venerdì 30 novembre 2007

Nascita del concetto di arte moderna

A cura di arch. Vilma Torselli

L'arte come mezzo per esprimere non più la bellezza assoluta, ma l'emozione interiore, il disagio, l'angoscia

Storicamente e culturalmente l'arte moderna prende le mosse dal Romanticismo, primo grande movimento culturale a prendere coscienza del fatto che l'epicentro dell'interesse dell'uomo si sta sempre più identificando nell'uomo stesso ed allontanando sempre più dal sovraumano, dal trascendente che da sempre è stato per l'uomo la fonte di tutte le sue certezze .
Questa presa di coscienza non è certo indolore, è fonte di sofferenza e di una crisi generalizzata di carattere spirituale che investe e ribalta i vigenti concetti di arte, di bello, di reale, innescando una trasformazione profonda con la quale l'arte diventa l'ambito nel quale si esprime il sentimento, l'emozione, l'interiorità, in una parola il soggettivo dell'artista.

Nasce il concetto di arte moderna come attività non più finalizzata ad esprimere la bellezza trascendente ed assoluta, ma il sentimento, l'emozione, la percezione individuale di una bellezza che varia da artista ad artista, è indefinita, fuori dai canoni, svincolata dal reale, contaminata dal sentimento dell'angoscia individuale, del disagio esistenziale, della disperazione.
Nella filosofia hegeliana è di particolare importanza la fondamentale distinzione posta tra arte classica (oggettiva) ed arte romantica (soggettiva), distinzione che in pratica identifica il carattere peculiare dell'arte romantica, e quindi dell'arte moderna, proprio nella sua soggettività: e infatti in tutta l'arte moderna si ritrova quel contrasto di fondo tra rivoluzione e conservazione che agita il romanticismo, quelle angosce, incertezze, contraddizioni che contraddistinguono non solo il mondo dell'arte ma anche la filosofia, la scienza, la cultura globale di questo ultimo secolo.
Partendo da tali premesse, l'arte moderna, come espressione esasperata della crisi e della perdita del concetto di ordine trascendente ed oggettivo, arriva a negare la possibilità stessa della rappresentazione del mondo in termini estetici, secondo i tradizionali concetti del bello e del vero, operando una definitiva rottura con il passato e la tradizione.

Nascono così le avanguardie artistiche del '900, in rivolta verso il passato, con atteggiamento velleitario, eroico e talvolta autodistruttivo, espressione di un'insofferenza profonda verso gli aspetti deteriori della modernità, ma anche verso le pastoie di un passato immobilista.
L'arte degli avanguardisti non vuole più testimoniare il bello, ma, attraverso la poetica del primo movimento avanguardista, l'Espressionismo, propone una rappresentazione distorta, non conforme, "brutta" della realtà, decade la necessità dell'aderenza alla forma, che viene compressa e deformata, ed al colore, che diventa pura espressione di uno stato d'animo.
Le avanguardie del '900, fino ad arrivare all'Astrattismo, si confrontano in qualche modo con il mondo reale, per quanto in posizione fortemente critica, negativa e distruttiva, ma dopo di esse, fino ad arrivare ai nostri giorni, l'arte va sempre più verso la negazione di sé stessa, verso l'assurdo e l'informale, fino ad arrivare, ad esempio, all'action painting di Jackson Pollock, nel quale trionfa una indifferenza totale nei riguardi del contenuto dell'opera d'arte, tutta esaurita nell'atto creativo, mezzo e fine, concluso in sé.
Atteggiamento analogo troviamo nel movimento New Dada, che diventerà Pop Art, nel quale l'opera d'arte non viene più concepita e costruita dall'artista, che si limita a riprodurre stereotipi della realtà quotidiana, riciclando indiscriminatamente il materiale industriale, commerciale e d'uso comune.

A partire dai movimenti avanguardisti a contenuto polemico e distruttivo, quale per esempio il movimento Dada, fino ad arrivare ai giorni nostri, si assiste quindi ad un graduale processo di negazione della possibilità stessa di fare arte, risolvendo alternativamente il processo creativo o in una rappresentazione dell'assurdo o in una stereotipata riproposizione del classicismo sfociante nel postmoderno.
Come osserva Gombrich nella sua acuta analisi dell'arte moderna, la creatività artistica rischia di trasformarsi in una sterile sperimentazione fine a sè stessa, in estemporanea invenzione, in vuota espressione priva di ogni riferimento, segni, tutti questi, ancora una volta, di una crisi generalizzata non solo al mondo dell'arte: è, questo, un atteggiamento tanto più sconcertante proprio ora che si va assottigliando il confine tra arte e scienza e si va affermando il concetto secondo il quale i canoni della bellezza, fino ad ieri confinati al mondo dell'arte, non sono puramente soggettivi, ma speculari dell'armonia intrinseca delle leggi matematiche, delle forme, dei colori generati dalla luce, della successione dei suoni, in relazione con una realtà al di là dell'esperienza soggettiva.
Vedremo se l'arte, come spesso accaduto in passato, sarà in grado di tentare una fuga in avanti, trovando e proponedo a noi tutti nuovi significati alla nostra vita.

giovedì 29 novembre 2007

" Andre Breton," Il surrealismo:

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI


Nell’autunno del 1924, con la pubblicazione del manifesto scritto integralmente da Andre Breton, nasce il surrealismo: un progetto corale - per le forme e per gli effetti - ma quasi completamente ascrivibi - le - per la teorizzazione - allo stesso Brelon al quale si deve comunque riconoscere anche uno spessore artistico autonomo all'interno del movimento surrealista.
Breton nasce in provincia, a Tinchebray-sur-Orne, una cittadina della Bretagna, nel 1896 (lo stesso anno di Tzara, Artaud e Masson). Appartiene a una famiglia della piccola borghesia, viene allevato dal nonno materno a Pantin, ma frequenta a Parigi il College Chaptal. Portato per gli studi umanistici, è attratto sia dalla poesia moderna (ha scoperto presto i poeti simbolisti e ama in particolare Huysmans) che dalla filosofia, condivide per esempio l'impostazione dialettica del pensiero di Hegel (andando già controcorrente rispetto al pensiero positivista dominante). Preferisce comunque iscriversi a Medicina ma, nonostante questa scelta scientifica, comincia a scrivere poesie. La sua vocazione poetica lo orienta subito verso il simbolismo, anche in campo figurativo: nel 1912 la visita al museo Moreau lo colpisce molto. Nel 1914 riesce a incontrare Paul Valéry, con cui resterà in contatto per diversi anni, e anche a pubblicare i suoi primi poemi, di stampo ancora mallarmciano, sulla rivista "La Phalange", diretta da Jean Rovere. Nell'agosto di quello stesso anno scoppia la guerra e Breton viene richiamato in artiglieria. Anarchico e antimilitarista, riesce a farsi trasferire dal fronte e, dal 1915, presta servizio nel centro neurologico di Nantes, dove conosce sia il dottor Banniot, genero di Mallarmé, che gli fa leggere la versione manoscritta di Igitur, sia Jacques Vaché, ricoverato in quell'ospedale per ima ferita a una gamba, che gli fa conoscere lo humour "nero" di Jarry e Roussel e lo invita a leggere sia Lautréamont che Rimbaud, scoperte tardive che permettono a Breton di rinnovare completamente la sua "ispirazione". Nel 1916, durante una licenza a Parigi, ha la fortuna di incontrare Apollinaire con cui o in corrispondenza da diversi mesi. Durante la guerra legge le opere di Freud che conoscerà personalmente nell'ottobre del 1921 a Vienna (sarà un amore a senso unico: Freud non apprezzerà mai l'arte dei surrealisti essendo, rispetto all'arte del suo tempo, di gusti un po' "rétro". M-a del resto neanche Karl Marx era un rivoluzionario in campo artistico...) e comincia ad applicare la teoria psicanalitica sia sui feriti che cura, sìa nella scrittura. Infatti nel 1919, mentre viene pubblicata la sua prima raccolta di liriche {Mont de piété), insieme a Soupault sperimenta la psicanalisi in poesia e inventa la scrittura automatica. Dopo la fondazione di "Littéralure" e la successiva fusione con il gruppo dei dadaisti in un unico progetto estetico che metta in crisi il sistema sociale vigente, Breton rimette in discussione tutta la sua vita interrompendo gli studi medici e allontanandosi dalla famiglia. In questo periodo, assieme ad Aragon, si mantiene lavorando presso la famosa sartoria dì Jacques Doucet dalla quale verrà licenziato in occasione della pubblicazione di un polemico libello sulla morte di Anatole France {Un cadavré). Tra il 1920 e il 1924 Breton rafforza la sua "Bildung" fìlosofìca e politica e diviene l'ideologo di un gruppo di "sognatori": in questi anni, infatti, i maggiori stimoli creativi sono ottenuti dai futuri surrealisti proprio approfondendo lo stato di sogno, sia a occhi chiusi che a occhi aperti. 1 sogni vengono raccontati, discussi e trascritti e diventano opere, come lo stesso Breton racconterà in Nadja, pubblicato nel 1928. Ci si chiede se sia possibile trascrivere pittoricamente l'inconscio. Breton riconosce il tentativo nella pittura di Duchamp, de Chirico e Picasso: saranno questi i suoi tré punti dì riferimento pittorici moderni, fondamentali per la genesi del surrealismo. Nel 1923 pubblica Clair de terre e l'anno successivo Poisson solubif. le fondamenta del surrealismo sono state gettate.

