate competenze specialistiche. Fino ad allora gli americani supponevano che persone con alto quoziente intellettivo fossero anche creative. In realtà è stato scoperto recentemente che tutte le persone creative sono anche intelligenti, ma non tutte le persone intelligenti sono anche creative[Beaudot, 1974]. Così come studiosi e premi Nobel(come Lewontin, Eccles, Rita Levi Montalcini) hanno criticato il concetto di quoziente intellettivo. Il quoziente d’intelligenza viene definito come il rapporto tra età mentale ed età cronologica, moltiplicato per 100. Ad esempio un bambino con un quoziente d’intelligenza di 150 di 4 anni dovrebbe teoricamente avere le stesse capacità mentali di un bambino normale di 6 anni. Probabilmente siamo ancora agli albori per quel che riguarda la misurazione dell’intelligenza umana. I più noti psicologi recentemente infatti hanno stabilito la validità del quoziente intellettivo come strumento diagnostico per rilevare disfunzioni cerebrali e ritardo mentale, ma non per stabilire con esattezza le differenze individuali riguardo alle capacità di apprendimento ed al potenziale intellettivo. Ci sono persone che hanno grandi capacità di apprendimento e risultati mediocri nei test d’intelligenza. Così come ci sono persone molto creative e molto intelligenti che non hanno risultati eccellenti nei test d’intelligenza. Non mi risulta a proposito che la donna più intelligente del mondo con un quoziente intellettivo di 215 abbia dato un contributo scientifico, artistico, filosofico o politico all’umanità. Il biologo Watson, che insieme a Crick, scoprì l’enigma della struttura del dna invece aveva un quoziente intellettivo appena appena superiore alla media. Fu una scoperta importantissima per l’umanità e non avvenne casualmente, ma grazie alla logica dei due scienziati. Ci sono elementi, come la distrazione e la stessa originalità di pensiero, che sono svantaggiosi nei test d’intelligenza e comportano una resa al quoziente intellettivo minore rispetto alle effettive capacità. Come in ogni test che si rispetti in psicologia inoltre ci sono i falsi positivi ed i falsi negativi. I falsi positivi sono coloro che risultano essere “in gamba” nonostante non lo siano, i falsi negativi l’esatto contrario. Come se non bastasse abbiamo un’ulteriore contraddizione: la riuscita di una batteria dei test d’intelligenza deriva dall’indice di predittività. Una batteria di test d’intelligenza viene ritenuta valida se i risultati ottenuti da dei bambini a queste prove d’abilità riescono a predire i loro successi/insuccessi scolastici. A sua volta verranno fatti ulteriori studi per verificare se quei test di intelligenza hanno predetto l’insuccesso o il fallimento professionale di quei bambini, quando sono diventati adulti. Assistiamo così ad una ipersemplificazione della realtà: sarà senz’altro vero che i risultati dei test di intelligenza sono correlati al successo/insuccesso scolastico o all’integrazione o meno nel mondo del lavoro, ma in questo modo vengono esclusi alcuni fattori non meno determinanti come le scelte di vita, la malattia o il caso. Non solo, ma ogni test d’intelligenza non è altro che il risultato di una definizione operativa degli psicologi, che lo hanno ideato. Questo significa che ad esempio se degli psicologi ritengono che l'intelligenza sia sinonimo di velocità e di pensiero convergente avremmo dei tests d’intelligenza completamente diversi(che danno dei risultati completamente diversi) rispetto ad altri psicologi, che hanno definito in modo completamente differente l’intelligenza umana. Questo non dipende solo dalla personalità e dalla mentalità degli psicologi, che elaborano il test, ma anche dalla società da cui provengono e in cui sono inseriti. Nonostante tutti questi limiti intrinseci i test d’intelligenza sono conosciuti e utilizzati in tutto il mondo, perché sono dei semplici reattivi mentali per cui basta solo carta e penna, quindi la loro somministrazione è la più economica per le aziende che devono assumere personale, rispetto a fornire a tutti i candidati un periodo di prova. Inoltre anche se hanno tutti i difetti elencati sono più attendibili dei colloqui, in cui contano anche fattori come l’antipatia/simpatia e la similarità o la non similarità tra l’esaminatore e il candidato. 
Per quel che concerne l’istruzione attualmente sappiamo come sottolinea A. O. Osborn nella sua opera “L’arte della creatività” che la maggior parte delle persone specializzate sono sterili per quel che riguarda la produzione di idee e la risoluzione di problemi, mentre altre meno istruite possono risultare più creative. A questo proposito ricorda che Morse, l’inventore del telegrafo, era un ritrattista; che Faraday era privo di istruzione formale; che Fulton, l’inventore della nave a vapore, era un artista; che Davenport, l’inventore dell’elettromagnete, era un fabbro.
Nonostante “l’effetto Sputnik” lo psicologo J. P. Guilford a metà degli anni’70 prese in esame l’indice di tutti i Psychological Abstracts. Ebbene su 121000 titoli di saggi psicologici soltanto 186 riguardavano la creatività: solo lo 0,1%. Nonostante i facili entusiasmi nei confronti della creatività(si pensi ad esempio al Maggio francese e ad uno dei suo slogan: l’immaginazione al potere) e le cadute di interesse nei confronti dell’argomento i pochi ricercatori che vi si sono dedicati hanno dato contributi fondamentali a riguardo. Tuttavia nessuno studioso potrà mai dare una definizione esaustiva della creatività. Forse la genialità è quella cosa che nessuno potrà mai spiegare. Per quanto concerne la creatività artistica bisogna ricordare Freud, che con i suoi studi “il poeta e la fantasia” e “Saggio su Leonardo” iniziò ad esaminare il rapporto tra inconscio ed arte. Ma l’inconscio del resto sembra avere un ruolo determinante anche nell’ambito della creatività scientifica. E quale è il regno dell’inconscio se non il sogno? Infatti F. A. von Kerule scoprì la struttura dell’anello benzenico in sogno. Kerule scrive: “Voltai la sedia verso il caminetto e mi assopii. Ed ancora gli atomi saltellavano davanti ai miei occhi. Questa volta i gruppi più piccoli stavano con discrezione sullo sfondo. Il mio occhio mentale, reso più acuto da ripetute visioni di questo tipo, riusciva ora a distinguere strutture più ampie, di varia conformazione; lunghe file, a volte più vicine l’una all’altra; tutte che si combinavano e si contorcevano con movimenti di serpente. Ma ecco ! E quello che cos’è ? Uno dei serpenti aveva afferrato la propria coda , e la forma piroettava beffarda davanti ai miei occhi. Come per un improvviso lampo di luce mi svegliai….Dobbiamo imparare dai sogni, cari signori”.
Per G. Wallas esistono 4 fasi della soluzione dei problemi scientifici: preparazione, incubazione, illuminazione, verifica. La preparazione consiste nella conoscenza e nell’analisi del problema. L’incubazione invece è strettamente connessa all’inconscio. Ma vediamo in cosa consistono queste 4 fasi riportando dei brani della testimonianza del matematico Poincarè, riguardo alla scoperta della teoria dei gruppi fuchsiani e delle funzioni fuchsiane. 


PREPARAZIONE: “Volli in seguito rappresentare queste funzioni con il quoziente di due serie; questa idea fu particolarmente cosciente e pensata; l’analogia con le funzioni ellittiche mi guidava. Mi domandai quali dovessero essere le proprietà di queste serie, se esistevano, e arrivai senza difficoltà a formare la serie che ho chiamato thetafuchsiane.” 


INCUBAZIONE: “A questo punto partii da Caen, dove abitavo, per partecipare ad una gita geologica organizzata dall’Ecole des Mines. Le peripezie del viaggio mi fecero dimenticare i miei lavori matematici…” e sempre in vacanza “ una sera contrariamente alle mie abitudini, bevvi del caffè, e non riuscii più ad addormentarmi: le idee mi si accavallavano nella mente, le sentivo come urtarsi fino a che due di loro, per così dire, si agganciarono, per formare una combinazione stabile”. L’incubazione è quindi un periodo infruttuoso(ad esempio una vacanza o un momento di pausa), in cui l’inconscio può rielaborare e riformulare alcuni aspetti del problema, che fino ad allora analizzato dal punto di vista cosciente non sembrava avere alcuna soluzione. L’incubazione risulta quindi essere un intervallo di tempo, in cui il lavorio inconscio riesce a sbloccare la situazione mentale di stallo precedente. ILLUMINAZIONE: Sempre Poincarè scrive: “…arrivati a Coutances, montammo su un trenino per non so quale passeggiata; nel momento in cui mettevo piede sul predellino, mi venne l’idea, senza che niente nei miei precedenti pensieri sembrasse avermici preparato, che le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni di Fuchs fossero identiche a quelle della geometria non euclidea.” 


VERIFICA: è il momento in cui viene controllata tramite la logica e la sintattica della disciplina l’intuizione precedente. 