Jung, la pittura moderna come simbolo

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI
I termini “arte moderna” e “pittura moderna” vengono impiegati, in questo capitolo, nello stesso senso in cui li usa il profano. Oggetto del nostro esame sarà, per usare la terminologia di Kühn, la moderna pittura immaginativa. I quadri che rientrano nell'ambito di questa possono essere “astratti” (o, piuttosto, “non-figurativi”), ma non lo sono necessariamente. Non faremo alcuna distinzione fra le varie correnti, quali il cubismo, il fauvismo, l'espressionismo, il futurismo, il suprematismo, il costruttivismo, l'orfismo, e così via. Qualsiasi specifica allusione all'una o all'altra di tali correnti avrà carattere assolutamente eccezionale. Né azzarderò una differenziazione estetica delle moderne scuole pittoriche; e, soprattutto, non mi permetterò valutazioni di ordine artistico. La moderna pittura immaginativa verrà considerata esclusivamente come un fenomeno tipico del nostro tempo. Questo è il solo metodo per impostare e risolvere il problema del suo contenuto simbolico. In questo breve capitolo sarà possibile fare menzione soltanto di pochissimi artisti, e di un numero esiguo delle loro opere, scelte, per lo più, a caso. Ci dovremo dunque accontentare di esaminare l'arte moderna, prendendo in considerazione solo qualche artista, o qualche singola opera d'arte. Possiamo incominciare sottolineando il fatto, di ordine psicologico, che l'artista è stato, in ogni tempo, lo strumento rivelatore dello spirito della propria epoca. Solo in parte è possibile interpretare e comprendere la sua opera nei termini della sua psicologia individuale. Consciamente o inconsciamente, l'artista dà forma ai caratteri e ai valori tipici del suo tempo, e resta, a sua volta, condizionato e formato da questi. Lo stesso artista moderno, del resto, si rende spesso conto dell'interrelazione fra la propria opera e il proprio tempo. Così, il critico e pittore francese Jean Bazaine scrive nel suo libro Note sulla pittura contemporanea: «Nessuno può dipingere come vuole. Tutto ciò che un pittore può fare, è di voler perseguire, con tutte le sue forze, quel tipo di pittura di cui la sua epoca è capace». L'artista tedesco Franz Marc, morto nella prima guerra mondiale, disse: «I grandi artisti non vanno a ricercare le loro forme nella nebbia del passato, ma accolgono le risonanze più profonde del vivo e reale centro di gravità della loro epoca». E, solo nel 1911, Kandinskij scriveva nel suo famoso saggio Sullo spirituale nell'arte: «In ogni epoca esiste una certa misura di libertà artistica, e anche il genio più creativo non può superare i limiti di quella libertà». Nel corso degli ultimi cinquant'anni l'“arte moderna” ha dato occasione a una contesa generale, e la discussione continua ancora con tutto il suo calore. I “sì” sono altrettanto convinti e appassionati che i “no”; e, tuttavia, la profezia, più volte ripetuta, che l'arte “moderna” è finita, non si è mai avverata. I nuovi metodi espressivi hanno trionfato decisivamente. L'unico pericolo che li minaccia è costituito soltanto dalla possibilità della loro degenerazione in manierismo. (Nell'Unione Sovietica, dove l'arte non-figurativa è stata spesso ufficialmente proibita, e viene seguita solo privatamente, l'arte figurativa è minacciata da una simile degenerazione). La generalità del pubblico, quanto meno in Europa, si trova ancora in piena battaglia. La violenza della controversia dimostra che gli animi sono eccitati da una parte e dall'altra. Anche chi si mostra ostile all'arte moderna, non può fare a meno di restare impressionato dalle opere che condanna; resterà irritato, proverà della repulsione, ma (come prova la violenza dei suoi sentimenti) verrà, in ogni caso, anche scosso. Di regola, il fascino di ordine negativo non è meno forte di quello positivo. La folla dei visitatori che si accalcano alle mostre di arte moderna, dovunque queste siano tenute, testimonia di un atteggiamento che non si limita alla semplice curiosità. La curiosità si esaurirebbe presto. Del resto, i prezzi fantastici pagati per certe opere d'arte moderna danno la misura precisa della valutazione sociale di esse. Il fascino sorge quando l'inconscio resta colpito. L'effetto che produce l'arte moderna non può spiegarsi soltanto nei termini dei valori formali coinvolti. Per l'occhio educato alla scuola tradizionale dell'arte “classica”, o “sensitiva”, quei valori si rivelano come nuovi ed estranei. Non c'è assolutamente niente, nella pittura non-figurativa, che valga a richiamare allo spettatore il suo mondo abituale — non oggetti immessi nel loro ambiente normale, né figure umane, o animali, che parlino un linguaggio familiare. Il cosmo creato dall'artista non rivela nessuna condiscendenza, nessuna visibile corrispondenza. E tuttavia, senza ombra di dubbio, scocca un contatto umano, che può essere anche più intenso che non nel caso dell'arte sensitiva, la quale fa appello diretto alla corrispondenza sentimentale. Scopo dell'artista moderno è di esprimere le proprie visioni interiori, di individuare il fondo spirituale della vita. La moderna opera d'arte ha abbandonato non soltanto il piano delle cose concrete, “naturali”, sensitive, ma anche il piano dell'individuale. Ha assunto carattere collettivo, e pertanto (anche nella compendiosità del geroglifico pittorico) tocca e interessa non pochi prescelti, ma la massa. Ciò che resta di individuale è il metodo della rappresentazione, lo stile e la qualità dell'opera d'arte. È spesso difficile, per il profano, appurare se le intenzioni dell'artista siano sincere, e i suoi criteri espressivi spontanei, o siano invece frutto di imitazione, o tendano all'effetto più facile. In molti casi l'uomo della strada deve “far l'occhio” a nuovi tipi di linee e di colori. Egli deve imparare il nuovo linguaggio espressivo, proprio come imparerebbe una lingua straniera, prima di poter emettere giudizi sui valori espressivi dell'opera d'arte. I pionieri dell'arte moderna si rendono evidentemente conto di ciò che chiedono al loro pubblico. Mai gli artisti hanno pubblicato tanti “manifesti”, tante dichiarazioni esplicative delle loro intenzioni, come nel corso del ventesimo secolo. E tuttavia, non è soltanto agli altri che essi cercano di spiegare e di giustificare il loro operato; quei tentativi valgono anche nei confronti di loro stessi. Per la maggior parte, quei manifesti sono artistici attestati di fede — tentativi poetici, e spesso confusi e incoerenti, di chiarire gli strani risultati dell'attività artistica moderna. Ciò che realmente ha importanza, come è ovvio, è (ed è sempre stato) l'incontro e il contatto diretto con l'opera d'arte. Tuttavia, per lo psicologo che si interessa del contenuto simbolico dell'arte moderna, lo studio di quei manifesti e di quelle apologie è quanto mai istruttivo. Ed è per questa ragione che, nel corso del presente studio, ogniqualvolta sarà possibile, lascerò che siano gli artisti stessi a parlare di sé. Gli inizi dell'arte moderna si fanno datare ai primi anni del 1900. Una delle più importanti personalità di questa fase iniziale fu Kandinskij, la cui influenza è chiaramente rintracciabile anche in dipinti della seconda metà del nostro secolo. Molte sue idee si sono rivelate profetiche. Nel suo saggio Sulla forma, egli scrive: «L'arte di oggi esprime il mondo spirituale saturato fino al limite della rivelazione. Le forme di questa espressione si polarizzano intorno a due estremi:
1)) rigorosa astrazione;
2)) rigoroso realismo.
Da tali estremi si partono due strade che spesso conducono, in definitiva, a un solo esito. Quei due elementi sono stati sempre presenti nel mondo dell'arte; il primo trovava espressione nel secondo. Oggi sembra che essi si sviluppino secondo direttive distinte. Sembra che l'arte abbia posto un punto finale alla piacevole complementarietà di astratto e concreto, e viceversa». Per chiarire l'idea di Kandinskij, per cui i due elementi artistici, l'astratto e il concreto, si sono “separati”, ricorderemo che, nel 1913, il pittore russo Casimir Malevic disegnò un quadro, che consisteva esclusivamente in un rettangolo nero su fondo bianco. Si tratta, con ogni probabilità, del primo quadro “astratto” che sia mai stato dipinto. Malevic scrisse: «Nella mia lotta disperata per liberare l'arte dalla zavorra del mondo oggettivo, ho trovato rifugio nella forma del quadrato». Un anno più tardi, il pittore francese Marcel Duchamp pose su un piedistallo un oggetto scelto a caso (uno scolabottiglie) e lo presentò a una mostra. Scrisse, al riguardo, Jean Bazaine: «Quell'oggetto, distolto dal suo contesto utilitaristico, e come spogliato ed esaurito, è investito della desolata dignità delle cose abbandonate. Buono a niente, o pronto per essere usato, aperto a ogni possibilità, esso è vivo. Vive, sul limite dell'esistenza, la sua vita assurda e imbarazzante. Quell'oggetto imbarazzante — è il primo passo verso l'arte». Colto nella fatale dignità del suo abbandono, e incommensurabilmente esaltato, a quell'oggetto veniva attribuito un significato che può definirsi soltanto magico. Onde la sua «vita assurda e imbarazzante». Diveniva un feticcio e, al contempo, un oggetto da burla. La sua concreta e reale natura veniva completamente superata. Così il quadrato di Malevic, come lo scolabottiglie di Duchamp, costituivano gesti simbolici, che non hanno niente a che fare con l'arte in senso stretto. E tuttavia essi valgono a indicare i due poli (“astrazione rigorosa” e “rigoroso realismo”), nello spazio fra i quali può ritenersi compresa l'arte immaginativa dei decenni successivi. Dal punto di vista psicologico, i due gesti, nei confronti dell'oggetto nudo (la materia) e del nudo non-oggetto (lo spirito), sono indicativi di una lacerazione psichica collettiva che trovò la sua espressione simbolica negli anni che precedettero la catastrofe della prima guerra mondiale. Tale lacerazione aveva incominciato a rivelarsi fino dall'epoca del Rinascimento, manifestandosi nei termini del conflitto fra fede e ragione. Nel contempo, il progresso distoglieva sempre di più l'uomo dai fondamenti istintivi della sua natura, talché si apriva un abisso fra mente e natura, fra conscio e inconscio. Questa opposizione caratterizza la situazione psichica che cerca espressione nell'arte moderna.
(Carl Gustav Jung)

mercoledì 28 novembre 2007

La pittura dell’acqua e del fuoco


RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Anticamente arte era intesa come capacità, talento, ingegnosità. “Il termine “arte” dal latino ars-artis, ha il significato di “abilità di fare”.
Un’atteggiamento artistico preannuncia un prodotto creativo, il quale, come sosteneva Kandjnsky, “è determinato dalla necessità interiore”, che risulta strettamente collegato a “leggi” che regolano e armonizzano i vissuti personali.
Spesso il fare arte partorisce prodotti ricchi di contenuti socio-culturali e spirituali che determinano una spinta innovativa rispetto ai riferimenti culturali già affermati all’interno di una società. “L’artista” come lo definisce Joseph Beuys, “è il catalizzatore della creatività degli individui.”
Ben altra cosa è il desiderio di esprimersi creativamente, che è alla portata di tutti. Ogni essere umano porta dentro di sé le informazioni necessarie per essere in grado di tracciare una forma o un colore, poiché, come disse l’artista Dubuffet (1946), "il bisogno d’arte è per l’uomo un bisogno primordiale". In altre parole l’atto creativo è la manifestazione pura del semplice fatto di esistere al mondo.
La pratica creativa restituisce, all’adulto come al bambino, una dimensione armoniosa. Lo psichiatra Carl Gustav Jung, riprendendo il pensiero di Kandjnsky sopra citato, ci dice che “l’atto creativo” è un mezzo attraverso il quale la persona può entrare in contatto con i contenuti interni e dargli così voce.
Proprio per questo motivo la pratica dell’espressione creativa, di tipo grafico-pittorico e plastico-manuale, affiancata da una consapevolezza scientifica, è funzionale in ambito della salutogenesi per ottimizzare le personali condizioni di vita in caso di difficoltà.
Attraverso la pratica della creatività, il professor Edoardo Giusti e la dottoressa Isabella Piombo (2003), sostengono che “la persona vede ciò che produce come qualcosa di profondamente suo, d’interiore, che lo aiuta ad entrare in relazione con l’esterno, come una finestra sul mondo. Tutto ciò non sarebbe esistito senza le conquiste dell’arte moderna, che ha introdotto un nuovo rapporto con l’opera e ha rivalutato l’arte infantile, come linguaggio spontaneo, portatore di messaggi profondi.” Joseph Campbell scrive “L’arte è l’esperienza che trasforma” capace di concepire la bellezza che è nello stato delle cose, la cui forma manifesta è modellata dal bisogno dei contenuti latenti, a prescindere se sono negativi o positivi.
Tutto ciò assume una risonanza particolare quando gli strumenti creativi utilizzati non sono i pennelli o le matite, ma viene fatto uso di elementi naturali primordiali come il liquido dell’acqua, che non ha più il ruolo di diluente pittorico, ma diventa essa stessa soggetto creativo, che insieme alla fiamma del fuoco, risulta essenziale per il concepimento del contenuto creativo.
L’elemento “acqua” si identifica simbolicamente con il personaggio femminile shakespeariana di Ofelia, meglio identificata nel significato del “Risveglio” (Marco Calì 1999), e l’elemento “fuoco”, “l’ultra-vivente” come lo definisce il filosofo Bachelard, l’elemento maschile della conoscenza che Prometeo ruba agli dei per donarlo agli umani. Il gioco consapevole della relazione tra acqua e fuoco permette la manifestazione dell’“imaginatio”, così importante nella messa in opera dell’energia trasformatrice che dà forma al “sogno” vitale, in cui, l’elemento “acqua” sostiene la “bambina” interiore senza affogarla, così l’elemento “fuoco” riscalda il “bambino” interiore senza bruciarlo.
DI MARCO CALI'

Test di Luscher e psicologia del colore

A cura di arch. Vilma Torselli

Percezione del colore e risposta psicofisica, comportamentale ed emotiva, uso del colore come rivelatore di una dinamica emozionale.
"Ho cercato di esprimere le terribili passioni umane attraverso il rosso e il verde". (Vincent Van Gogh)
Lo psicologo, psichiatra e filosofo svizzero Max Luscher ha steso un interessante il “test dei colori “(1949), che trovò rapida diffusione negli anni '60 in tutta Europa e negli Stati Uniti, basato sull’assunto che una particolare attrazione o repulsione nei confronti di un determinato colore siano riconducibili a particolari stati psicofisici ed emozionali che ogni colore ed ogni combinazione cromatica generano nell'osservatore (postulato che è alla base, fra l'altro, della cromoterapia).
Quindi, secondo Luscher, alla visione dei colori e delle combinazioni cromatiche si genera una precisa risposta comportamentale, emotiva, fisica, cosicchè la predilezione o il rifiuto per un determinato colore possono rivelare ben definiti aspetti caratteriali e tendenze emotive nei confronti della vita affettiva e di relazione, tenendo conto anche che la preferenza mostrata verso ciascun colore e le reazioni che provoca nel soggetto cambiano a seconda degli individui e dei vari momenti nello stesso individuo: in breve, i colori parlano di noi, dando precise informazioni su bisogni, desideri, rifiuti, paure, basta saper decifrare il messaggio.

E' un linguaggio piuttosto complesso, in parte influenzato dal retroterra culturale di ciascuno, in parte condizionato dalla nostra individualità psicologica, sempre rivelatore di una componente inconscia e soggettiva della quale il colore rappresenta la chiave d'accesso.