E’ ora il caso di definire in cosa consiste la ricerca scientifica. Lo scienziato P. B. Medawar ne “I limiti della scienza” scrive che “l’arte della ricerca scientifica è l’arte del risolvibile”. Il matematico J. Hadamard, nel suo libro “La psicologia dell’invenzione in campo matematico” fa una distinzione basilare tra scoperta ed invenzione: “la scoperta riguarda un fenomeno, una legge, un ente già esistenti, ma che non erano stati percepiti. Colombo ha scoperto l’America, che esisteva prima di lui; al contrario, Franklin ha inventato il parafulmine: prima di lui non c’era alcun parafulmine”. La maggior parte della ricerca scientifica quindi si può desumere, quando approda a dei risultati, giunge a delle scoperte, più raramente a delle invenzioni. Altri contributi fondamentali per quel che riguarda lo studio della creatività sono il pensiero produttivo della scuola Gestalt ed il pensiero divergente di Guilford. Il pensiero produttivo di Werthmeir “consiste nel rendersi conto delle caratteristiche strutturali della situazione-problema e delle esigenze di miglioramento che vi sono implicite[Rubini, “La creatività]. Il soggetto giunge quindi alla soluzione del problema, dopo averlo ristrutturato cognitivamente(insight), dopo averlo riorganizzato, ridotto ai termini essenziali e di conseguenza anche semplificato. Per Guilford invece esistono sostanzialmente due stili di pensiero: il pensiero convergente ed il pensiero divergente. Per risolvere problemi che hanno un’unica soluzione è necessario il pensiero convergente, che non richiede nessun tipo di originalità e di apertura mentale. Il pensiero divergente invece partendo da una traccia iniziale conduce ad una molteplicità di idee originali e diverse tra di loro. Non esiste una soluzione giusta e nei tests di pensiero divergente è premiato chi ha più idee indipendenti

mercoledì 30 gennaio 2008

"Informale. Jean Dubuffet e l'arte europea 1945 - 1970"

DI D. PICCHIOTTI

Jean Dubuffet nasce a Le Havre nel 1901.
Dopo aver frequentato per due anni l'Accademia locale, nel 1918 si trasferisce a Parigi per studiare all'Académie Julian e diventare pittore. È una decisione sofferta e più volte ritrattata. Ma diventa definitiva a partire dal 1942, dopo un periodo trascorso a Buenos Aires e alcuni anni di lavoro nell'azienda di famiglia.
Dubuffet è attratto dalla produzione dei popoli primitivi, dai graffiti tracciati sui muri, dalle immagini spontanee e naturali dei bambini e dei malati di mente. Si tratta di un vasto repertorio, per il quale, a partire dal 1945, conia l'espressione "Art Brut" e che in seguito analizzerà meglio nei suoi scritti e nei "Cahiers de l'Art Brut".
Nel 1944 tiene la prima personale alla galleria René Drouin di Parigi. Nello stesso periodo compie un viaggio in Algeria, da cui ricava numerose idee e spunti pittorici.
Nel periodo bellico Dubuffet si interessa a quella che chiama "peinture de la vie moderne".
Si dedica, quindi, alle Hautes Pâtes (1945-1946) e ai Portraits (1946-1949), che, per la pregnanza materica, possono ben rientrare in ambito informale.

Nel 1946 Jean Dubuffet pubblica il Prospectus aux amateurs de tout genre, dove chiarisce il suo pensiero.
Nel 1947 fonda la Compagnie de l'Art Brut con Paulhan, Drouin e Breton. Contemporaneamente organizza una mostra con opere di bambini e alienati mentali. Espone per la prima volta in America, nella galleria newyorkese di Pierre Matisse.
Tra il 1949 e il 1960 si dedica a vari cicli di opere: Paysages Grotesque (1949-50), Corps de Dames e Sols et Terrains (1950-52), Assemblages e Texturologies (1953-1959). I Phenomènes (1958-1962) e le Matériologies (1959-1960) si aprono all'impiego di materiali diversissimi: collage di opere precedenti, giornali, elementi vegetali e animali, tra cui persino ali di farfalla. Nel 1960 si dedica anche a un lavoro musicale sperimentale insieme a Asger Jorn.
Negli stessi anni tiene numerose retrospettive in Europa e in America: Städtisches Museum di Leverkusen nel 1957, Kunsthaus di Zurigo, Stedelijk van Abbemuseum di Eindhoven e Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1960, Musée des Arts Décoratifs di Parigi nel 1961, Museum of Modern Art di New York nel 1962. Nel 1966 è la volta della Tate Gallery di Londra e del Guggenheim di New York.

Hans Hofmann: Master of Espressionismo Astratto

DI D. PICCHIOTTI

Hans Hofmann è una figura assai singolare nel panorama dell'Informale nordamericano. Si tratta infatti di un'artista della generazione cubo-espressionista, essendo nato nel 1880 (a Weussenburg, in Germania), e quindi "spiazzato" cronologicamente rispetto alla fisiologia creativa che guida il passo di coloro che hanno affrontato "in tempo reale" la problematica del cosiddetto Espressionismo astratto. Questa peculiarità biografica incide sugli esiti del tragitto di Hofmann, portandolo ad essere ora profetico anticipatore, ora invece quasi seguace dei protagonisti della nuova stagione. Va detto innanzitutto che l'artista, in funzione della sua nascita così "precoce", si trova ad attraversare esperienze assai diverse, a cominciare dalla presenza a Monaco, sul finire dell' '800, e successivamente a Parigi, fra il 1904 e il '14, cioè negli anni in cui sbocciano e maturano i grandi eventi dell'arte d'inizio secolo, il Fauvismo e il Cubismo. Ma Hofmann, quasi sentendosi escluso da questi fermenti, non li esprime autonomamente, non entra cioè a far parte della schiera di artisti che li rappresenta, limitandosi a respirarne l'aria.
Il passaggio seguente è quello in direzione degli States, dove l'artista è presente fin dai primi anni Trenta, e apre addirittura una scuola a New York a partire dal '33. È soltanto ora, alla non più giovane età di oltre cinquant'anni, che Hofmann si affaccia direttamente sul proscenio artistico. Parlando dei suoi lavori afferma che: "lo spazio è vivo, dinamico, fluttuante e ambiguamente dominato da azioni e reazioni, movimenti e contromovimenti che tutti insieme vengono sentiti, in ritmo e controritmo, come la quintessenza dell'esperienza vitale. Le leggi proprie della superficie pittorica permettono all'immagine di svilupparsi in perfetto accordo con l'esperienza di natura, quando noi riusciamo a potenziare i mezzi pittorici in modo da portarli ad una reciproca rispondenza plastica e psicologica. Per questo è importante rendersi conto del fatto che ogni attivizzazione plastica della superficie pittorica crea su di essa, non solo reali movimenti bidimensionali, bensì contemporaneamente suggeriti movimenti tridimensionali, nel senso di Push and Pull; cioè, nel senso di un dentro e fuori della profondità". 
Su queste prime prove, legittime soprattutto per innescare la tradizione europea sul filone del nascente Informale nordamericano, viene a calare un primo interdetto all'inizio del nuovo decennio, quando l'artista, anticipando Pollock e tutta la problematica del dripping, produce opere come String, del '40, e successivamente Effervescence e Early Fall, del '44 e '45. Siamo cioè in presenza di una calda testimonianza di action painting o, quanto meno, visto che la pratica del dripping in realtà non viene perseguita, di una pittura che si getta a capofitto sulla tela. Rispetto a Pollock, o a de Kooning, si nota una minore coscienza della tensione formale; Hofmann, cioè, corre il rischio di essere troppo ardito nella sua scelta, di non tenere conto dei valori strutturali, che anche nei Pollock più focosi si dimostrano abili a costruire se non altro una scansione ritmica. Hofmann è invece disarticolato, tira all'esagerazione, e questo va almeno in parte attribuito al suo ritardo generazionale. 
Nella seconda metà degli anni Quaranta, sembra che l'artista faccia un passo indietro, recuperando in un'opera assai interessante come Ecstasy stilemi gorkyani, ma con una grafia assai epidermica, che parla ancora la lingua matissiana, anche se la traduce nel lessico biomorfico; rispetto a Spring, di quasi sette anni avanti, questo lavoro appare come un implicito anacronismo, e dà conto degli slittamenti interni all'operare dell'artista.

Interessi di ricerca
La ricerca nel laboratorio del dottor Hofmann cerca di capire i meccanismi molecolari e ormonali che alla base di comportamenti sociali e della sua evoluzione. Cichlid pesci africani sono un modello ideale sistema per affrontare queste questioni a causa della loro recente e rapida radiazioni che hanno causato centinaia di phenotypically diverse specie. Il nostro lavoro si avvale di un ampio spettro di approcci, che vanno da studi ecologici in Oriente africana dei Grandi Laghi di genomica funzionale su misura utilizzando cDNA microarrays per espressione genica nel cervello di profilazione. Siamo inoltre in grado di utilizzare ormonali perturbazioni, neuroanatomiche e tecniche avanzate di microscopia, la bioinformatica e strumenti. Anche se abbiamo lavorato su una serie di argomenti in diversi sistemi modello, le attuali progetti si concentrano su due aree principali: 1) L'identificazione dei geni che sono coinvolti nell'attuazione della dominanza sociale e sesso ruoli nel Tanganyikan mouthbrooder Astatotilapia burtoni, e 2) una analisi comparativa Ecologici e delle basi molecolari e divergenti evoluzione della organizzazione sociale (monogamia vs poligamia), e un gruppo di strettamente legato (monophyletic) specie, la Ectodini cichlids dal lago Tanganica. Attentamente e sistematicamente interrogando il cervello di questi pesci, che possiamo utilizzare per identificare espressione del profilo molecolare costruzione di blocchi di comportamento co