Il test di Luscher si avvale di otto colori, 4 colori base (rosso, giallo, verde e blu) e 4 colori ausiliari (viola, marrone, grigio e nero), che concorrono a descrivere diversi sentimenti di sé.
Il rosso che provoca eccitazione e spinge verso l'attività, denota un senso di forza e di sicurezza, per cui la scelta orientata al rosso corrisponde ad uno stato di attivazione nella direzione di una conquista, ad un desiderio espansivo, all'aspirazione alla mobilitazione di tutte le energie (sessuali ed aggressive): esprime fiducia e sicurezza di sé.
Il blu è la calma, la soddisfazione, la pace interiore, la quiete, l'armonia.
Il verde esprime stabilità, forza, tenacia, costanza, perseveranza, equilibrio psicologico, autostima, riferimento saldo a valori forti.
Il giallo, caldo, irradiante, luminoso suggerisce espansione e movimento, libertà e autonomia, è colore del cambiamento e della ricerca del nuovo.
Il viola, ottenuto mescolando rosso e blu, è il colore della trasformazione, della metamorfosi, del passaggio da uno stato ad un altro, magico, mistico, spirituale.
Il marrone è un colore solido, corporeo, materiale, corrisponde alla sensazione della propria fisicità.
Il grigio è il colore neutro di chi prende le distanze dai sentimenti e dalla vita, optando per il non coinvolgimento.
Il nero è il 'non colore', la negazione, l'opposizione dietro la quale può nascondersi un desiderio di rivendicazione di potere.

In linea di massima, si può concludere che i colori caldi (giallo, arancione e rosso) esprimono aggressività, irrequietezza o stimoli positivi, mentre quelli freddi (violetti, blu e verdi) hanno una valenza negativa, sono pacati, riservati, tranquilli.
Dice il Prof. Ruggero Sicurelli: "La percezione del colore va intesa come un evento rivelatore di una dinamica emozionale profonda, che dipende dalle caratteristiche personologiche del percepiente. In altri termini, la tavolozza cromatica interna dipende non solo dal nostro modo di percepire i colori esterni, ma anche dalla nostra specifica modalità di rivisitare emozionalmente gli stessi. Questo in relazione ad un approccio psicologico che mette in primo piano la biografia personale piuttosto che gli accadimenti culturali. Ciò non toglie che la libertà di elaborazione personale dei percetti non sia totale......."

Particolare importanza va data alle dinamiche cromatiche, poichè i colori si caricano del loro contenuto emotivo anche in forza delle relazioni in cui vengono rappresentati, relazioni che possono avere valenza pesantemente soggettiva, come si può facilmente verificare analizzando un quadro di un artista espressionista, dato che l'Espressionismo fu il primo movimento che utilizzò il colore in chiave strettamente emozionale e personale (pensiamo al ritratto della madre eseguito da Van Gogh) : per Wassilij Kandinsky, ad esempio, fondatore del Der Blaue Reiter, l'armonia del colore è un mezzo per arrivare direttamente a contatto dell'anima, ogni colore ha in sè uno specifico valore espressivo e spirituale ed è quindi in grado di rappresentare la realtà spirituale senza bisogno di alcun tramite oggettivo, mentre per Yves Klein il colore, in particolare il IKB, l'International Klein Blue che volle addirittura brevettare, è l'unico modo di esprimere l' infinità energetica del cielo, sublime astrazione del vuoto e dell'infinito.
"La pittura è l'arte che rappresenta su di un piano un fenomeno sensibile. Il mezzo della pittura è il colore, come fondo e linea. Il pittore trasforma in opera d'arte la concezione sensibile della sua esperienza. Non ci sono regole per questo. Le regole per l'opera singola si formano durante il lavoro."
Questo afferma Kirchner, a cui si deve la costituzione di Die Brucke, attraverso il quale l'Espressionismo tedesco ha raggiunto probabilmente la sua punta più alta, che si avvale di viola e verdi violenti, gialli saturi o del teso contrasto del bianco e nero (proprio in bianco e nero sono molti dei suoi ultimi lavori), colori attraverso i quali urla quel travaglio interiore che lo porterà prima alla follia e poi al suicidio.

Il Sentimento Religioso dei Siciliani

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

" Una razza, abbracciando un culto
che non era stato fatto per essa,
lo trasforma secondo i bisogni
della sua immaginazione e del suo cuore.
E. Renan

La storia delle religioni raccoglie gli elementi più profondi dell'intima natura dei popoli, e la ricerca, in questo campo, porta alle più sorprendenti scoperte dell'etnologia. Presso tutte le Civiltà, lo spirito pratico nacque e si sviluppò dopo la sensibilità religiosa. Il fenomeno primordiale del sentimento, o dell'istinto religioso, avrebbe avuto origine poligenetica come ogni fatto fondamentale dello spirito umano, ma lo studio del suo sviluppo, dei miti e dei rituali attraverso i quali i siciliani lo hanno manifestato nei millenni, resta il tema più affascinante e inesplorato del mondo mediterraneo.
Quì, dove le differenti stirpi si unirono, filtrando il proprio mondo nel precedente e primitivo mondo locale, il processo d'amalgama, di confusione e di sintesi dei molteplici miti teologali e dei rispettivi rituali, è divenuto ancora più inestricabile, a causa delle tormentose vicende del territorio e delle diverse Civiltà che vi confluirono. Il tessuto mitologico è privo d'orli. Si potrebbe cominciare da una profondità sempre maggiore, spingersi sempre più in là, e propriamente non finirla mai. Il pensiero umano è mitico e logico insieme. Né la religione è puro pensiero razionale, estraneo al mito. Come la magia, così il mito è già religione. Restringendo l'indagine alla morfologia spirituale del sentimento collettivo che si è formato dentro la lente ustoria della terrificante esperienza storica isolana, si può affermare che la natura del particolarismo religioso dei siciliani si rileva dalle sue stesse originarie concezioni magiche, animistiche e politeiste, trasposte nell'attualità temporale della professione di fede cristiana. Il dato è confermato dalla persistenza dei più antichi riti pagani, ed il mistero che racchiudono, in una Sicilia misteriosa e leggendaria dominata da dei, dove si celebravano i fasti ed i misteri di numi a noi tanto familiari, e dalle vecchie convinzioni dell'anima popolare, che intende identificarsi così nel culto dell'ultima religione introdotta in Sicilia tardivamente.
Ogni popolo conserva, specie negli strati sociali più umili, traccia delle sue più antiche concezioni religiose, anche di quelle che nel pensiero delle classi elevate sono ormai eliminate. Ma il particolarismo religioso dei siciliani consiste nell'ininterrotto processo di trasposizione iniziatosi dalla preistoria e che l'avvento del cristianesimo non ha arrestato.
La Gente di Sicilia ha voluto e saputo adattare il calendario di un'epoca naturistica e mitica - un esempio lo troviamo nelle feste in onore di Dionisio che si svolgevano nell'antica Grecia, accadevano all'inizio della primavera, erano feste agricole, familiari - ad un altro puramente cristiano, adeguando perfino i dogmi della cristianità al carattere idillico e passionale delle vecchie religioni mediterranee ed alle proprie esigenze.
Oltre che dalla viva tradizione, questo specifico atteggiamento dell'inconscio logico del sentimento religioso è provato anche dall'ubicazione topografica delle più antiche chiese, dai monumenti, dalle iscrizioni, dalle fonti letterarie popolari relative alla fede, e perfino dagli itinerari urbani che le processioni dei fedeli, oggi cattolici, ripetono con esattezza dai tempi arcaici, sostituendo alle esigenze dell'una o dell'altra teologia, e del dramma stagionale sacro e immutabile, il simulacro non pervenutoci di Gereatide o degli dei Pàlici con quello più fantasioso delle altre divinità sicane, africane, fenicie, greche, puniche e romane, fino a quello più nobile del Cristo e dei santi, ma con lo stesso sentimento religioso originario.
Le vecchie credenze e le antiche usanze vi hanno pure lasciato le loro viventi rovine, che s'incontrano ad ogni passo e che richiamano in mezzo alla vita moderna i ricordi dell'antica poesia. Anche quando sono scomparse davanti al Cristianesimo, le divinità pagane vi hanno lasciato ovunque i loro fantasmi. Ma i fantasmi dell'etnologia sono creature vive e inquietanti.
La scienza del Pitrè insegna che "il compito dello studioso delle tradizioni popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non solo la conservazione ma quella continua, e direi quasi naturale rielaborazione, dov'é il segreto stesso della loro esistenza che è un continuo morire per un eterno rivivere".
Il concetto della tradizione non è un concetto statico, ma è un concetto intimamente, eminentemente dinamico.
Una delle conquiste più notevoli della psicologia contemporanea è la determinazione di una sfera di fenomeni spirituali che sfugge alla presa della coscienza riflessa e si cela in un'indecifrabile penombra di interiorità. C'è nel vasto operare dei fedeli, nelle impercettibili vibrazioni dell'anima religiosa collettiva, una parte che si ribella alla luce della cultura e che sfugge all'esplorazione della ricerca metodica.
I primi abitatori dell'Isola, a Lèvanzo o a Marina di Ragusa, furono indubbiamente zoolatri come tutti i preistorici. Tra le divinità neolitiche, la misteriosa Gereatide è il simbolo senza sesso della generazione. Si venerava a Nasso, nei dintorni di quell'approdo, nel famoso Santuario di Hybla sulle pendici dell'Etna e in molte altre località, sotto lo stesso nome e il comune rituale, consistente nell'offerta degli organi sessuali degli animali sacrificati, appesi agli alberi sacri assieme alle corna e agli amuleti magici propiziatori. La città di Hybla fu detta anche Gereatide in onore di quella divinità, alla quale si votò una vasta setta di sacerdoti.
Traccia dell'antico culto autoctono, con l'offerta votiva delle " gerre " a Gereatide, si riscontra tuttora, tra i pastori dell'Isola, nell'usanza di appendere le interiora degli animali appena sventrati a quell'albero secco che sono soliti piantare accanto al proprio pagliaio, e dove mettono comunemente i propri zaini e le fiscelle gocciolanti al riparo dalle bestie.
In quell'uso attuale e ricorrente è notevole il particolare che non buttano subito ai cani le frattaglie delle pecore e degli agnelli scuoiati, ma solo dopo averle tenute appese per un breve spazio di tempo - come nel rito atavico - a quell'albero sacro che essi chiamano staccia.
Noi non sappiamo ancora se Gereatide ebbe forma antropica e sessualmente distinta, oppure sembianze umane ed animali insieme, come certe coeve divinità delle civiltà religiose più esplorate di Samarra Elam e Unuk - Uruk, alle quali certamente è legata per molti aspetti.
Nella Cosmogonìa sicula, le stesse uova sacre di pietra che si schiudono al volo dell'allodola, secondo l'iscrizione greca del ritrovamento archeologico di Siracusa, ci danno testimonianza di un altro antichissimo rituale collegato al medesimo simbolo religioso della divinità generatrice. Nella Cosmogonìa fenicia, esposta da Sancuniatòne intorno all'XI secolo a.C, questo simbolo è identico. « Il materiale religioso delle tombe di Micene attesta inconfutabilmente l'adozione completa della religione cretese...Il fondo pre-ellenico è in ogni luogo sensibile alle origini del politeismo ».
La forza delle origini della vita fu certamente il primo fenomeno trascendentale della Natura preso in considerazione dai popoli mediterranei, come la manifestazione di un'invisibile e sotterranea presenza super-umana; il pullulare di questa concezione ha tanti piccoli spettri d'azione e porta il nome di tante divinità quanti sono i villaggi preistorici che ha portato alla luce l'archeologia in quest'area.
Nella storia delle religioni, la neolitica Gereatide corrisponderebbe alla Gran-Madre mesopotamica Ishtar (Astarte), alla sumerica Inanna di Uruk, amante di Tammuz (o Dumuzi), a Ba-alat dei Cananei, a Na-na dei Caldei e a Min degli Egiziani.
I calcidesi colonizzatori della costa orientate l'avrebbero identificata nell'VIII secolo a. C. con la grecizzata Afrodite, e così ad Entella, a Segesta e ad Erice, dove questa divinità diventò Afrodite e Venere dopo essere stata Erycina — la madre del re indigeno Buie fondatore della città eponima — forse anche Iside, e per svariati secoli Astarte. Altre divinità, ctonie, che infondevano la vita alla vegetazione dalle profonde oscurità del sottosuolo, si adoravano in epoca pre-greca a Selinunte e a Gela, dove sorgeva un sacrario ad est del fiume omonimo, nella località di Bitalemi, oltre che a Megara Iblaea, la cui Dea-madre Kourotrophos, che allatta amorevolmente i suoi piccoli, è possibile venerare, o ammirare tuttora al Museo di Siracusa.
I coloni rodi e cretesi che nell' VII secolo a. C. sentirono la necessità di sincretizzare i locali culti indigeni con il proprio di Dèmetra e Kore, lasciarono alla Dèmetra di Bitalemi le sue specifiche e benigne caratteristiche sicule, e cosi ad Enna, dove la tradizione localizza addirittura il santuario della divinità, divenuta in ultimo Cerere, nella cosiddetta Rocca di Cerere, indicata dalla popolazione ennese con quel compiacimento semplice e agreste che ne illumina di pallida luce preistorica il sentimento religioso.
Il dio ctonico Adrano, trasposto nel greco Efesto, era adorato in tutta la Sicilia, e così anche il cane - simbolo squisitamente spirituale d'amicizia e di fedeltà protettrice - testimoniato per Adrano, Argirio, Messana, Segesta e molte altre località. Gli alberi furono sacri alle antiche tribù sicane e sicule dei luoghi di Enna, di Camarina, di Inessa e di Catana — l'odierna Catania — denominata Etna da Gerone I di Siracusa, quando la sottomise nel 476 a. C, subito dopo la vittoria di Imera, — e lo sono tuttora in alcuni villaggi dell'interno.
Delle due divinità indigene Lagasis e Butaias ci sono pervenuti soltanto i nomi, mentre di tante altre conosciamo appena la traduzione greca del nome indigeno di esse : Nestis, Pediacrite, Leukaspis, Buphònas, Glychatas, Krytidas. Nomi derivati da fiumi, laghi, sorgenti e località, perciò si ha la prova indiretta della pratica di un culto palingenetico. Questi spiriti divinizzati sono stati trasposti dal sentimento religioso isolano in una metamorfosi mitica ininterrotta fino all'avvento delle religioni razionali e monoteiste, nelle quali, per esso, Dio non è il principio e la fine dell'Universo, ma rimane il più antico e il più impenetrabile degli Altri Grandi Spiriti che sovrastano il destino degli uomini e delle genti. Una sostanza religiosa medesima, da allora ad oggi.
Sotto l'azzurro terso del cielo la sensibilità di questo popolo è rimasta immota e pagana come il mistero ctonio e la forza arcana dei Dvi, le divinità autoctone che dalla città ideale di Palica guidano lo spirito religioso della sua lotta di liberazione fin dal V secolo a. C.
I sacrari indigeni di Erice, di Agrigento, di Siracusa e di Catana divennero Templi della più alta civiltà mitologica siceliota per la semplice sovrapposizione delle colonne e del frontone, così come, nel tempo, furono adattati al culto ufficiale romano, cristiano, islamico, bizantino e cattolico, per la stessa naturale indifferenza e indisponibilità dell'Anima collettiva a mutuare la propria impulsività religiosa — atemporale — con le labili ipotesi dei fatti trascendentali ridotti a storia delle religioni.
La mancanza del tetto nel bellissimo tempio dorico di Segesta, eretto anch'esso intorno all'altare più antico di una divinità indigena, può spiegarsi con il fatto che le popolazioni della Sicilia arcaica — come tutte le altre primitive comunità del Mediterraneo — abbiano adorato il Sole, « il dio che si rinnova ogni giorno ».
Nel liquido mondo chiuso delle più antiche civiltà dell'Egeide e della Mesopotamia, da Ugarit a Canaan, a Cipro, all'Egitto e all'Africa Settentrionale, la letteratura sulla mitologia solare è ricchissima. Dalle invocazioni a Râ, il dio Sole delle cinque piramidi di Saqqura, alle notizie contenute nella tavoletta pittografica di Kish che si conserva ad Oxford, il mito ha una comune struttura fondamentale e unitaria, nella varietà dei modi regionali di espressione.
I fenomeni naturali del sorgere e del tramontare della palla di fuoco, che è all'origine stessa della vita, dovettero costituire i primi eventi quotidiani determinanti per il germoglio dell'attenzione e della sensibilità religiosa delle popolazioni preistoriche, passate dalla caccia alla pastorizia e alla coltivazione della terra, osservando, appunto, la durata dei viaggi solari, il succedersi delle stagioni e i fenomeni concomitanti dell'intensità della luce e dello sviluppo della vegetazione.
« La stessa data del 25 dicembre fu scelta dalle chiese della cristianità già qualche decennio prima della metà del IV secolo d.C. per sostituire la festa del Solstizio d'inverno, cioè il giorno natale del dio Sole, divinità mitriaca che godeva anche in Roma di un particolare culto: infatti, in Oriente si continuò ancora per parecchio tempo a festeggiare la Natività di Cristo il 6 gennaio ».
Prima parte del libro "Il sentimento religioso dei siciliani" di Natale Turco e Christian E. Maccarone. Edizione CSSSS.