Burri. Opere 1949-1994. La misura dell'equilibrio

DI D. PICCHIOTTI

Informale, neoplastico, barocco, classico, barbarico, sperimentale, concettuale, la critica ha spesso usato categorie antitetiche per definire Alberto Burri (1915 - 1995), grande protagonista dell'arte del secondo Novecento.
A fronte di questa molteplicità di indirizzi interpretativi si trova la sorprendente coerenza di indagine e di poetica di Burri.
Per il medico umbro, diventato pittore durante la prigionia in Texas nel 43, l'arte significava ricerca dell'equilibrio. Un equilibrio da ritrovare dopo l'esperienza tragica della guerra che aveva azzerato ogni codice. Per tornare a guardare la realtà e porgerla agli altri, Burri doveva individuare nella pittura un veicolo di rigenerazione oggettiva. Un'esigenza che segna l'inizio la ricerca sui materiali poveri visti come testimonianze organiche ed elementari della vita.
Prima di lui, Picasso con i suoi collages cubisti e Schwitters con quelli dada-surrealisti avevano inserito nel quadro materiali extra-pittorici per trasgredire le convenzioni dell'arte, ma è Burri a fare il passo estremo: spoglia la materia di ogni significato simbolico o concettuale e ne rivela l'implicita bellezza, le insospettabili prerogative formali, e ci fa scoprire quello che esisteva da sempre e che non avevamo visto. All'inseguimento di un equilibrio compositivo, di un canone aureo da rintracciare nei materiali più poveri e banali - prima i catrami e le muffe ancora assimilabili per consistenza agli impasti pittorici, dopo i sacchi e i gobbi e le combustioni, poi i legni, i ferri, le plastiche e i cretti, fino ai grandi cellotex intonsi o nei neri in cui la materia stessa sembra scomparire dal quadro - Burri costruisce la propria statura di artista "classico".
Una classicità e un equilibrio costruiti attraverso cinquant'anni di febbricitanti ricerche e sperimentazioni, attraverso gesti, colori e materiali trasformati in spettacolo artistico da porgere allo spettatore.
La rassegna allestita presso la Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo ripercorre la biografia artistica dell'artista umbro, dagli esordi figurativi alla scoperta della bellezza nella materia più povera e negletta.
In mostra sfilano una sessantina di opere, a cominciare da Catrame del 1949 con quelle formazioni circolari, evocanti una germinale morfologia cellulare, la cui ricorrenza sarà costante in molti catrami, nel Sacco SZ1 del 49, con il tessuto a stelle e strisce, nel celebre Gobbo del 1950 con la tela sagomata nel retro da una struttura di rami incrociati, nel Nero del1951 presente in mostra, nel Pannello FIAT del 1949-50, in molti Sacchi, nelle Combustioni, nei Legni, nelle Plastiche, nei Ferri, nei Cellotex.
Fino a Nero e Oro del '93, composto da 10 cellotex, che esprime la scelta linguistica degli ultimi anni della ricerca di Burri: l'apertura all'astrazione dell'oro rimanda ai fondi dorati bizantini e rinascimentali facendo pensare più ad un inizio che a una fine del percorso.
Un percorso che si è svolto all'insegna della "misura dell'equilibrio". Nel corso di una conversazione avvenuta nel 94, poco prima della sua scomparsa, Burri aveva affermato: "La pittura deve essere decorativa, deve cioè rispondere a dei canoni di composizione e di proporzione (...) Come può essere un quadro sproporzionato, "cadere" da una parte ...o uno ce l'ha questo senso dell'equilibrio, oppure (...) Equilibrio delle forme che si pongono nello spazio (...) almeno questo ... equilibrio che può avere delle trazioni terribili da una parte o dall'altra, però sempre in equilibrio (...)". Successivamente, a sottolineare come tutta la tensione all'equilibrio e all'armonia provenisse a lui dai luoghi della sua terra, aveva aggiunto: "Io l'Umbria ce l'ho dentro perché l'ho respirata. Questo è il punto".

lunedì 28 gennaio 2008

Movimento Arte Concreta

DI D. PICCHIOTTI

Nel 1948 un gruppo di intellettuali ed artisti fondò a Milano il Movimento Arte Concreta. Teorico del movimento, Gillo Dorfles, noto critico e studioso, allora anche pittore. Tra i fondatori anche artisti come Bruno Munari - uno dei padri del nuovo design italiano, Nigro, Veronesi, Soldati, Monnet e, per breve tempo Lucio Fontana. Aprendosi alle correnti europee più avanzate di arte contemporanea, gli artisti del MAC si schieravano con i sostenitori di un’arte aniconica, cioè "non- figurativa", prendendo tuttavia le distanze anche dall’ala storica dell’astrattismo. La differenza era concettualmente sottile. L’astrattismo storico del primo Novecento (rappresentato da artisti di diversa ispirazione come Kandinsky e Mondrian) muoveva dal rapporto con la realtà esterna, la natura, il paesaggio, gli oggetti, per un processo di analisi e di riduzione alla loro essenza di forme, colori, materie, ritmi, rapporti. Al contrario dell’arte astratta, l’arte concreta proponeva immagini di forma-colore di pura invenzione ed elaborazione dell’artista, indipendenti da suggestioni della realtà o da significati simbolici. Arte "concreta" significa arte autosufficiente, non dipendente da fonti ad essa esterne. In questo senso era stata già teorizzata nel 1930 dall’olandese Theo Van Doesburg, già esponente di De Stjil ("Manifesto dell’Arte Concreta") e nel 1936 dall’artista svizzero Max Bill, dando luogo alla produzione di quadri di grande purismo formale, con ritmi di partitura geometrica. In Italia, il primo a rilevare la differenza e a farsene promotore fu lo storico dell’arte Lionello Venturi, ispiratore di  "Forma 1", un gruppo romano contemporaneo al MAC milanese, a cui aderirono artisti come Dorazio e Perilli. A Firenze intanto veniva redatto il Manifesto dell’Astrattismo classico che esprimeva posizioni analoghe anche se con definizioni ambigue. 
Al di là delle sofisticazioni teoriche, quel che accomunava i diversi fermenti era una concezione antinaturalista e antisurrealista dell’arte, intesa come modello progettuale in grado di "mettere ordine" idealmente in una società che si preparava a vivere il boom socio-economico degli anni Cinquanta- Sessanta. Modelli storici di riferimento erano il costruttivismo russo dopo la Rivoluzione di Ottobre, il Bauhaus tedesco con la sua utopia riformistica, e lo stesso Mondrian maturo, il profeta dell’arte come "armonia realizzata".
Infatti il MAC affermava anche la "sintesi delle arti" fra arte, architettura, design: Mario Ballocco, uno dei componenti del gruppo, avrebbe condotto una indagine sistematica e scientifica del colore (cromatologia). Una nuova manifestazione di vitalità dell’arte concreta si ebbe dopo gli anni Cinquanta dominati dall’espressionismo astratto, dall’action painting, dall’informale, dall’art brut, manifestazioni di arte non figurativa, ma all’insegna di un individualismo esasperato, irrazionale, gestuale. Gli studi tedeschi di Rudolf Arnheim sulla teoria della forma (Gestalt) e l’avanzante società tecnologica determinarono una ripresa di formalismo geometrico e razionalizzante, che si diramò in numerose correnti: pittura monocroma (specie in Usa), optical art, neocostruttivismo, arte cinetica, arte ghestaltica (in Italia sostenuta dall’autorità di un altro grande studioso, Giulio Carolo Argan).
Fermenti che proseguirono sotto traccia e sotto altre spoglie, dopo la grande ripresa dell’iconismo e della narrazione massmediale con la Pop Art negli anni Sessanta e quel che ne seguì sino ai giorni nostri. Per essi può restare valida nelle sue motivazioni di fondo, la definizione che dell’arte concreta dette Gillo Dorfles: una forma d’arte "basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori".