lunedì 26 novembre 2007

Ambienti e fatti dell’arte"La cultura artistica americana"

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

La cultura artistica americana, priva di tradizione figurativa autonoma, ripropone, agli inizi del 1900 un atteggiamento coloniale. Una grande quantità di opere d’arte attraversa l’Atlantico e affluisce nelle collezioni dei magnanti dell’industria e l’investimento nelle opere d’arte significa acquisizione di prestigio e di tradizione culturale. L’arte contemporanea, inizia ad interessare al pubblico americano, tra il 1908 e il 1913. Per molti artisti si tratta di un vero e proprio choc, il verificare che l’arte moderna viene dall’Europa e che quindi, il discorso statunitense deve ancora essere definito in relazione alla nuova dimensione dell’universo tecnologico industriale. Soprattutto per tutte le suggestioni cubiste e le istanze del dinamismo futurista a influenzare l’opera di Mc Donald Wright, Arthur Dove, J. Stella e di Stuart Davis. Sono presenti i retaggi del provincialismo della produzione statunitense, legata alla retorica dei soggetti presi dalla "scena americana" e illustrativa degli ambienti sociali più depressi, il regionalismo. Josè Clemente Orozco, Diego Riviera e David Alfaro Siqueiros danno vita al muralismo messicano. Loro non volevano rinchiudere le loro opere nei musei dove solo chi ha tempo può andarle a vedere, ma non certo la gente che lavora, e quindi se le mostre non potevano farle nei musei, le facevano nelle strade … dipingevano i muri delle vie, dei palazzi pubblici, dei sindacati. Nel 1934 si mette a punto la tecnica del caso pittorico, vale a dire gli effetti causali delle materie a pronto essiccamento, ottenuti con l’uso delle tecniche dei materiali della tecnologia industriale: la fotografia, la pistola a spruzzo e i coloranti chimici. Le mostre dei giovani artisti alla galleria Art of this Century rivelano la raggiunta autonomia degli espressionisti astratti americani, indipendenti dalle fonti europee. Al Salon di primavera nel 1942 accanto a Pollock si impongono William Baziotez e Robert Mortherwell che saranno presenti nella galleria anche negli anni successivi. Nel 1944 Baziotez presenta le sue Morfologie un’interpretazione surreale ispirate a Matta. Nello stesso anno Motherwell espone più di 40 opere. Teorico oltre che pittore, è forse l’artista che meglio esprime il legame tra operazione estetica e esistenza. Breton parlando di Gorky definisce la sua opera <>. Breton rivela una delle componenti fondamentali della poetica di Gorky: i ricordi dell’infanzia, il legame con la madre, i paesaggi dove lui è nato. Si precisa la consapevolezza di una raggiunta identità del movimento espressionista astratto: è la scelta definitiva di spazi illimitati che si proiettano su ampie superfici senza soluzione di continuità tra interno-esterno, forma-informe, colore-luce, percezione ottica ambiguità della visione. Negli anni ’50 William De Kooning è forse l’unico artista assieme a Pollock che incarni lo spirito della generazione eroica dell’action painting. Nel 1951 scrive: << Ad alcuni pittori, me compreso, non interessa su quale sedia sono seduti. Non c’è neppure bisogno che sia comoda. Essi sono troppo nervosi per scoprire dove dovrebbero sedere… Piuttosto essi hanno scoperto che la pittura, in effetti, è oggi un modo di vita… Ecco dove sta la sua forma. Il fatto di essere libera consiste esattamente nella sua inutilità. Quegli artisti non vogliono essere conformisti >>. Ecco allora la sperimentazione di nuove tecniche e di nuovi materiali. In una conferenza tenuta per la BBC, a Londra, nel 1956, il critico d’arte Meyer Shapiro tenta una prima distinzione tra le due tendenze emerse all’interno della pittura americana, distinguendo tra l’arte di << impulso e caso >> di Pollock e De Kooning e l’astrazione del << campo >> cromatico do Rothko, Newman e i più giovani Still e Reinhardt. Negli anni ’60 si afferma la Pop-art, che all’esasperato individualismo dell’informale contrappone un drastico rapporto tra arte e vita, assumendo direttamente gli oggetti dalla realtà, isolati o inseriti in un contesto pittorico, per un’esigenza di lucida ricognizione analitica e di ristrutturazione del quotidiano paesaggio urbano. Pubblicità, immagini televisive, rotocalchi, fumetti, fotografie, segnaletica stradale costituiscono il repertorio della Pop-art. I maggiori protagonisti sono accanto ai primi contestatori dell’immagine, Rauschenberg, Johns e Twombly, artisti come Dine, Oldenburg, Segal, Lichtenstein e Warhol.

George Sand(Parigi, 1 luglio 1804 – Nohant-Vic, 8 giugno 1876)

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

George Sand - pseudonimo di Amantine Aurore Lucile Dupin, poi baronessa Dudevant - (Parigi, 1 luglio 1804 – Nohant-Vic, 8 giugno 1876) è stata una scrittrice e femminista ante litteram francese.
Autrice di romanzi, novelle, racconti, opere teatrali, un'autobiografia, critiche letterarie e testi politici, non si dedicò solo alla letteratura, ma anche alla pittura.
Fu attiva nel dibattito politico e partecipò, anche se non in primo piano, al governo provvisorio del 1848.
È ricordata anche per le sue relazioni sentimentali avute con lo scrittore Alfred de Musset e con il musicista Frederic Chopin.
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• Biografia
Figlia dell'ufficiale Maurice Dupin e della modista Sophie Victoire Delaborde, era nipote di Charles Louis Dupin de Francueil. Rimasta orfana di padre a quattro anni, ebbe un'infanzia libera trascorsa nella proprietà di Nohant presso la nonna paterna, figlia naturale del maresciallo di Francia conte Maurizio di Sassonia (1696-1750).
La futura George Sand studia dapprima a Nohant e in seguito, dal 1817 al 1820, nel convento delle augustine inglesi di Parigi, dove attraversa una crisi religiosa.
Nel 1822 sposa il barone Casimir Dudevant, dal quale ha due figli: Maurice (nato nel 1823) e Solange (nata nel 1828). Ben presto lascia il marito e inizia a condurre una vita sentimentale piuttosto agitata.
Nel 1830 si stabilisce a Parigi dove si lega al romanziere Jules Sandeau e, nel 1831 comincia a lavorare per le Figaro, per il quale firma, con Sandeau, numerosi articoli con lo pseudonimo di J. Sand. Sempre in collaborazione con Sandeau, e con lo stesso pseudonimo, nel 1831 pubblica il suo primo romanzo, Rose et Blanche (Rosa e Bianca).
La Dupin cambia il suo pseudonimo in George Sand, e lo userà per sempre nelle opere successive, che scriverà da sola. Adottato questo pseudonimo maschile, comincia a dissimulare le sue fattezze femminili con abiti maschili. Questo le permette di circolare più liberamente per Parigi, fumando la pipa, e di accedere a luoghi in cui a una donna del suo rango è vietato l'ingresso.
Si tratta di un comportamento assolutamente fuori dal comune nel diciannovesimo secolo, quando i codici sociali, soprattutto fra le classi agiate, hanno una grandissima importanza. Come conseguenza del suo comportamento, la Sand perde buona parte dei suoi privilegi di baronessa.
Per lei inizia una lunghissima serie dei successi letterari e un'altrettanto lunga serie di amori, cui si abbandona senza pregiudizi. Con questo comportamento la Sand intende sfatare lo stereotipo femminile e dimostarre che le donne possono godere della stessa libertà degli uomini. Anche nella sua professione, l'uso di uno pseudonimo maschile indica chiaramente che la Sand vuole essere giudicata indipendentemente dal fatto di essere una donna, ma solo in base al suo talento.
Nel 1832, come George Sand, pubblica Indiana e Valentine (Valentine) e, nel 1833, Lélia (Lelia), romanzi cosiddetti “passionali” in cui l'amore si scontra con le convenzioni mondane e i pregiudizi sociali, proprio come vi si sarebbe in seguito scontrata lei stessa, a causa dei suoi legami con Alfred de Musset e Frédéric Chopin.
Se i primi due romanzi erano stati grandi successi, Lélia le decreta la gloria: poco dopo la sua pubblicazione, George Sand entra a far parte della cerchia dei grandi autori francesi e degli scrittori più pagati.
Nel 1833 inizia una relazione tempestosa con de Musset, un giovane poeta, ma nel marzo del 1834, durante un soggiorno a Venezia in cui l'amante si ammala, lo tradisce col medico Pietro Pagello e lo lascia. Nello stesso anno George Sand torna a Parigi con Pagello e si riconcilia con de Musset, ma alle fine i due si lasciano definitivamente, dopo numerose separazioni e riappacificazioni.
È in questo periodo che la scrittrice pubblica Jacques (1834), André (1835), Lettere di un viaggiatore (1834-1836), Mauprat (1837). Nel 1835, tuttavia, la Sand ha già lasciato de Musset per Michel de Bourges la cui influenza, insieme a quelle di Pierre Leroux e di Lamennais, la orienterà verso un socialismo idealista. È tra i fondatori della Revue Indépendante (1841) e della Revue Sociale (1845 e si lega a democratici come Arago, Barbès e Bakunin.
In questi anni pubblica i "romanzi socialisti": Spiridion (1838), Le compagnon du tour de France (Il compagno del giro di Francia - 1840), Horace (Orazio - 1841), Consuelo (1842-1843), La comtesse de Rudolstadt (La contessa di Rudolstadt 1843-1845), Le Meunier d'Angibault (Il mugnaio d'Angibault - 1845), Il peccato del signor Antonio (1847).
Nel 1847 termina la lunga relazione con Chopin, che la Sand lascia poco prima che questi muoia di tubercolosi. A Maiorca, si può ancora oggi visitare la Certosa di Valldemosa dove la Sand trascorse l'inverno 1838-39 con Chopin e i suoi figli. Questo viaggio a Maiorca è descritto in Un hiver à Majorque (Un inverno a Maiorca - 1855). La Sand e Chopin si erano incontrati dieci anni prima e il loro rapporto era stato piuttosto complicato: prima amici e poi amanti, alla fine erano arrivati a comportarsi come madre e figlio. Si è detto che il loro rapporto sia stato uno dei più affascinanti e improbabili insieme, a causa delle loro personalità totalmente diverse.
Nel 1848, quando nella rivoluzione vede realizzarsi il suo sogno democratico, la Sand, insieme a LedruRollin, passa all'azione e partecipa alla redazione del Bulletin de la République. Tuttavia nel 1851, dopo le giornate di giugno, si ritira dalla vita politica e da Parigi e si stabilisce a Nohant, dove scrive, o meglio è costretta a scrivere, a causa delle notevoli difficoltà economiche, anche per il teatro.
Continua comunque i suoi viaggi sia in Francia (soprattutto presso il suo grande amico Charles Robin Duvernet, nel castello del Petit Coudray), sia all'estero. La sua vita è ancora fuori dalle regole e molto agitata: ha altre relazioni amorose, si batte per i diritti delle donne e per le sue idee politiche, stringe amicizia con Gustave Flaubert, nonostante i loro diversi temperamenti e le loro diverse preferenze estetiche, e con Théophile Gautier, frequenta i fratelli Jules e Edmond de Goncourt.
È comunque a Nohant che la Sand si ispira alla vita rustica per i suoi "romanzi campestri", i più effiacci della sua produzione letteraria: La mare au diable (La palude del diavolo - 1846), François le champi (Francesco il trovatello - 1847-1848), La petite Fadette (La piccola Fadette - 1849), Les maîtres sonneurs (I maestri suonatori - 1853).
La “bonne dame de Nohant” (come ormai era chiamata George Sand) torna poi al passato con l'Histoire de ma vie (Storia della mia vita - 1855) e Elle et lui (Lei e lui - 1859), una trasposizione appena velata della sua relazione con de Musset. A questo periodo appartengono anche Les beaux messieurs de Bois-Doré (I bei signori di Bois-Doré - 1857-1858), Le marquis de Villemer (Il marchese di Villemer - 1861), Mademoiselle de La Quintinie (1863) e altri libri di ricordi.
Scrive fino al 1876, anno in cui muore a Nohant-Vic, all'età di 72 anni.
Nel giorno della sua morte Victor Hugo ebbe a dichiarare:
« Piango una morta, saluto un'immortale! »
Dopo la sua morte, vengono pubblicati sei volumi della sua corrispondenza (1882-1884), le lettere scambiate con Flaubert e con de Musset (1904), un Journal intime (Diario intimo - 1926), Une conspiration en 1537 (Una cospirazione nel 1537 - 1921, scritta nel 1831).

Autoipnosi e Paranoia neuro linguistica.

di Fabrizio Ponzetta

da: La lotta dei maghi, autoipnosi, ipnosi e ipnosi di massa.

Nel dispiegarsi della storia dell’umanità, l’idea di vivere in una realtà fittizia, a prescindere dalle apparenti condizioni sociali, è stata fatta più volte balenare: dottrine filosofiche, dottrine esoteriche, studi sulla linguistica e sui processi cognitivi, e sopratutto l’arte.
L’arte nell’antichità, tramite la bellezza e l’armonia che manifestava, riusciva ad aprire un collegamento tra il mondo interiore di chi ne fruiva e la Realtà; mentre nell’era contemporanea, probabilmente a causa dello stile di vita consumista e tecnologico e dello stratificarsi del buonismo di facciata della società borghese, per ottenere lo stesso effetto "illuminante" l’arte ha dovuto aprire violentemente dei varchi, mostrando aspetti contradditori della realtà fittizia in cui l’umanità è immersa, aspetti sconci, osceni (fuori scena) della vera Realtà.
In questa direzione, e ancora più profondamente, si muove l’opera di Salvador Dalì, quando elabora il suo metodo paranoico-critico. È risaputo che nel delirio paranoico si usa il mondo esterno per evidenziare l’oggetto ossessivo del proprio delirio; la realtà esterna diventa, allora, la prova della realtà delle proprie convinzioni.
Consapevole di ciò, Dalì diede vita, nelle sue opere paranoico-critiche, ad una serie di immagini dette doppie o molteplici, e cioè ad una serie di realtà che possono essere viste simultaneamente come diverse in un’unica immagine. Le opere paranoico critiche di Dalì dimostrano così che la realtà esterna non è univoca, ma che ciò che si percepisce è la proiezione della propria anima, delle proprie paure, dei propri talenti, delle proprie angosce, delle proprie convinzioni; in breve: della propria storia personale.
Sviluppando questa riflessione (oggetto tra l’altro di noti test psicologici) arriviamo a stabilire che la storia personale di un individuo è una costruzione fittizia della memoria, che cerca di collegare attraverso un filo puramente logico gli eventi che sensorialmente, emotivamente e cognitivamente la persona registra nel corso della propria esistenza.
Gli esseri umani allora non agiscono direttamente sulla realtà, perché ciascuno si crea una propria rappresentazione del mondo in cui vive; tale mappa, o modello, determina in buona parte l’esperienza di ogni individuo nel mondo, nella realtà… realtà che viene così riconfermata nella propria versione personale e senza mai accorgersi di quanto sia fittizia.
Ora, per "trascendere" questa rappresentazione (non per negarla) e quindi per viverla coscientemente, e semmai riformarla, è opportuno comprendere quali sono le modalità con cui questa mappa viene creata. Andare all’origine. Se la mia rappresentazione del mondo, della realtà è una mappa, devo prendere coscienza che il mondo, o la realtà, è un territorio sconfinato, vastissimo e decisamente fuori dal controllo dei limiti che io come persona, noi come cultura occidentale, e tutto il genere umano ci siamo posti.
Sul fatto che la realtà sia decisamente più vasta delle mappe che di essa l’uomo ha tracciato rimando a quell’incredibile quantità di paradossi logici e inspiegabili fenomeni fisici di cui abbonda la letteratura filosofico-scientifica.
Sul fatto che tali mappe (rappresentazioni) siano contemporaneamente personali, sociali e biologiche basti intanto ricordare che la realtà non può che essere filtrata dall’essere umano, in quanto, ad esempio, è noto che gli umani percepiscono tramite i propri sensi solo alcuni aspetti dell’esistente. Per portare un veloce esempio: le onde sonore inferiori ai 20 periodi al secondo e quelle superiori ai 20.000 non possono essere udite dall’orecchio umano. Quando al liceo studiai questi argomenti, mi parvero una conferma di ciò che avevo sempre sospettato, e cioè che gli esseri umani, di norma, sono decisamente impotenti nonostante la convinzione di essere lo scopo dell’esistenza. Mi sembrava così strano che sopra i 20.000 periodi l’udito non potesse avvertire le onde sonore… mi sembrava la prova lampante che la realtà è molto più vasta di quello che comunemente si percepisce. Capivo quindi che quelle che venivano considerate sciocchezze paranormali, spogliate dai loro medium (l’ambiguità è voluta), sono semplicemente percezioni diverse dalla norma ma non per questo meno vere. E lo stesso può valere per le allucinazioni sensoriali di uno psicotico o per gli effetti di una droga.
Ora, se già a livello biologico filtriamo la realtà con i sensi, ciò accade anche a livello culturale, sociale. Pensiamo a cosa ci ha lasciato scritto il Marchese M. de Montaigne:

mercoledì 21 novembre 2007

ARTE E PROCESSI CREATIVI

RICERCHE ACURA DI D. PICCHIOTTI

Genialità e follia
Scrive Karl Jaspers: "Quando ammiriamo lo splendore di una perla non pensiamo mai che essa nasce dalla malattia della conchiglia"
Risponde Umberto Galimberti

Ancora una volta trovo nella sua rubrica interrogativi che mi scuotono profondamente e che mi aiutano a far luce sul disagio della civiltà in cui viviamo. Sono un'insegnante di italiano e latino presso il liceo scientifico Nomentano di Roma e da tre anni ho accettato di insegnare per sei ore alla settimana presso la Clinica di Neuro-psichiatria di via dei Sabelli. Qui gli studenti hanno un'età compresa tra i 12 e i 18 anni. Naufraghi, sopravvissuti loro malgrado a disagi di ogni tipo, con alle spalle famiglie più o meno normali, approdano al reparto di Neuropsichiatria quasi sempre senza alcuna convinzione, sotto il peso delle sconfitte proprie e altrui... Siedono già stanchi e annoiati fin dall'inizio della mattinata in attesa del colloquio, della psicoterapia che dovrebbe traghettarli verso la terra promessa della normalità. E noi professori in questa realtà ospedaliera ogni giorno dobbiamo individuare, anche se con fatica, percorsi pedagogici che nessun programma ministeriale può predisporre ma che solo la professionalità e la sensibilità del docente possono individuare. Lei capisce bene che questo tipo di impegno dovrebbe essere incoraggiato, stimolato, apprezzato da chiunque operi nella scuola perché lo spirito della scuola pubblica è proprio quello di permettere a tutti di avere opportunità formative di crescita spirituale e culturale. Anche a chi è in carcere o a coloro che si trovano loro malgrado in ospedale. Se però tu che lavori in ospedale per esigenze di servizio intralci l'orario della collega che non può andare a far la spesa o il giorno libero del collega che non può godere del meritato riposo, ecco che il castello di carte della scuola come palestra di vita cade miseramente sotto il proprio peso. In fondo chi opera al di fuori della scuola in ospedale addirittura non si sa bene cosa faccia... Sicuramente dà fastidio a chi lavora onestamente e da anni varca il portone dello stesso edificio animato solo da un silenzioso e malinconico lasciar correre perché tanto... domani è un altro giorno. Di fronte alla rigidità mentale di tanti miei colleghi e anche di fronte alla ristrettezza di vedute di molti mi chiedo se non dovrebbe essere obbligatoria l'esperienza dell'insegnamento in realtà difficili e degradate, da affrontare almeno una volta nella vita per imparare che non c'è niente da insegnare se non siamo capaci di lasciarci arricchire dalla vita che ci circonda e di cui trasudano i gesti, gli abbigliamenti i comportamenti dei nostri studenti. Chi insegna non dovrebbe aver paura della vita che scorre e che non lascia certezze ma dovrebbe tener lontano da sé quel rigor mortis che spesso incatena chi fa scuola a ripetitive pratiche che ben poco hanno a che fare con la maieutica trasmissione del sapere. Marina Monaco marinamonaco63@libero.it Ho sempre pensato che la scuola non si fa con i programmi ministeriali, ma con la personalità dell'insegnante in grado, grazie alla sua maturità psicologica, di intercettare i canali emotivi dei suoi allievi che sono la pre-condizione per attivare la curiosità intellettuale. Questa semplice regoletta, nota a chiunque si occupi di processi educativi, dovrebbe essere il criterio per la selezione degli insegnanti, con rigorosa esclusione di quanti, privi di capacità psicologiche, finiscono per andare a scuola solo per annoiare e demotivare studenti senza attivare nessuna delle loro potenzialità. Lei, oltre che nella scuola normale, presta la sua attività anche in una clinica neuropsichiatrica, insegnando a giovani che pensano, immaginano e si figurano il mondo esterno e interiore secondo una loro specifica modalità che è diversa, ma non per questo meno coerente, della modalità da tutti condivisa. Anche qui, più che i programmi ministeriali o le pratiche di cura e comprensione, direi che il processo educativo dovrebbe tentare di catturare e valorizzare la specifica e peculiare visione del mondo di questi allievi, per vedere quanto questa possa costituire un punto di osservazione critico sulla visione del mondo mediamente condivisa, e considerata, da quanti "impazziscono", del tutto invivibile e inabitabile. Quando leggiamo le liriche di Hölderlin, le opere di Nietzsche, le elegie di Duino e di Rilke, ne ammiriamo le intuizioni folgoranti e la straordinaria potenza espressiva, dimenticando che forse la loro genialità poteva essere sprigionata solo dalla loro follia e non certo dalle opinioni condivise dalle persone cosiddette "normali", che si accovacciano nelle loro buone condotte da tutti approvate senza uno sprazzo di creatività. Sappiamo che non si dà creatività senza commercio con la follia. E se i giovani d'oggi, privi come sono di un futuro prevedibile e preordinato, fossero costretti a essere creativi e quindi un po' folli, e non dissennati come la scuola li giudica, quando (ed è sempre) non comprende il loro modo di pensare, immaginare, sentire, ogni volta che questo esce dagli schemi con cui l'istituzione scolastica e la mente di gran parte degli insegnanti sono abituati a capire. Perché non valorizzare anche nella scuola dei cosiddetti "normali" quello spazio di follia che, oltre a concorrere alla creatività, può costituire un ottimo punto di osservazione critico su quella "normalità" monotona che caratterizza la nostra scuola, dove nessuno più alza la mano per fare una domanda, perché, se questa fuoriesce dalle risposte già confezionate, si corre subito a chiamare lo psicologo.