Mail Art

DI D. PICCHIOTTI

La Mail art è anche, contemporaneamente, il messaggio spedito e il mezzo attraverso cui è spedito. E’ uno dei più longevi movimenti artistici della storia. Per essere precisi, una rete amorfa di Mail art, composta da migliaia di partecipanti provenienti da oltre cinquanta paesi, si è evoluta dagli anni ’50 agli anni ’90 a partire dall’opera di Ray Johnson, a sua volta influenzato da gruppi precedenti, tra cui Dada e i contemporanei del gruppo Fluxus. Una caratteristica tipica della Mail art è quella dello scambio non commerciale; la Mail art degli inizi era, in parte, una cerchia esclusiva di gallerie d’arte ed eventi che prevedevano la presenza di una giuria. Un presupposto della Mail art è che "i mittenti ricevono", nel senso che non ci si deve aspettare di ricevere Mail art senza partecipare attivamente al movimento.
I mail-artisti solitamente si scambiano opere in forma di lettere illustrate, fanzine, timbri, buste decorate o illustrate, figurine d’artista (artist trading cards), cartoline, "francobolli d’artista" (artistamp), interviste postali e oggetti tridimensionali come – ad esempio – i 'Libri d'Artista' Artist-Book si veda Libro d'artista a Quiliano .
Oltre all’attività dei mail-artisti informali esiste nella storia un’ampia serie di esempi creativi spediti per posta. L’esempio più familiare sono le illustrazioni sulle buste con il timbro del primo giorno di emissione, che i filatelici chiamano buste "primo giorno" (first day cover), ma i mail-artisti si occupano di un altro tipo di "lettere decorate", insieme a una vasta gamma di altri procedimenti e supporti come i timbri e la creazione di "francobolli d’artista" (Artistamp). Tradizionalmente, ma non sempre, la Mail art si distingue dalla semplice "arte spedita", arte che non sfrutta il servizio postale, ma rimane semplicemente arte spedita per posta.
Cenni storici [modifica]
I mail-artisti dichiarano che la Mail art sia iniziata quando, nella leggenda, Cleopatra spedì sé stessa a Giulio Cesare arrotolata in un tappeto (anche se questa non sarebbe stata né posta né arte). Comunque, forse le origini della Mail art sono gli articoli di cancelleria postale ('stationery'), dai quali la Mail art è ora distinta (se non definita nel suo senso più lato). Il primo esempio di cancelleria postale sono state le illustrazioni create dall’artista inglese William Mulready (1786-1863) per la riproduzione di massa a mezzo stampa del primo stock di buste pre-affrancate prodotte per il lancio della Penny Post in Gran Bretagna nel 1840. La creazione di Mulready non fu ben accolta dal pubblico e vari disegnatori e artisti produssero delle versioni parodistiche. Comunque si capì che era disponibile una innovativa e potente comunicazione basata sull’elementare servizio postale, e nei successivi cinquanta anni milioni di buste illustrate con la più grande varietà di temi e motivi passò attraverso i servizi postali di tutto il mondo.
Come forma d’arte, il genere produsse inizialmente opere, sia nobili che volgari, che spaziavano dal comico e satirico alla pubblicità commerciale e industriale, passando per la divulgazione di cause sociali come il libero scambio, la pace nel mondo, la fraternità e l’abolizione della schiavitù. Esistono anche esempi di propaganda con temi patriottici prodotti da alcuni paesi.
L’utilizzo entusiastico delle illustrazioni sulle buste continuò fino alla seconda metà del XIX secolo, finché le amministrazioni postali di tutto il mondo cominciarono ad autorizzare l’uso di cartoline illustrate.
In un certo senso questo segnò l’inizio del declino delle buste illustrate. Produrre una cartolina con un’illustrazione sopra, che fosse riprodotta a mano o stampata, è più semplice che riprodurla su una busta. Una cartolina è piatta e solitamente rettangolare come una tela; una busta viene da un foglio inizialmente piatto che poi va tagliato e piegato. La difficoltà ulteriore nel produrre una serie di buste stampate, infine, sta nel fatto che sono necessari almeno due processi consecutivi, perciò, secondo un’economia di scala, si raggiunge l’efficienza economica soltanto in caso di grandi tirature.
Questa è stata la situazione prevalente fino all’avvento dell’elettronica digitale a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. La convergenza di questa tecnologia con la telefonia ha portato allo sviluppo di Internet nei primi anni ’90, così alla fine del XX secolo era sempre più comune trovare famiglie con un computer e una stampante. Utilizzando programmi opportuni la stampante poteva essere impiegata per personalizzare le buste postali, ognuna con testo e grafica diversi.
In principio questo significava che anche i meno esperti di grafica potevano utilizzare il mezzo delle buste illustrate e produrre opere classificabili come Mail art.
Alcune opere, se realizzate con l’aiuto di un computer, possono essere create secondo i canoni della distribuzione postale; altre possono impiegare il servizio postale per agevolare una collaborazione o un’attività di "arte per corrispondenza" tra artisti.
Quando tramite Internet ebbe origine il fenomeno della e-mail art, i mail-artisti convenzionali cominciarono a riferirsi al servizio postale internazionale come "rete cartacea". Quando un gruppo di artisti sono in qualche modo connessi tramite le proprie opere ci si riferisce a questi come una Rete di Arte postale (Mail Art Network).
Mail Art Network
Il concetto di Mail Art Network affonda le proprie radici nel lavoro di gruppi precedenti, tra cui gli artisti Fluxus e l’idea di "multipli" o opere d’arte prodotte in edizioni. Più comunemente, gli artisti del Mail Art Network producono e si scambiano cartoline, timbri e francobolli (Artistamp) autoprodotti, buste decorate o illustrate personalmente. Ma anche gli oggetti più grandi e difficili da trasportare sono stati spediti dagli artisti del Mail Art Network, per molti dei quali il messaggio e il mezzo sono sinonimi.
Fondamentalmente, la Mail art nel contesto del Mail Art Network è una forma di arte concettuale. È un movimento senza soci e senza leader.
L’Unione internazionale degli artisti postali (International Union of Mail Artists, IUOMA) è un gruppo di mail-artisti che attivi individualmente in molto paesi. IUOMA è stata fondata nel 1988 ed ora ha un proprio forum on line. Chiunque può chiedere di prenderne parte; così il gruppo è unito solo concettualmente.
Il vecchio server Prodigy aveva un grande gruppo di artisti che collaboravano in rete e tramite il servizio postale per creare e partecipare alla Mail art nel 1990. Molti esitavano a definirsi artisti, ma erano incoraggiati ed educati da Arto Posto (Dorothy Harris) una volta entrati nel gruppo. I mail-artisti sono stati tra i primi a percepire e sfruttare le possibilità di diffusione del World Wide Web quando apparse nel [[1992] portando la novità della grafica rispetto all’Internet precedente, basato principalmente sul testo. Ma allo stesso tempo, Internet non offriva niente di nuovo a questi artisti (non essendo certo possibile spedire oggetti tramite la rete). I mail-artisti, come i graffitisti, spesso lavorano anonimamente o collettivamente usando pseudonimi.
Anche le figurine d’artista (Artist Trading Cards o ATCs) possono essere spedite per posta e sono scambiante intensamente dai mail-artisti.
Mail art e ATCs sono attività simili, ma c’è una differenza sostanziale tra le due: ciò che è unico nel concetto delle ATCs è lo scambio, specificamente faccia a faccia. Durante le sessioni di scambio (Trading Sessions) le "carte prendono vita", prevedono un’attività sociale. Ciò che è comune è lo scambio senza il tramite del mondo dell’arte e senza il coinvolgimento del denaro.
Si ritiene che uno dei più grandi progetti di Mail art sia il progetto Brain Cell di Ryosuke Cohen, iniziato nel 1985. Fino al 2006 sono state create più di 600 edizioni, e ne vengono create di nuove ogni 8-10 giorni. Ma si veda anche il suo progetto di ritratti eseguiti incontrando personalmente i mail artisti Profili di Mail artisti.
Il progetto Memo(random)/Memo(ry) di Robin Crozier è iniziato nei primi anni ’80. L’archivio TAM Rubberstamp Archive di Ruud Janssen, in cui vengono documentati i timbri usati nel Mail Art Network, è iniziato nel 1983. Il progetto Fluxus Bucks di Ex Posto Facto (Garland, Texas USA), che prevede la produzione, la distribuzione e la circolazione di migliaia di "banconote Fluxus", è iniziato nel 1994.

Analisi storico-artistica della Trasfigurazione, l'ultimo capolavoro di Raffaello