ARTE E PROCESSI CREATIVI

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI


Dove e come nasce il processo creativo?
La creatività  ha le sue regole?
Cosa facilità o impedisce la creatività?
Chi sono i creativi?
Bisogna essere "folli "per essere artisti?
Cosa ne è della creatività di un artista non realizzato?
Si può curare una creatività che "soffre"?
La società può aiutare a sviluppare la creatività?
La traccia di questa indagine e dialogo interculturale parte dalla considerazione che nelle culture esistono prodotti linguistici, iconografici, rituali, memorie mitiche che assolvono a proprie funzioni organizzative esplorabili in senso antropologico e sociologico, che possono condividere e coinvolgere l'esperienza umana nei suoi molteplici e complessi aspetti, sia fisiologici che patologici.
L' artista attraverso la propria opera, svela relazioni nascoste che superano i rapporti sensibili con la realtà ed anche il gioco mondano delle apparenze. Il quid, sempre specifico, che costituisce il suo genio, si mescola con una particolare forma di comunicazione che intendiamo come "rivelazione". Questa funzione, in alcuni casi, giunge ad essere profetica, anticipa il tempo che verrà, ma tuttavia è sempre strettamente collegata al reale, sul quale getta il ponte di nuove  visioni.
Il senso di ogni opera d'arte e, dentro di quella di qualunque atto che sia creativo, è inscritto nella dialettica invisibile con chi ne è spettatore. Ogni espressione artistica è figlia del suo tempo, erede del passato e profetica di quello dopo, mentre "discute" con i suoi contemporanei, li contraddice o li serve, condanna od esalta a seconda dei casi. In questo risiede la sua funzione "sciamanica". Questo dialogo a volte è conflittuale, in alcuni momenti si esprime attraverso il tormento dell' ispirazone dell'artista, nel dolore della ricerca, sul filo sottile tra genio e follia del medesimo, ma fondamentalmente appartiene ad ogni atto creativo. Anzi c'è Arte perché io posso riprodurla in me ed è prerogativa del suo invisibile rapporto  con il collettivo il fatto che in questa operazione essa non si reifichi, diventando solo oggetto estetico. Il campo simbolico è, infatti, il luogo dove l'artista ed il suo atto creativo si incontrano con lo spettatore, perché la creatività è trasversalmente di tutti, geni, esecutori e passanti distratti.

martedì 20 novembre 2007

Joash Woodrow è stato un artista di straordinaria potenza, tecnica di comando e di sofisticazione intellettuale,

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Joash Woodrow, l'artista che è morto di età compresa tra 78, è stata oggetto di uno dei più straordinari rediscoveries degli ultimi anni: nel 2001, dopo che erano stati presi in alloggi protetti, circa 750 dipinti e 4000 opere su carta sono stati trovati nel suo piccolo Casa di Leeds.
Prodotto tra la metà del 1940 e degli anni 1990, non uno di questi lavori era stato visto in pubblico prima.
Attraverso una serie di coincidenze notevole, sono stati salvati da imminente consegna di un saltare, la loro successiva rivalutazione critica interessante raccolta di domande circa la natura della reputazione artistica, cultura e identità e impegnativo pigro molte ipotesi su come un artista crea la sua opera e raggiunge Riconoscimento pubblico.
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Non c'è dubbio che Woodrow è stato un artista di straordinaria potenza, tecnica di comando e di sofisticazione intellettuale, che, nonostante il suo apparente isolamento fisico e intellettuale, è stata ben consapevole dei principali filoni del 20 ° secolo europeo arte.
Il corpo del lavoro da lui prodotto in un mezzo secolo di intensa attività può essere visto come un importante contributo originale e non solo all'interno della storia del 20 ° secolo britannico arte, ma anche per la fantasia del periodo.
Joash Woodrow è nato a Leeds in data 7 aprile 1927, il settimo di nove figli di un povero, ma estremamente colta famiglia ebraica, che aveva lasciato Bialystock nella parte orientale della Polonia circa 25 anni prima.
Suo padre aveva eseguire una libreria ebraica nel Chapeltown distretto della città prima di andare a lavorare per il negozio al piano Montague Burton's fabbrica. Joash studiato alla Leeds School of Art di gli anni 1940, e non come un servizio nazionale cartografo in Egitto.
Dal 1950 al 1953 ha frequentato il Royal College of Art, dove i suoi contemporanei, inclusi Bratby, Auerbach, Jack Smith e Leon Kossoff. Uno dei suoi tutor, Robert Buhler, ha osservato che il suo lavoro è stato più europea nella prospettiva di quella di molti dei suoi colleghi studenti.
Woodrow brevemente lavorato a Londra come custode di un libro - pur continuando a dipingere, ma, nel 1955, egli ha subito un esaurimento nervoso e restituito alla famiglia casa di Leeds, dove era di vivere e lavorare per il resto della sua vita, sostenuta finanziariamente dal La sua famiglia.
In un primo momento si deve disporre di un ambiente in cui stipati al lavoro, con la madre e due fratelli vivono ancora in due, in due giù casa, un fatto che si riflette nella scala relativamente piccola di questi quadri precedenti.
Già però, uno stile e altamente distintivo è stato oggetto emergenti; buio - tonica, ricco di colori e paesaggi sono stati ritratti ricordano nella loro solennità del sentimento e luccicanti lampi di colore della francese Fauvist pittore Georges Rouault.
Dopo la sua madre è morta nel 1961, Woodrow iniziati i lavori per l'aumento delle dimensioni e di ambizione, come ha trovato più spazio in cui lavorare, un incoraggiato lo sviluppo di una serie di visite per la grande mostra di Picasso alla Tate nel 1960.
L'impatto che ciò ha avuto per il suo linguaggio artistico può essere visto sia nella nuova libertà nella sua manipolazione di vernice e nel suo crescente comprensione del significato del suo patrimonio ebraico.
Woodrow orientale del patrimonio culturale europeo è stato ulteriormente alimentato dalla consapevolezza che la sua espressiva radici laici al di fuori delle isole britanniche. Egli ha guardato al grezzo, vesciche dipingere superfici di Dubuffet e l'Art Brut cerchio, il radicale Espressionismo di Appel, Jorn e il gruppo COBRA, De Stael e il Tachistes.
Gli anni fino al 1970 sembrano essere state relativamente felice e produttiva, con una serie di quadri presentati a concorsi importanti come il John Moores.
Essi sono stati sempre respinti, tuttavia - sorprende in un momento in cui la moda era già swung verso Pop Art e "fresco" astrazione americana, e questo rifiuto incoraggiato un crescente senso di isolamento.
Paradossalmente, tuttavia, è stata ora entrando Woodrow più esuberante periodo della sua carriera. Ha iniziato a produrre molto grandi paesaggi e nature morte.
Fino a 5 m da 8 m per dimensioni, queste impressionante e pezzi originali uso potente, ampio pennellate, un quadro radicalmente appiattito spazio e di un ora lirico alta pose gamma di colori per raggiungere alcuni straordinari effetti.
I paesaggi sono forse il più audace e sperimentale pezzi. Basato sulla ossessiva registrazione, in migliaia di disegni e sketchbooks, dei semilavorati industriali e urbani Leeds paesaggio vicino a casa sua, che potrebbe rivelarsi la più originale contributo alla dopoguerra arte britannico.
Woodrow raffigurato uno hotchpotch di magazzini, edifici industriali abbandonati, riparto edifici, scruffy erba e alberi distanti affrontato con una convinzione e passione poetica visione alcuni dei suoi contemporanei in grado di eguagliare.
Queste opere, dipinte a ritmo rapidissimo e ammassati uno contro l'altra, non appena essi sono stati finito, mentre spesso ancora umido (un problema per i restauratori negli anni a venire), la sua principale forma oggetto nel corso degli ultimi 20 anni della sua attività di pittura .
Nei primi anni 1990 Woodrow ha cominciato a deteriorarsi, sia fisicamente e mentalmente, la casa era stipata di troppo per lui per essere in grado di muoversi in essa, e ha avuto l'energia solo per il disegno. Ha continuato in questo modo fino al 1999, quando un incendio in casa, causati dal suo tubo di cadere a terra quando si è addormentato, costretto la famiglia a trasferirsi a lui protette a Manchester.
A questo punto Woodrow completamente smesso di lavorare, apparentemente disinteressato, nella consapevolezza che, incoraggiati dalla sua famiglia dedicata, seguita nel corso dei prossimi sette anni.
Questo è culminato in una serie di mostre, tra cui uno di Leeds Art Gallery nel 2004 e una grande retrospettiva alla Manchester Art Gallery e la Ben Uri e Royal College of Art di Londra nel 2005.
Joash Woodrow morto il 15 febbraio. Egli è sopravvissuto dai suoi fratelli, e John Saul.

CREATIVITA’ E FOLLIA COSTITUISCONO UN BINOMIO CLASSICO:

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

CREATIVITA’ E FOLLIA COSTITUISCONO UN BINOMIO CLASSICO: LE OSSESSIONI DI SCHOPENHAUER, LE MANIE DI SCHUMANN, LE ALLUCINAZIONI DI VAN GOGH…

L’IDEA della prossimità, o dell’apparentamento, del genio e della follia è un’idea antica. Ci è arrivata come un luogo comune attraverso i secoli, trovando una certa validità e conferma in biografie ed autobiografie di uomini illustri. Schumann riceveva visite dagli angeli, Schopenhauer visse nell’ossessione di complotti perpetrati dai suoi nemici, Kafka era un nevrotico ossessivo, Rimbaud soffriva di allucinazioni, Beethoven e Ghoethe di nevrosi depressiva. L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Personalità di grande talento hanno trovato modo di esprimersi nelle arti, procedendo sul filo della follia.
E’ la follia all’origine del genio, o il genio per manifestarsi deve avere il sopravvento su di essa? In che modo genio e follia sono intimamente legati?
Qualsiasi tentativo di comprendere il problema delle malattie mentali e dei loro rapporti con l’esaltazione creativa non può che rimanere tale. E’ questo anche il punto di vista adottato da Carl Jaspers in “Genio e follia” apparso per la prima volta nel 1992 e ripubblicato recentemente da Raffaello Cortina. Jaspers si propone di capire perché la follia e l’arte nella loro espressione massima coincidono. Così, ripercorrendo i momenti in cui la malattia penetra nella vita dell’artista fino a trasfigurarne l’0pera, ci offre un ricco materiale biografico da cui risulta come Strindberg e Swedenborg, Wan Gogh e Holderlin hanno vissuto la loro follia.
Strindberg sapeva di essere malato di mente. Nell’”Arringa di un pazzo” scrive:” Cominciai a soffrire di questa misteriosa affezione in seguito ad una visita nel laboratorio di un mio vecchio amico, dove mi sono procurato un rossetto di cianuro di potassio, destinato a darmi la morte”. Sebbene la vita del drammaturgo fosse intessuta di elementi che attestano una coincidenza tra il più alto sviluppo creativo e la patologia, è sconcertante che questi elementi più che un disfacimento psicologico ed emotivo, conducano a una trasformazione del suo modo di interpretare e valutare l’esistenza, incomprensibile attraverso le nostre comuni esperienze.
Questa constatazione induce Jaspers a introdurre, rispetto all’opinione tradizionale, una nuova visione della schizofrenia. Mentre le altre malattie dovute ad un disordine cerebrale “agiscono sulla vita psichica come una marmellata che centra un meccanismo di un orologio distruggendolo”, i processi schizofrenici “producono un’intricata modificazione del meccanismo: l’orologio continua a funzionare, ma in modo imprevedibile”.
Si direbbe che una grande intelligenza al servizio di quella forza virulenta, che è la follia, possa neutralizzarne gli effetti devastanti.
E’ sorprendente come gli evochi la tensione straordinaria che caratterizza lo stadio iniziale del processo. Molti schizofrenici sono dominati da situazioni che minacciano di dilaniare la personalità, perché costretti a vivere senza sosta nell’imminenza della fine.Eppure essi non si abbandonano, nonostante la tensione per non precipitare nelle tenebre dell’insensatezza sia molto forte.
Nel momento in cui la dinamica patologica ha inizio, appare nell’opera un cambiamento, che vi apporta qualcosa di unico e straordinario. Ciò succede perché artisti di grande genio sono capaci di innalzare la malattia a un senso supremo, di congiungerla pienamente alla propria esistenza spirituale, di dominarla “per” e “con” l’arte.
In realtà, la dimensione demoniaca, la tendenza a misurarsi con l’assoluto, si pongono al di fuori della psicosi. Ma tutto accade come se il demone liberatore, che nell’uomo sano è frenato, riuscisse a sfondare, per consentire alle profondità dell’anima di rivelarsi. Lo smarrimento si sottrae ai travestimenti e alla menzogna della vita, diventando il momento della verità: espressione artistica. E là dove c’è una ricchezza spirituale, la follia può consentire all’arte di approdare alle vette più alte.
Le patologie, presunte o confermate, non riescono a spiegarci né la vita né l’opera di un artista. Il genio lo si constata, non lo si spiega. Non ci sono cause ed effetti, le une e le altre si raccolgono nella simultaneità dell’opera che è la formula eterna di quello che l’artista ha voluto essere e ha voluto esprimere. Da questo punto di vista, l’analisi di Jaspers è più che esplicita: “Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, […] può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita”. Di Caterina Varzi

SEGRETI DEL CUORE di Gibran

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI


Morta è la mia gente (Scritta in esilio durante la carestia in Siria) Prima guerra mondiale

Scomparsa è la mia gente, ma io ancora esisto, e la piango nella mia solitudine...
Morti sono i miei amici, e nella loro morte la mia vita non è altro che una grande sciagura.
I colli del mio paese sono sommersi di lacrime e di sangue, perché la mia gente e i miei cari sono scomparsi, ed io sono qui, ancora vivo come quando la mia gente ed i miei cari godevano della vita è della sua generosità, e le colline del mio Paese erano sommerse e benedette dalla luce del Sole.
La mia gente è morta d'inedia, e chi non venne ucciso dalla fame fu massacrato dalla spada; ed io sono qui, in questa terra lontana, a vagare tra gente gioiosa che dorme su soffici letti e sorride ai giorni mentre i giorni gli arridono.
La mia gente ha patito una morte di dolore e di vergogna, e io sono qui a vivere nell'abbondanza e nella pace... E questa una grande tragedia che ha sempre luogo sul palcoscenico del mio cuore; a pochi preme assistere a questo dramma, perché la mia gente è simile agli uccelli dalle ali spezzate, lasciati indietro dallo stormo. 
Se fossi affamato e vivessi tra la mia gente affamata, e se fossi perseguitato tra i miei oppressi compatrioti, più lieve sarebbe il peso dei giorni bui sui miei sogni agitati, e l'oscurità della notte sarebbe più fonda dinanzi ai miei occhi incavati, al mio cuore piangente e alla mia anima ferita. Perché colui che condivide con la sua gente il dolore e il tormento riceverà il supremo conforto che solo può dare il sacrificio della sofferenza. E si sentirà in pace con se stesso, quando morirà innocente coi suoi compagni innocenti.
Ma io non vivo con la mia gente affamata e perseguitata, che incede nella processione della morte verso il martirio... Sono qui, al di là del vasto mare, a vivere all'ombra della serenità e alla luce gioiosa della pace... Sono lungi dal penoso agone e dai sofferenti, e di nulla posso andar fiero, neppure delle mie lacrime. Cosa può fare un figlio in esilio per la sua affamata gente, e quale valore per loro può avere il lamento di un poeta assente?
S'io fossi una spiga di grano nella terra del mio paese, il fanciullo affamato mi raccoglierebbe e allontanerebbe dalla sua anima, grazie ai miei chicchi, la mano della Morte. S'io fossi un frutto maturo nei giardini del mio paese, la donna affamata mi coglierebbe per sostentarsi. S'io fossi un uccello che vola nel cielo del mio paese, il mio fratello affamato mi darebbe la caccia, così da allontanare dal suo corpo, grazie alle mie carni, l'ombra del sepolcro. Ma ahimè, non sono una spiga di grano cresciuta nelle pianure della Siria, né un frutto maturo nelle valli del Libano; è questa la mia sciagura, questa la mia tacita sventura, che porta umiliazione dinanzi all'anima mia e ai fantasmi della notte... E questa la dolorosa tragedia che mi serra la lingua, mi lega le braccia e mi paralizza, privandomi della forza, della volontà e dell'azione. E questa la maledizione che arde sulla mia fronte, dinanzi a Dio e agli uomini.
E sovente mi dicono: "La rovina del tuo paese è nulla di fronte alle sventure del mondo, e le lacrime e il sangue versati dalla tua gente sono niente in confronto ai fiumi di sangue e di lacrime che si versano giorno e notte nelle valli e nelle pianure della terra...".
Sì, ma la morte della mia gente è una tacita accusa; è un delitto concepito dalle menti di invisibili serpenti... E una tragedia senza musiche e senza scena... E se la mia gente fosse morta ribellandosi a despoti ed oppressori, avrei detto: "Morire per la libertà è più nobile che vivere nell'ombra del debole asservimento, perché colui che riceve la morte impugnando la spada della Verità s'immortalerà a fianco della Verità Eterna, perché la Vita è più debole della Morte e la Morte è più debole della Verità".
Se la mia nazione avesse partecipato alla guerra di tutte le nazioni e fosse perita sul campo di battaglia, avrei detto che la furia della tempesta aveva spezzato con la sua potenza i rami verdi; e la morte violenta sotto la volta della tempesta è più nobile della lenta agonia tra le braccia della vecchiaia. Ma nessuno è scampato al serrarsi delle fauci... La mia gente è caduta e ha lacrimato cogli angeli piangenti.
Se un terremoto avesse distrutto il mio paese e la terra avesse inghiottito dentro di sé la mia gente, avrei detto: "Una grande e misteriosa legge è stata indotta dalla volontà di una divina forza, e sarebbe pura follia se noi fragili mortali tentassimo di esplorarne i profondi segreti...". Ma la mia gente non è morta da ribelle; non è stata uccisa sul campo di battaglia; né il terremoto ha distrutto il mio paese e l'ha soggiogato.
La morte è stata la sua unica salvezza, e l'inedia l'unica sua preda.
La mia gente è morta sulla croce... E morta con le mani protese verso Oriente ed Occidente, con gli occhi fissi all'oscurità del firmamento... E morta in silenzio, perché l'umanità non aveva prestato orecchio alle sue grida. E morta perché non ha trattato da amici i suoi nemici. E morta perché amava il suo prossimo. E morta perché aveva fiducia in tutta l'umanità. E morta perché non ha oppresso gli oppressori. E morta perché era il fiore calpestato, non il piede che calpesta.
E perita perché era portatrice di pace. E morta di fame in una terra ricca di latte e di miele. E morta perché si sono levati i mostri dell'inferno, hanno distrutto tutto ciò che i suoi campi producevano e hanno divorato le ultime provviste nelle sue dispense...
E' morta perché le vipere ed i loro figli hanno sputato veleno nel luogo in cui i Sacri Cedri, le rose e il gelsomino esalano il loro profumo.
La mia gente e la tua gente, fratello siriano, sono morte... Cosa si può fare per coloro che stanno morendo? I nostri lamenti non appagheranno la loro fame, e le nostre lacrime non estingueranno la -loro sete; cosa possiamo fare per trarli in salvo dagli artigli d'acciaio della fame? Fratello mio, la bontà che ti spinge a dare una parte della tua vita a qualsiasi uomo si trovi in pericolo di perdere la propria è l'unica virtù che ti renda degno della luce del giorno e della pace della notte... Ricorda, fratello mio, che la moneta che fai scivolare nella mano avvizzita, protesa verso di te, è l'unica catena d'oro che unisce il tuo ricco cuore al cuore amorevole di Dio.
(liberamente tratto da testi vari)