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nel rivolgere uno sguardo prospettico all’intera attività pittorica di Raffaello Sanzio, la critica artistica si è costantemente interessata ai grandi capolavori compiuti del Maestro, analizzando in maniera più sommaria “La Trasfigurazione”, la sua ultima opera, mai terminata a causa della sua improvvisa morte, avvenuta nel 1520 con l’aggravarsi di una malattia. E’ così che un grande pittore del Rinascimento si spense nel nulla eterno, lasciando dietro di sé la lunga scia della sua intramontabile fama.
La Trasfigurazione, attualmente, è conservata all’interno della Pinacoteca Vaticana e gode di una buona esposizione in termini di visibilità al pubblico. Si tratta di una pala d’altare commissionata all’artista da Giulio de’ Medici, che in seguito diventerà papa Clemente VII, destinata originariamente alla Cattedrale di San Giusto a Narbonne, ma Vasari ci riferisce che fu collocata sul letto di morte di Raffaello. Dopo l’esposizione al suo capezzale, è noto che fu sistemata poi sull’altare maggiore di San Pietro in Montorio.
Per quanto concerne l’analisi iconografica dell’opera, a prima vista essa appare suddivisa in una duplice sezione, equivalente alla rappresentazione sovrapposta di due episodi evangelici distinti, riuniti all’interno di un unico quadro, in quanto legati dal punto di vista tematico. Non a caso, entrambi illustrano il racconto tratto dal Vangelo di Matteo. In particolare, l’emisfero superiore della pala mostra con un ampio accento luminoso la Trasfigurazione di Cristo, quindi il mutamento di Gesù circondato da un intenso alone di luce in una sorta di “sospensione” divina, suggerita dalla raffigurazione di una nube biancastra. Con la mano alzata, Cristo si eleva sul monte Tabor dinanzi ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni; ai suoi fianchi immancabile la presenza dei profeti Mosé ed Elia. Come recitano i Vangeli di Matteo e Marco, una voce da una nube, simbolo di Dio, disse di ascoltare Cristo perché era suo Figlio. I discepoli caddero, dunque, a terra impauriti, infatti nel dipinto sono prostrati a terra.
Differentemente, la sezione inferiore della pala d’altare celebra la liberazione di un ragazzo indemoniato: una volta sceso dal monte, il racconto evangelico narra che Cristo abbia guarito un fanciullo epilettico posseduto dal demonio. Raffaello, in questo caso, ha preferito rappresentare in modo dialettico l’episodio, raffigurando a sinistra gli Apostoli e a destra la famiglia dell’indemoniato che sembrano fronteggiarsi apertamente. Eloquente è l’intreccio dei gesti e degli sguardi, che creano un effetto dinamico e vivace all’intera opera, proponendo una varietà di stati d’animo in climax. In un momento precedente, i Vangeli di Matteo e Marco accennano al fallimento degli apostoli nel tentativo di guarire il giovane; infatti, solo dopo la Trasfigurazione di Cristo il fanciullo sarà guarito completamente. C’è da aggiungere, inoltre, che l’indemoniato è l’unico in grado di vedere la Trasfigurazione con l’occhio della mente. Giacomo è creduto erroneamente il salvatore dalla folla, per cui protende il braccio sinistro verso Cristo, ad indicare il vero salvatore. Dal canto suo, l’apostolo seduto in primo piano con le Sacre Scritture invita a riflettere su chi sia veramente il salvatore.
La seguente iconografia risulta particolarmente inconsueta per via dell’accostamento di due differenti episodi del Vangelo, un simile affiancamento non ha precedenti nella storia dell’arte italiana.
Alcuni critici vi hanno letto un messaggio politico antiluterano, nel senso di una lotta tra cattolicesimo (si vedano gli apostoli a sinistra, detentori della giusta fede, che indicano verso Cristo) e luteranesimo, simboleggiato dall’indemoniato e dai suoi familiari.
Interessante è la figura femminile di spalle, che inizialmente doveva essere la madre dell’indemoniato, ma successivamente Raffaello cambiò idea, come si evince da un pentimento dell’artista, che preferì sostituirla con la Maddalena, sorella di Lazzaro, in considerazione del fatto che le sue reliquie erano conservate nella cattedrale di Narbonne.
Anche il registro stilistico presenta una bipolarità, contestualmente alla bipartizione tematica dell’opera. Se la sezione superiore si attesta in un clima calmo e ovattato, dove regna sovrana la simmetria e la luminosità, definita da una luce bianca e centrale, al contrario, il registro inferiore assume un carattere concitato che evidenzia una enfatica gestualità, in un’atmosfera sostanzialmente scura. La scena della liberazione dell’indemoniato è, dunque, dominata da un naturalismo tragico accentuato da un’illuminazione proveniente da sinistra, la quale genera forti contrasti luministici con il risultato di esaltare il movimento dei personaggi, còlti in una grande varietà di stati d’animo.
Tra i caratteri stilistici del capolavoro raffaellesco in esame, figurano tonalità fredde ed effetti di cangiantismo, supportati dall’impianto verticale della tavola, dipinta ad olio.
Tra le molteplici divergenze della critica d’arte, si affermano due linee di pensiero. C’è chi ritiene, come il Vasari, che gli allievi non abbiano messo mano dopo la morte del maestro, mentre altri studiosi ritengono, invece, che piccole parti siano state eseguite dagli allievi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni. Una cosa è certa: la Trasfigurazione fu dipinta in competizione con Sebastiano del Piombo. Per di più, è individuabile l’influenza di Leonardo da Vinci, con un riferimento particolare all’Ultima Cena per l’effetto generale e all’Adorazione dei Magi per lo studio fisionomico del ragazzo indemoniato, per il colloquio degli sguardi ed il linguaggio gestuale.
Tra l’altro, non si può dimenticare che il dipinto ha subìto una lunga e complessa elaborazione, a testimoniarlo numerosi disegni preparatori. A tal proposito è stato rinvenuto un disegno di bottega di Raffaello raffigurante solo la Trasfigurazione; si suppone pertanto che l’episodio dell’indemoniato sia stato inserito in un secondo momento.
In conclusione, la pala d’altare finora esaminata, databile tra il 1518 e il 1520, presenta una gamma cromatica originaria, come ha dimostrato un recente intervento di restauro
di Sabrina Falzone

domenica 27 gennaio 2008

Nerval e il Surrealismo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Con la nascita del Surrealismo, un intero movimento letterario dedicò grande interesse, anzi quasi si fondò all’insegna dello studio dell’inconscio e del sogno.
All’epoca, un alienato mentale si trovava tutta la società contro, in quanto esponente della diversità e fonte di timore, il timore della disobbedienza ai canoni della ragione e delle regole sociali. I surrealisti, accostando il delirio al sogno, ne dichiaravano il valore e l’importanza e fecero diventare il malato una specie di eroe, l’abitante di una dimensione diversa, con una logica differente da quella comune. Oltre a ciò, gli scrittori surrealisti si cimentarono nella redazione dei loro «récit de rêve» che corrispondevano proprio al racconto obiettivo di quanto sognato durante la notte. Questo tipo di racconto fu ritenuto da essi un mezzo che permettesse di dare forma scritta a qualcosa che altrimenti sarebbe rimasto fluttuante nell’inconscio. I surrealisti furono anche i primi a liberare l’opera di Nerval dalla vincolante definizione di “romantica” ed anzi, considerarono l’autore come una sorta di precursore. Nerval aveva infatti già adoperato il termine “supernaturalista” nell’introduzione alle Filles du Feu, conferendogli un senso che si avvicinava parecchio allo spirito surrealista, tanto che Breton lo citerà nel suo Manifeste du Surréalisme.

Le teorie mediche di quel periodo accostavano la follia al sogno, nel senso che il folle non riusciva a separare i sogni dalla realtà circostante, per cui le fantasie notturne continuavano tranquillamente a vivere anche nella veglia. E lo stesso Nerval si accosta a queste teorie come mostra l’inizio stesso della sua opera: «Le rêve est une seconde vie». L’insieme degli episodi che compongono Aurélia, si propone come il lucido resoconto di un uomo “pazzo”, ma cosciente della sua follia, al punto di negarla, parlandone con se stesso e con un ipotetico lettore, reso partecipe di una vita altra. E poiché il lunatico, che ogni tanto guarisce dalla malattia del sognare anche di giorno, ha il privilegio di conoscere sia il mondo della ragione che quello dell’immaginario, unendo queste due componenti può tentare di raccontare quella discesa agli inferi che è il viaggio all’interno del sogno.

Con Aurélia, attraverso la descrizione dei sogni, ci si avvicina al complesso groviglio psichico di un autore che ha fatto uso della sua malattia, come spunto letterario e come mezzo per comprendere meglio se stesso. I sogni descritti in Aurélia, non sono semplicemente sogni, anche se strani, ma pur sempre frutto del lavoro onirico notturno e tutte le visioni non sono semplicemente la descrizione di quanto visto e vissuto durante le crisi di follia. In verità la parte preponderante è tutta della manipolazione letteraria, poiché Aurélia è innanzitutto un’opera letteraria.

A causa di tutti gli aspetti, estremamente complessi, inseriti nell’opera di Nerval, comprendenti elementi vari e anche contraddittori, oltre alle innumerevoli fonti letterarie (poeti medievali, scrittori del Rinascimento, poeti tedeschi, poeti romantici) le prime indagini critiche sui suoi scritti ne presentano una visione erronea dell’esistenza e delle idee. Partendo dalla biografia la sua morte da suicida era perfetta e più che fornire elementi e suggerimenti sulla sua opera, venivano forniti dettagli sulla sua vita e i suoi scritti erano identificati con la sua pazzia. Del resto il gossip è ben radicato nel dna umano e non c’è epoca che non lo conosca. In seguito, a partire dal primo Novecento, Nerval è stato presentato ora come il precursore della poesia moderna dei simbolisti, ora come un affiliato a sette esoteriche. Gli psicanalisti hanno trovato vasto materiale per le loro ricerche ed hanno proposto il loro punto di vista, insieme ai surrealisti come già accennato. Soltanto da qualche decennio la critica ha mutato radicalmente posizione nei confronti di questo scrittore, fornendo spunti per indagini e approfondimenti e non limitandosi ad un solo aspetto, ma abbracciando l’intera gamma di fonti e informazioni che il pensiero e l’opera di Nerval hanno prodotto.

La dissoluzione dell’opera d’arte da Pollock al Concettuale

Prof. ssa Francesca Morelli
RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Le premesse
Fin dagli inizi del ‘900, il mondo del sapere scientifico apre all’idea del ‘caos’, che configura un universo
deterministico e ordinato con forti propensioni al disordine e all’imprevedibilità. Nel secondo
dopoguerra, dopo l’Olocausto e la bomba di Horishima, molti intellettuali coltivano un umanesimo, in
cui i valori dell’essere sono come azzerati, quindi escludendo in qualche modo i concetti assoluti di
‘bene’, ‘vero’, ‘bello’. Esperienze filosofiche diverse hanno condotto nella stessa direzione, soltanto a
titolo d’esempio, la nozione heideggeriana di Dasein, elaborata alla fine degli anni ’20, ha già posto
l’accento sul fatto che l’“essere al mondo” dell’uomo, non significa essere parte di un tutto, ma mettersi
in gioco con una costante apertura a esso. In particolare la cultura estetica americana è segnata dal
pensiero di John Dewey (Experience and Nature, 1925), Art as Esperience (1934) che insiste sull’idea di
un’interazione dinamica tra gli organismi e l’ambiente, tra l’uomo e il mondo: la stessa esperienza
artistica è intesa come un attivo coinvolgimento negli aspetti qualitativi e formali del vivere sociale.
Queste correnti di pensiero concorrono a determinare lo sviluppo dell’arte americana in una direzione
in cui il rapporto tra “arte” e “vita” trova nuove vie d’espressione. Oltretutto, dopo il secondo conflitto
mondiale, il ruolo egemone svolto dagli Stati Uniti come maggiore potenza politica, economica e
culturale del mondo occidentale, porta l’arte americana a occupare un ruolo di primo piano nelle
ricerche d’avanguardia internazionali. E’ dagli anni ‘40 che l’arte americana inizia a mettere a frutto le
sue potenzialità, combinazione di una miscela esplosiva tra elementi eterogenei: il contatto diretto con
le avanguardie artistiche europee, la psicanalisi junghiana, l’interesse per il Buddismo Zen e altre
discipline orientali (taoismo), la volontà di dare una voce e un volto alla realtà americana. Nasce così
l’Espressionismo astratto, che trova il suo centro a New York, la più cosmopolita delle città americane.
Questa metropoli ha accolto numerose personalità della cultura artistica europea, in fuga dall’Europa
travolta dalle dittature e poi dalla Guerra. In particolare approdano artisti della Bauhaus, come Joseph
Albers, un grande astrattista come Piet Mondrian, e soprattutto i maggiori esponenti del movimento
surrealista: da André Breton a Max Ernst, da Salvador Dalì ad Andre Masson. Punto di contatto tra
questi e i giovani pittori americani, è la galleria Art of this century, aperta dalla intraprendente Peggy
Guggenheim, collezionista e mecenate dotata di notevoli mezzi finanziari. Molto efficace la sua opera
di sostegno e di stimolo alla ricerca, offerta al gruppo emergente dell’Espressionismo astratto, tra i
quali Jackson Pollock, Marc Rotko, Clifford Still, Roberth Motherwell, Arshile Gorky.
Per quanto concerne il tema del corso, ci interessa soprattutto il pittore Jackson Pollock (1912-1956),
che se da una parte conosce un successo straordinario, dall’altra è caratterizzato da una natura
psicologicamente instabile che lo porta a fare abuso di alcool, per cui vive la sua pittura come un
continuo delirio creativo. Questo inarrestabile processo di autodistruzione troverà il suo acme
nell’incidente stradale che pone fine alla sua vita ad appena 44 anni. La sua ricerca artistica muove dal
metodo della “scrittura automatica” surrealista, per passare all’interesse per i miti ancestrali della cultura
greco-romana e per quelli degli indiani d’America, fino a una passione per la psicanalisi junghiana.
Questa vede nelle leggende popolari, nei riti delle religioni antiche religione, nella filosofia orientale, ma
anche nella simbologia della disciplina alchemica, un minimo comune denominatore costituito dalle
immagini archetipe (mandala) originate della psiche umana e dai suoi processi inconsci., al di là di ogni
differenza di razza. Poiché la ricerca dell’espressionismo astratto è innanzitutto una ricerca di
liberazione delle energie interiori, un’evocazione pittorica degli antichi rituali magici, diviene essa stessa
una forma espressiva capace di portare in superficie istinti, fantasie, desideri, ma anche incubi relegati
nel profondo dell’essere. Intorno al 1947 Pollock arriva a maturare la tecnica del cosiddetto dripping
(sgocciolamento), mutuata dai sandpainting (pitture di sabbia) degli indiani Navajos. Il metodo di lavoro
adottato da Pollock è abbastanza semplice: distende a terra una tela, preferibilmente di dimensioni
molto grandi, quindi, tenendo in una mano un barattolo pieno di vernice e nell’altra un grande
pennello, inizia a sgocciolare la vernice sulla tela, camminando intorno ad essa, attraversandola, fino a
essere, dirà lo stesso artista, “letteralmente ‘dentro’ il quadro”. In questo modo il groviglio di segni che
appare sulla tela è il risultato dell’azione di tutto il corpo e il dipinto diventa un “campo”, senza più
centro e periferia, dove agiscono l’inconscio e le pulsioni vitali. Per meglio capire il modus operandi
adottato da Pollock ( e in seguito da certi performer), può essere interessante leggere quanto scrive
Jung, a proposito dell’”energia circolare” che governa un mandala: “ In completa armonia con la concezione
orientale, il simbolo del mandala, infatti, non è solo una forma espressiva, ma esercita anche un’azione agendo a ritroso
sul suo stesso autore. In questo simbolo si cela un effetto magico molto antico, che deriva originariamente dal ‘cerchio’
protettivo, dal ‘cerchio magico’, la cui magia si è conservata in infinite usanze popolari. L’immagine ha lo scopo evidente
di tracciare un sulcus primigenius, una magico solco intorno al centro, templum o temenos (recinto sacro) della
personalità più intima, per evitare la ‘dispersione’, o per tenere lontane apotropaicamente le distrazioni provocate dal
mondo esterno. Le pratiche magiche, infatti, altro non sono che proiezioni di avvenimenti psichici, le quali esercitano una
controinfluenza sulla psiche, agendo come una specie di incantesimo sulla propria personalità. Si tratta, in altri termini,
di recuperare, con l’appoggio e la mediazione di un’azione esteriore, la propria attenzione, o meglio della partecipazione a
un recinto sacro interiore, che è origine e meta dell’anima, e contiene quell’unità di coscienza e vita, un tempo posseduta,
quindi perduta, e che occorre ora ritrovare. (...)Il ‘recinto’ o circumambulatio è espresso (...) dall’idea di ‘circolazione’.
Essa non è un semplice movimento circolare, ma significa da un lato la delimitazione del recinto sacro, e dall’altro la
fissazione e concentrazione; la ruota comincia a girare, cioè il sole si mette in movimento e inizia il suo corso, in altre
parole il Tao [unità di coscienza e di vita n.d.r.] inizia ad agire e ad assumere la guida. L’agire si tramuta nel non-
agire, cioè tutto ciò che è periferico deve sottostare all’ordine del centro. Perciò si dice: “Movimento è solo un altro nome per
governo’. Dal punto di vista psicologico questa circolazione consisterebbe in un ‘girare in cerchio attorno a se stessi’, così da
coinvolgere tutti i lati della propria personalità. I poli della luce e dell’oscurità si pongono in movimento circolare’, nasce
cioè l’alternanza di giorno e notte. ‘Luminosità paradisiaca si alterna a orrida notte profonda’. Il movimento circolare ha
quindi anche il significato morale di animazione di tutte le forze chiare e oscure dell’umana natura, e di conseguenza di
tutti gli opposti psicologici, di qualsiasi natura possano essere. Questo non significa altro che, autoconoscenza mediante
un’incubazione di sé stessi.” (C.G Jung, Commento europeo, in Il segreto del fiore d’oro. Un libro di vita cinese, 1929)


Nello stesso periodo, anche in Italia troviamo un artista straordinario, che sviluppa in maniera
autonoma le sue riflessioni sulla necessità di una nuova arte lontano tanto dalla finzione della
rappresentazione quanto dall’astrattismo statico e razionalista della prima avanguardia. Si tratta di Lucio
Fontana (1899- 1968), nato in Argentina da genitori italiani, che negli anni ’30 con la sua forte capacità
di sperimentazione, ha raggiunto il successo come uno dei più dotati esponenti dell’astrattismo milanese.
Rigore progettuale e improvvisazione, assolutezza intellettuale del segno e piacere per la sensualità della
materia, sono già allora le sue qualità. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, torna in Argentina
dove nel 1946 stila il Manifesto blanco, il primo testo programmatico del Movimento Spaziale. In questo
testo programmatico Fontana riconosce il tentativo futurista di incorporare il movimento dinamico
nello spazio e nel tempo, ma indirettamente ne critica l’illusorietà, e invoca invece un’arte capace di
esprimere in modo sintetico l’unità del tempo e dello spazio contemporaneo, poiché “l’esistenza, la natura
e la materia sono una perfetta unità. Si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il cambiamento è la condizione essenziale
dell’esistenza. Il movimento, la proprietà di evolversi e di svilupparsi è la condizione base della materia. Questa esiste in
movimento e in nessun’altra maniera. Il suo sviluppo è eterno. ” Dunque, Fontana crede fermamente che le
conquiste del progresso scientifico e i mutamenti in atto nella vita sociale, si debbano riflettere nel
lavoro degli artisti: “Siamo entrati nell’era spaziale, l’uomo ha definito le distanze dei pianeti, l’uomo tende alla loro
conquista, l’uomo in questi ultimi anni con le invenzioni ha precipitato l’umanità all’impossibile- ebbene tutto questo ha
influito e influisce nello spirito creativo dell’artista, gli ismi hanno la ragione nel nostro tempo. L’arte non è una decadenza
ma sta penetrando nuovamente nella nuova evoluzione del mezzo per l’arte. La pietra, il bronzo inesorabilmente cedono
alle nuove tecniche, così come in architettura il cemento, il vetro, i metalli hanno portato un nuovo stile architettonico. La
materia è statica, l’intelligenza dell’uomo la definisce, la domina nel calcolo nell’arte e la colloca nell’umanità..” A
partire dal 1949, Fontana realizza i suoi Concetti spaziali bucando con un punteruolo la carta o la tela,
applica la sua “energia” a una superficie che da quel momento apre alla realtà sensibile: la luce, lo spazio,
l’ambiente entrano così a fare parte dell’opera che si presenta in maniera relativamente indeterminata.
L’opera diventa teatro di un “evento”, come succede anche per Pollock e per gli altri esponenti
dell’Action Painting. L’apertura dell’opera all’ambiente, trova una nuova via in Fontana con il suo
Ambiente spaziale a luce nera di Wood nel 1949, il papà di tutti gli esperimenti di arte ambientale: “Né
pittura, né scultura, arte immediata, suggestione libera e immediata dello spettatore in un ambiente creato da un artista,
preparazione a concetti di un’arte del futuro basata sull’evoluzione del mezzo nell’arte, luci, neon, televisione, radar.”
Altro “evento” altamente spettacolare è il “taglio”, al quale Fontana lavora dal 1964 al ’68, anno della
sua morte. Un taglio netto, pulito, assoluto, come una porta magica, che mette in comunicazione lo
spazio al di qua e al di là della superficie. Un ulteriore sviluppo di questo concetto si trova in una delle
ultime creazioni della sua inesauribile creatività, la Collana Anti-Sofia (1968), realizzato per l’editore di
gioielli milanese Giancarlo Montebello. La collana, in argento lucidato, formata da un sottile girocollo
e da un lungo pendaglio è pensata per una donna non più dalle forme prosperose come le maggiorate
degli anni ‘50 ( per esempio Sofia Loren), ma per una donna “grissino”, dinamica ed emancipata.
Fontana è consapevole dei profondi cambiamenti in atto nella società italiana degli anni ‘60, in cui
l’elemento più dinamico è certamente la donna. La lunga bacchetta della collana fende come un
“taglio” di luce il corpo della donna che la indossa, disponendosi tra i due seni fino a lambire
l’ombelico. Naturalmente il monile va pensato su un corpo in movimento, magari durante una scatenata

mercoledì 23 gennaio 2008

Antica città di Argo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Attualmente, sull'antica città di Argo è sorto il centro moderno, dallo stile orientalizzante e di non particolare interesse estetico; il clima, invece, è rimasto quello dell'antichità, arido, caldo, con l'aria carica di polvere, tanto da giustificare pienamente l'appellativo omerico di «Argo sitibonda» (Iliade, IV, 171), con cui il poeta la definí per bocca di Agamennone. Al contrario, quando, nel II secolo d.C., Pausania percorreva l'Argolide alla ricerca delle antiche glorie dell'Ellade, ancora leggibili nelle sue «superbe ruine», sopravvissute all'opera del tempo e alle spoliazioni degli eserciti conquistatori, Argo, la città di Diomede, era tuttora un centro importante, tanto ricco di memorie mitiche, storiche, letterarie e artistiche da indurre l'attento periegeta a dedicarle un'ampia descrizione (Periegesis, II, 17-24) fitta di notizie sui piú vari argomenti. Allora, il percorso piú agevole per giungere ad Argo era (ed è tutt'oggi) una strada di quindici stadi (attualmente, quindici chilometri) che partiva da Micene. Ogni pietra di questo cammino rappresentava una testimonianza famosa; all'inizio, sul lato destro della strada, si trovava la «tomba» con annesso santuario, di Perseo, l'eroe discendente dai piú antichi re di Argo, figlio di Zeus e di Danae, uccisore della Gorgone Medusa. Sono sufficienti queste poche parole per richiamare alla nostra mente le fosche vicende della stirpe dei Tantalidi, da cui discendevano sia Tieste che Atreo (padre, quest'ultimo, di Agamennone e Menelao), eternate nell'Olimpica I di Pindaro, nell'Orestea di Eschilo, ma anche nei cupi drammi latini di Accio e di Seneca, per non citare che gli esempi maggiori. Poco lontano da queste reliquie sorgeva l'Heraion, il santuario di Hera, costruito lungo un fiume chiamato «acqua della libertà», a cui si attingeva per le cerimonie di purificazione del tempio. Argo era infatti un antichissimo centro del culto di Hera e una delle città piú amate dalla dea, tanto che ella si gloriava dell'appellativo di «Argiva»; il tempio ricordato da Pausania era quello costruito nel V secolo a.C. dall'architetto Eupolemo, sulle vestigia di un edificio risalente all'VIII-VII secolo a.C., distrutto in un incendio nel 432 a.C., poiché la custode del tempio, la sacerdotessa Criseide, vinta dal sonno, aveva lasciato cadere una lampada accesa. Il campo di scavi tuttora aperto in questa zona, come quelli attivi nei pressi dell'agorà e del teatro, rappresenta attualmente il luogo di maggior interesse archeologico della città. Tuttavia, lo stesso luogo, prima ancora della costruzione del santuario risalente all'VIII secolo, era già sacro culto di Hera; secondo la tradizione, i condottieri achei si riunirono qui per prestare giuramento di fedeltà ad Agamennone, prima di partire per l'impresa troiana. Non lontano dall'Heraion Pausania ebbe modo di vedere le testimonianze di un'altra importante impresa di guerra: la statua di Polinice e quelle degli altri condottieri argivi, immortalati da Eschilo nel suo "dramma pieno di Ares": i Sette a Tebe. Ciò forni al nostro autore lo spunto per un'interessante precisazione, che evidenzia quale autorità esercitassero i poeti tragici sulla cultura del loro tempo. Nello stesso luogo erano visibili anche le statue di Diomede e del suo auriga Stenelo; non lontano era stato innalzato un cenotafio in onore dei guerrieri argivi caduti in battaglia sotto le mura di Troia o periti duranti viaggio di ritorno. La presenza di questi monumenti dimostrava l'importanza del ruolo degli Argivi nella spedizione panachea e, in particolare, richiamava l'attenzione del viaggiatore sulla gloria di Diomede, protagonista assoluto del V libro dell'Iliade, e sulle difficoltà incontrate da lui e dagli altri eroi nel tornare in patria, scritte in uno dei poemi del ciclo troiano, i «Ritorni». Nella descrizione di Argo, Pausania non mancò di citare alcune importanti sculture, illustri per bellezza o per antichità, alcune delle quali opera di grandi artisti, ancora intatte e ammirate al suo tempo. Fra le piú insigni, egli ricorda il simulacro criselefantino di Hera, scolpito da Policleto (seconda metà del V secolo a.C.; ma non si è certi che questo artista possa essere identificato con il suo omonimo, autore del celebre Doriforo). Allo stesso scultore era attribuita la statua di Zeus «benevolo», realizzata in marmo bianco; l'immagine in bronzo di Zeus Nemeo, che si trovava nel tempio a lui dedicato, era opera di Lisippo, il ritrattista ufficiale di Alessandro il Macedone (seconda metà del IV secolo a.C.). Anche l'ateniese Prassitele, attivo nella prima metà del IV secolo a.C., aveva lasciato ad Argo una testimonianza del suo genio, scolpendo una statua di Latona, madre di Apollo e di Artemide. Fra le immagini divine piú antiche, venerabili per la loro stessa vetustà, Pausania ricorda due arcaici simulacri scolpiti in legno; essi raffiguravano rispettivamente Dioniso e Zeus ed erano entrambi ricollegabili a vicende del ciclo troiano. Il primo era stato trovato in una caverna presso il promontorio Cafereo, dove gli Argivi reduci da Troia erano stati assaliti da una violenta tempesta (Periegesis, II, 23, 1). Sul punto di fare naufragio, essi invocarono l'aiuto di una qualunque divinità; raggiunta fortunosamente la terra, affamati e infreddoliti, trovarono riparo in una spelonca, in cui si innalzava l'immagine del dio. Poiché anche alcune capre selvatiche si erano rifugiate nella grotta, gli Argivi poterono nutrirsi delle loro carni; perciò, convinti di dovere la vita all'intervento di Dioniso, ne trasportarono il simulacro in Argo, dove al tempo di Pausania era ancora oggetto di grande venerazione. L'altro simulacro, che raffigurava una singolare immagine di Zeus con tre occhi, due al loro posto naturale e uno in mezzo alla fronte, proveniva addirittura dalla reggia di Priamo. Al momento della spartizione delle spoglie di guerra, dopo la distruzione di Troia, essa toccò a Stenelo, l'auriga di Diomede, che la portò in patria, ponendola come dono votivo nel tempio di Zeus che sorgeva sull'acropoli di Argo. Secondo Pausania, i tre occhi avrebbero indicato il triplice dominio del dio, sul cielo, sul

lunedì 21 gennaio 2008

"Mark Tobey" La natura e la composizione del mondo spirituale.


RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Ad eccezione forse dei fondatori delle grandi religioni mondiali, nessuno su questo pianeta terra
può dire di comprendere pienamente la natura e la composizione del mondo spirituale. Questo non
ha però impedito alla gente di cercare di comunicare la propria visione di ciò.
Tali tentativi si trovano nei vetri colorati delle grandi cattedrali d’Europa, nella complessa filigrana
dei tappeti di preghiera persiani o nei toni meditativi dei canti buddisti – per menzionare alcune
delle umili espressioni della realtà spirituale attraverso la storia.
Quale è l’equivalente moderno? Dove possiamo trovare l’espressione di una nuova visione
spirituale – una capace di ispirare profondi sentimenti – nella nostra età moderna, tecnologica e
secolare? Vi è qualcuno che ha catturato il clima contemporaneo di un incrocio di culture,
interdipendenza e unità che certamente caratterizza oggi la più alta espressione di valori spirituali?
Vi sono certamente molti artisti, musicisti ed architetti che stanno cercando di realizzare questa
visione. Un individuo il cui lavoro potrebbe essere sicuramente un punto di partenza in tale
contesto, è il pittore Americano Mark Tobey.

Tobey - nato nel Wisconsin, USA, nel 1890 e trapassato in Svizzera nel 1976 ha visto negli ultimi
anni crescere il suo riconoscimento, apprezzamento che ha forse raggiunto il suo punto più alto
nella esibizione retrospettiva nel prestigioso Museo Nacional Centro de Arte Sofia dal Novembre
1997 al 12 Gennaio 1998.

L’esibizione ha visto esposte circa 130 opere provenienti da 56 diverse collezioni che hanno
coperto il periodo 1924 – 1975, virtualmente l’intera produzione della vita produttiva di Mark
Tobey. La mostra ha visto esposti lavori all’olio, acquarello, carbone e tempera ed ha cercato con le
parole del catalogo di esplorare il complesso mondo pittorico di Mark Tobey, ma ha anche di
catturare e trasmettere il profondo emozionante e, dobbiamo aggiungere, “spirituale” contenuto
della sua visione.
Tobey è naturalmente famoso per la produzione della così detta “scrittura bianca” – una
sovrapposizione di simboli calligrafici bianchi o leggermente colorati su un piano astratto che è a
sua volta composto da migliaia colpi di pennello incrociati. Questa tecnica, a sua volta, ha dato
origine al tipo di pittura “All over” resa famosa da Jackson Pollock, un altro pittore Americano a cui
viene spesso paragonato Mark Tobey. (Un saggio di Jydith S. Kays, pubblicato nel catalogo della
mostra stabilisce con un certo grado di certezza che Pollock conosceva la pittura di Tobey ed è stato
probabilmente influenzato prima che Pollock stesso cominciò a operare nello stile ‘All-Over’,
qualcosa che precedentemente gli storici dell’arte avevano trascurato.)
La mostra di Madrid ha mostrato molti esempi dei due stili da Broadway Norm (1935) agli ultimi
lavori quali White Writing (1951), Shadow Spirits of the Forest (1961) e River Fof (1970)
Un esame dettagliato dei lavori mostrati a Madrid ci dicono anche molto sul tentativo di Mark
Tobey di esprimere la sua visione della realtà spirituale. In superficie, questa intenzione può essere
semplicemente compresa dai titoli di molte delle sue opere: Meditative Series I (1954); Fragments
in Time and Space (1956); Prophetic Nights (1956); Misterious Light (1958); Prophetic Light Dawn
(1958).
Anche dove i titoli non indicano un tema specificatamente spirituale, la luminosità, la complessità e
la natura eterea dei quadri stessi si combinano per portare lo spettatore in un luogo totalmente
differente.
Prendiamo ad esempio, New Crescent (1953). A prima vista, questa pittura a tempera - fatta
predominentemente in Giallo-verdi e bianco su uno sfondo scuro - sembra essere una astrazione
piuttosto piatta e monotona nello stile ‘All-Over’. Nonostante ciò, un attento studio mette in
evidenza che il lavoro è fatto a strati successivi con molte aree dai lembi radianti e profondità
luminosa. Potrebbe essere meglio descritto come scintillio con i colori del chiaro di luna. Dopo un
po’ gli spettatori possono essere trascinati dentro un'altra dimensione.
Al di là di questi elementi di spiritualità mistica o tradizionale vi è anche un modo nel quale i titoli e
i quadri stessi operano in concerto per esprimere nuove idee spirituali per quest’epoca.
Prendiamo ad esempio Red Man, White Man, Black Man (1945) che, date le credenze religiose di
Tobey, deve essere sicuramente compreso come una espressione dell’unità del genere umano. Quasi
interamente astratto con i lineamenti calligrafici di ‘scrittura bianca’. Sembra creare una maglia di
interconnessione che unisce impercettibilmente figure umane che popolano alcune regioni della
tela.
Considerando quattro quadri presentati nella mostra estratti dalla serie ‘Above the Earth’, realizzati
fra il 1953 e il 1956 che rappresentano una porzione di un circolo in cielo (presumibilmente la
Terra), essi sembrano antesignani delle famose fotografie che sarebbero state scattate un decennio
più tardi dagli astronauti, che fanno vedere la Terra in tutta la sua unità.
Tali temi sono Bahá'í e sappiamo che Tobey era, sin dalla data dell’accettazione della Fede nel 1918
un suo attivo membro sino alla sua morte. Storici e critici d’arte di varia origine sono concordi che
Tobey fosse enormemente influenzato dalla sua credenza religiosa e che egli cercava di esprimere
alcuni suoi elementi nella sua pittura.
“Il pensiero Bahá'í ha influenzato Tobey con principi estetici, sociali e religiosi” ha scritto William
C. Seituz, Amministratore delle Mostre di Pittura e Scultura del Museo di Arte Moderna di New
York quando nel 1962/3 furono esposti i lavori di Tobey. “Egli ha spesso dichiarato che non può
essere frattura tra natura, arte, scienza, religione e vita personale...poche religioni...hanno dato a
questo concetto dell’unità una tale appuntita enfasi e pochi artisti moderni hanno trattato ciò così
esplicitamente come ha fatto Tobey.”
Il significato della sua Fede in relazione all’arte è qualcosa che lo stesso Tobey ha riconosciuto in
molte occasioni. Egli scrisse nel 1934: “La radice di tutte le religioni dal punto di vista Bahá'í è
basata sulla teoria che l’uomo arriverà gradualmente a comprendere l’unità del mondo e l’unità del
genere umano. Essa insegna che tutti i profeti sono essenzialmente uno - che la scienza e la
religione sono le due grandi forze che debbono essere in equilibrio se l’uomo deve essere maturo. Io
sento che il mio lavoro è stato influenzato da questi credo. Io ho cercato di decentralizzare, di
compenetrare in modo che alcune parti della mia pittura esprimessero dei valori ...Miei, sono,
l’Oriente, l’Occidente, scienza, religione, città, spazio e scrivere un quadro.”

Nella sua vita, Tobey ha vissuto come un cittadino del mondo, rifuggendo ogni nozione che egli
fosse un pittore “Americano”. Egli ha speso la sua gioventù nel Midwest Americano e poi ha
iniziato a lavorare in modo intermittente a New York nel 1913. Nel 1923 si spostò a Seattle
nell’America del Nord Ovest. Negli anni 20 fece numerosi viaggi in Europa e nel Medio Oriente ed
ha vissuto per un pò di tempo in Inghilterra. Nel 1934 andò in Cina e Giappone dove rimase per
molti mesi in un monastero Zen vicino a Kyoto. Dopo la seconda guerra mondiale continuò a vivere
e lavorare a Seattle ma nel 1960 si spostò a Basilea in Svizzera.
Kosme de Baravano uno dei curatori della mostra lo caratterizza in questo modo: “Migrando da
continente a continente come un infaticabile volatile in cerca di stagioni propizie gettando il suo
sguardo su tutte le culture, Mark Tobey fu uno dei pochi artisti del 20° secolo che era veramente
cosmopolita ed in realtà all’avanguardia. Oltre ad essere un pioniere dell’astrazione Americana egli
era uno studioso di calligrafia Orientale e tempera Rinascimentale.
Ferran Roca Bon un pittore contemporaneo di Barcellona che è pure Bahá'í ha parlato recentemente
di Tobey durante una intervista. “Egli era una persona molto sensibile, autodidatta, cosmopolita,
spirituale. Si era aperto alla spiritualità e scoprì la sensibilità e raffinatezza dell’Oriente e grazie alla
Fede Bahá'í egli scoprì la magia della “calligrafia”.
Il Sig. Roca Bon ha detto di credere che in realtà la ‘Scrittura Bianca’ di Tobey si era ispirata allo
stile calligrafico Arabo che è evidente nelle Lettere e Tavole originali di Bahá’u’lláh il fondatore
della Fede Bahá'í la cui proficua rivelazione era stata spesso trascritta rapidamente da segretari
speciali, creando qualcosa come una composizione ‘All-Over’ nella sua forma iniziale.
“Molti artisti hanno usato tale “pittografia” per esprimere se stessi – Mirò, Klee o altri. Tobey però,
ebbe quel vantaggio unico di conoscere il valore mistico della ‘Calligrafia’. Mark Tobey era
conscio che va creando arte mistica.”
Tobey ha avuto il riconoscimento internazionale per il suo lavoro, alla fine della sua vita. Egli
divenne il primo Americano, dopo James Abbot Whistler (1834 – 1903), a vincere il “Painting
Prize” alla Biennale di Venezia, nel 1959. Nel 1961 tenne una mostra retrospettiva al Louvre di
Parigi, un tributo straordinario al lavoro di un artista vivente. Queste pietre miliari sono state seguite
da una grande personale nel Museo di Arte Moderna di New York nel 1974 ed un'altra mostra alla
‘Collezione Nazionale di arti pregiate a Washington’ che fa parte del Smithsonian Institution.
Critici e storici dell’arte negli Stati Uniti sono stati per molto tempo incerti di come classificare
Mark Tobey. Molti diedero il maggior credito a Pollok per la creazione dello stile ‘All-Over’. Altri
hanno suggerito che l’Internazionalismo di Tobey ed anche la sua Religione lo tennero lontano dai
circoli delle correnti artistiche contemporanee.
Possiamo augurarci che l’esibizione di Madrid ed il suo Rilevante catalogo renderanno giustizia a
questo idea di sott’apprezzamento. Certamente essa ha rivelato che Tobey, mentre sfidava la
categoria, deve essere considerato come uno degli artisti più innovativi e più autorevoli del 20°
secolo.
Di Brad Pokorny