Considerazioni a proposito dell'artista Gutai

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Nella decade che segue la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone condivide si può dire in tutti i suoi aspetti il destino degli sconfitti: il processo di democratizzazione, somministrato a marce forzate sotto lo stretto controllo americano, e la ferma repressione di tutti quei movimenti più o meno spontanei che potevano essere in odore di comunismo.
Il paesaggio, brutalizzato dagli attacchi convenzionali e poi, in maniera eclatante, dalla bomba atomica, denuncia tutte quelle irregolarità di sviluppo, quelle accelerazioni ad alta tecnologia e quegli abbandoni parziali e fluttuanti di speculazione, sfruttamento e degrado che in seguito diventeranno rapidamente tipici di tutte le aree industrializzate del Primo Mondo.
Con contrasti ancora più marcati e pervasivi che altrove: offerti, tra l'altro, dalle contraddizioni latenti ed esplosive innescate dal vertiginoso aumento demografico unito aduna scarsa, immatura e posticcia abitudine al rispetto dell'altro e dei diritti umani, nel contesto di un territorio ad altissimo rischio ambientale e sismico.
Insomma: una situazione straordinaria per le arti belle, che infatti accelerano il terremoto, producendo un corto circuito di prassi, pensiero, tradizione e sovversione che ne in Europa ne in America era stato possibile ottenere fino a quel momento.
In altre parole: in Giappone vengono raccolte le membra sparpagliate del linguaggio artistico che dalla Guerra in avanti si esprimeva soltanto attraverso deflagrazioni ed accensioni estemporanee, nel migliore dei casi, per individualità pulsionali, incapaci di coordinarsi in stile se non a prezzo della perdita della propria eccezionalità soggettiva.
In Giappone invece il problema dello stile è aggirato e brillantemente risolto; le membra vengono raccolte e coordinate in un corpo unico che incarna precisamente le esigenze di cui l'arte, l'arte come fatto umano, sapeva farsi carico in quel momento.
Questo corpo si chiama Gutai, cioè concreto, materializzato. Pochi dubbi, infatti, potevano restare anche ai più nostalgici, a proposito della sopravvivenza dello spirito o dell'astratto.
La sua epoca era stata conclusa da tempo, suggellata da quelli che Goya avrebbe definito i "disastri della guerra" e che continuavano a ripetersi con variazioni sempre nuove, e sempre più atroci, accuratamente predisposte dal mondo intero durante gli intervalli di pace.
Di quella condizione che di lì a qualche anno Marcuse avrebbe definito la "logica dell'irrazionale", incommensurabile per spietatezza, l'arte si fa carico attraverso una radicalizzazione del sentire effettuata nelle opere; immediata, urgente, non compromissoria.
Questo è Gutai, di cui Shozo Shimamoto è uno dei mèmbri più precoci e più attivi. Passata la fase disastrosa del terrore atomico, Yoshihara, il maestro fondatore di Gutai, scende dalla montagna, dove si era ritirato in inevitabile silenzio, per tradurre il pensiero in azione coordinando intorno ad essa l'intensa produzione sperimentale dei giovani giapponesi.
Shimamoto è fra questi. Il suo lavoro, negli anni Cinquanta, fase eroica di Gutai, si caratterizza immediatamente per una sovrana insofferenza dei limiti consustanziali allo stile inteso all'occidentale.
Il suo stile, che comunque si delinea, prende forma appunto da questa considerazione aperta dell'opera, centro di implosione e concentrazione di istanze sino a quel momento separatissime: come, ad esempio, lo sfregio, lo spazio, il quadro, la pietra, la macchina bellica, la pittura, i passi.
Sarebbe assurdo pensare a Gutai come ad un gruppo di artisti che svolgono separatamente un compitino pittorico, prossimo all'informale europeo ed americano, e una deflagrante attività di destabilizzazione scenica a base di eventi che si consumano tanto rapidamente quanto fatalmente compromettono il panorama mondiale delle arti visive, insediandovisi a viva forza, come un cuneo irresistibile.
No. Pittura e azione sono risultanti dello stesso nucleo propulsivo, dello stesso pensiero sulle cose, che tende a posizionarsi proprio sul cuore pulsante del linguaggio contemporaneo perché non ne rispetta le forme e la buona creanza, le priorità e le marginalità, le province e gli imperi.
La pittura, quindi, per esempio la pittura di Shozo Shimamoto, nasce non come modalità di espressione di istanze e di impulsi soggettivi, istanze represse e sublimate che dal corpo fisico dell'uomo trapassano al sostiate indifferente e onnicomprensivo della tela, ma come atto, anzi fenomeno di materializzazione dei materiali "in sé".
La pittura è al servizio dei materiali, come l'olio o lo smalto, è la prassi di scoperta e valorizzazione delle loro qualità intrinseche.
Adottando un simile punto di vista, già intorno alla metà degli anni Cinquanta, Gutai precede, almeno nei lineamenti teorici, artisti come Piero Manzoni eYves Klein, anche se la sua sintassi resta sostanzialmente apparentata a quella dell'informale.
D'altra parte, una volta rimosso qualsiasi equivoco di ordine estetico, una volta posto l'accento più sul processo di esecuzione dell'opera che sull'oggetto che ne deriva, fatta piazza pulita da ogni chimerico chiacchericcio a proposito dell'astrazione ribadendo che le opere Gutai non sono astratte, non appare ancora necessario liberare la superficie anche dal colore, anche dalla macchia, anche dalla traccia delle violenze subite ed auspicate, per immergerla semplicemente nel vuoto, trasparente ed afasico.
Non a caso nell'informale europeo, e soprattutto in quello che scimmiotta talentosamente proprio la scrittura e la gestualità giapponese come accadde a Mathieu, Gutai riconosce ed apprezza un certo clima naive, insofferente di forme precostituite e pieno di tensione verso l'origine delle cose.
L'informale, in realtà, questa formula abusata ed incomprensibile, in realtà probabilmente non è naive ma per certi versi è sicuramente liberatorio e decongestionante, almeno nell'immediato.
Con la differenza che la liberazione di certe istanze soggettive e pulsionali caratteristica dell'espressionismo astratto tende a risolversi in una fruttifera operazione di mercato, in una banalizzazione del linguaggio e in una chiusura sempre più serrata verso la ripetitività più stantia e demoralizzante e solipsistica, a fronte della quale la piazza pulita tanto del "vuoto" metafisico Kleiniano quanto del "pieno" ironico e caustico manzoniano appare come una cura necessaria, inevitabile e non sufficiente.
Gutai invece carica l'intervento pittorico di una speciale forza centrifuga che tende a risolvere l'oggetto nell'azione, a dilatare il significato e la possibile portata espressiva del materiale ponendolo in relazione con il corpo dell'artista.
Per questo, in area Gutai, non risulta necessario attraversare un processo di azzeramento che elida l'eccesso soverchiante di materia umorale e ben presto priva di alcun senso storico. Non c'è compiacimento. L'opera va intesa non come sublime compimento di una ricerca estetica e linguistica ma come testimonianza, profondamente concreta e per così dire vissuta, di un accadimento traumatico, portatore e foriero di "altro" esistente: altro da pensare, da toccare e da sentire.
Conseguentemente l'artista occupa la scomoda ma interessante posizione del testimone, il primo a sorprendersi, ad allarmarsi, a soffrire di quanto viene accadendo sotto ai suoi occhi. L'intervento sulla superficie porta alla creazione di uno spazio imprevisto, di fronte al quale ogni preconcetto stilistico appare inaffidabile e limitato.
Alla luce di queste considerazioni, il gesto automatico va riferito non alla mano o all'inconscio ma alla materia, alla carta, agli smalti. L'artista semplicemente li lascia fare, senza preoccuparsi dell'esito.
"L'automatismo" ha scritto Yoshihara, "necessariamente sorpassa l'immagine dell'artista". Niente di astratto, quindi, se ancora ci fossero dubbi in proposito.
Una carta lacerata ed accesa di prevaricante energia cromatica e segnica giace senza residui ne rimandi ne riserve accanto ad una passerella di assi instabili, traballanti e minacciose che tentano i passi del viandante, costringendolo all'attenzione nei confronti di tutto ciò che gli appare normale, e non lo è, minando la sua tranquillità di uomo sicuro del proprio cammino nella storia.
E giace accanto ad una pietra immobile che si comporta come e meglio del pennello o della spatola e spacca bottiglie intere di colore liquido lanciatole contro in un gesto altamente ritualizzato e pieno di consapevoli richiami alle tradizioni marziali, a sua volta equivalente del cannone che spara contro tele inermi getti furiosi di colore.
A tutto questo e molto più, Shozo Shimamoto ha assistito in pochi anni.
I suoi interventi, i suoi lavori assomigliano tutti ad altrettanti modi di lasciare che le cose si compiano: una delle poche armi efficaci per non arrecarsi come un morto su un formulario di successo e non perdere di vista la posizione etica dell'artista in un mondo sempre più conseguente con le proprie recenti e lontane, spaventose premesse.
Tratto da
"Shozo Shimamoto Italian Festival"
Testi di Martina Corgnati, Barbara Grimani, Enrico Mascelloni, Sarenco

lunedì 19 novembre 2007

L’informale in Italia

Francesca Comisso

Come sostiene lo storico Maurizio Calvesi, in Italia si può parlare di pittura informale
solo nella seconda metà degli anni cinquanta, come di una pittura caratterizzata peraltro
dalla presenza di una componente ricollegabile in vari modi alla tradizione del
Futurismo. Questa ipotesi trova la conferma più evidente nella pittura di Emilio
Vedova, da quella astratta d’inizio anni ’50, costruita su una dinamica tensione di linee,
eredi delle linee-forza futuriste, a quella gestuale, in cui persiste un dinamismo
sincopato e impetuoso che lo differenzia dagli artisti americani. La sua arte, nutrita da
un profondo studio dell’espressionismo tedesco – in particolare dell’opera di
Kokoschka – è concepita in termini di “protesta” ed è pertanto fortemente legata al suo
impegno etico e politico, che lo aveva portato, tra l’altro, a militare nella resistenza
partigiana. Ha fatto parte del gruppo Corrente, poi del Fronte nuovo delle arti e, per un
anno, del gruppo degli otto promosso dal critico e storico Lionello Venturi.

Nell’Informale, oltre al segno, inteso come diretto tracciato del gesto dell’artista, cui si
attribuisce un nuovo valore di presenza esistenziale, assume un ruolo centrale la
materia, manifestazione concreta di quel mondo “delle cose” con cui l’artista entra in
rapporto. La tela del quadro diventa quindi il luogo di questo incontro con il mondo.

L’artista che più di altri ha fatto della materia il centro della propria ricerca linguistica è
Alberto Burri che, all’inizio degli anni ’50, realizza opere in cui la pittura si affianca
alla materia “bruta” dei sacchi di juta, cui seguono i legni, i ferri, la plastica, sui quali
l’artista “agisce” in modo inedito e drammatico. Le cuciture a vista dei sacchi, le
slabbrature e le bruciature dei legni (le “bruciature” datano dal 1956), i contorni
anneriti delle plastiche, registrano il gesto-azione dell’artista che interviene sulla
materia, ne ricalca i processi di trasformazione, immedesimandosi infine con il
trascorrere del tempo. Al centro del suo lavoro è dunque l’espressività intrinseca della
materia, che viene sollecitata a manifestarsi, con l’azione praticata su di essa
dall’artista.
Dal 1949 al 1951 Burri ha fatto parte del gruppo Origine insieme a Giuseppe
Capogrossi, Ettore Colla e Mario Ballocco, tutti astrattisti, sebbene impegnati in
ricerche diverse (astrazione geometrica: Ballocco; elaborazione di una sorta di alfabeto
in un unico segno-forma modulato in infinite varianti: Capogrossi; sculture di residui
metallici saldati in assemblage leggeri: Colla).
Nel 1950, presso la galleria gestita dal gruppo, Burri espone opere realizzate con l’uso
di catrami, insieme ai Gobbi, quadri caratterizzati da una estroflessione della superficie
della tela (ottenuta con l’ausilio di due rami incrociati dietro la tela) che si dilata verso
lo spazio suggerendo la possibilità della superficie di “accogliere” e “andare incontro”
al mondo”, di presentarlo piuttosto che essere solo il luogo della sua rappresentazione
(esperimento che, nei primi anni sessanta, troverà nuove formulazioni a carattere
ambientale nelle opere di Enrico Castellani). L’anno successivo recupera e sviluppa la
tecnica del collage, impiegando stracci, sabbia, gesso e pittura, mentre dal 1952 inizia a
utilizzare grandi sacchi di juta sui quali agisce con cuciture e rammendi. Già nel 1951 il
gruppo Origine si scioglie ma continua a operare a Roma fino al 1956 come galleria,
sostenendo le ricerche di molti giovani artisti.
Sebbene l’opera di Burri costituisca uno dei più rilevanti esiti della ricerca informale
italiana, il suo valore si estende oltre i confini di quest’orizzonte temporale ed estetico.
“Utilizzando le possibilità di trasformazione dei materiali e considerando le materie
contemporaneamente come “cose” e “segni”, Burri riapre infatti la strada al rapporto
dell’arte con una realtà che non è quella del gesto isolato ed individuale della stessa arte
informale” (Carolyn Christov-Bakargiev, in cat. mostra Alberto Burri, Palazzo delle
Esposizioni, Roma). Il suo ricorso al collage, che trova un precedente prossimo negli
esperimenti “polimaterici” del futurista romano Prampolini, attinge a materiali della
vita quotidiana carichi di memoria, come nel caso dei logori frammenti di sacco di juta,
o a materiali in sé non espressivi, come le lamiere di ferro o i fogli di legno o di
plastica, ma sollecitati con l’energia viva del fuoco. Esperienze, queste, che avranno
una riscontro diretto nei combine paintings dell’americano Robert Rauschenberg (opere
dove la pittura si affianca a collage e assemblage, e dove l’arte si pone in relazione con
immagini e oggetti della vita quotidiana. Cfr. lez. 3 e 4), ma anche nelle ricerche di
natura processuale dell’arte povera.

Tra gli artisti italiani più significativi in ambito internazionale oltre a Burri vi è Lucio
Fontana, già attivo nell’ambito dell’astrazione degli anni ’30 e spesso annoverato tra i
protagonisti dell’informale, sebbene la sua opera non sia interamente ascrivibile a
quest’area di ricerca. I suoi buchi, e poi tagli sulla tela, costituiscono un’inedita variante
alla poetica del gesto. Non si tratta di violare la superficie del quadro, di sollecitare la
materia come nel caso di Burri, bensì di aprire un varco verso uno spazio “altro”
illimitato, mettendo irrevocabilmente in crisi la funzione del piano come schermo per la
rappresentazione. Lo spazio non è più un soggetto riprodotto sulla tela, poiché
quest’ultima diventa il luogo in cui lo spazio si manifesta come fenomeno. Questi
concetti, uniti ad un richiamo al mondo della tecnologia scientifica, si ritrovano nel
manifesto Spaziali del 1947, che segue il Manifesto Blanco edito nel 1946 a Buenos
Aires e sottoscritto da Fontana, alcuni amici artisti, e gli allievi dell’Accademia di
Altamira dove l’artista insegna fino al rientro in Italia. Alla base del movimento non vi
è l’elaborazione di un particolare stile pittorico, quanto l’esigenza di esprimere in modo
nuovo la relazione tra l’uomo e lo spazio che lo circonda. Tra il 1949 e il 1951 Fontana
realizza gli Ambienti spaziali, in cui forme luminescenti sospese nel buio configurano
luoghi percorribili dove lo spazio si manifesta come fenomeno esperibile e l’opera ne
diviene il veicolo (cfr. lez. 2).

Anche in Italia occorre sottolineare l’influenza attiva esercitata dal già citato critico
francese Michel Tapié. Stabilitosi a Torino, Tapié collabora con la galleria Notizie di
Luciano Pistoi dal 1958 al 1960, presentando artisti torinesi come Mattia Moreni, Luigi
Spazzapan, il gruppo giapponese Gutai, Giuseppe Capogrossi, Alberto Burri, Lucio
Fontana, Carla Accardi e scrivendo di alcuni di loro sulla rivista omonima della
galleria.
Nel 1960 Tapié fonda a Torino l’ICAR (International Center of Aesthetic Research),
uno spazio di esposizione e di dibattito attivo fino al 1977, quando ormai la stagione
dell’informale aveva da tempo ceduto il passo a nuove ricerche. Questo luogo, ubicato
in un palazzo cinquecentesco di via della Basilica, si rivela nel suo primo periodo di
attività un polo culturale importantissimo, nonché un esempio inedito di spazio
espositivo a metà strada tra il museo e la collezione privata. Definito anche “Musée
Manifeste”, esso rispecchia l’attività di critico militante del suo ideatore: “Tapié vi
realizza uno degli eventi più importanti del suo iter: la possibilità di presentare, in una
esposizione permanente articolata in spazi di tipo museale su due piani, e di
puntualizzare in mostre personali, gli artisti che aveva seguito fin dal 1946, e con i
quali aveva costruito la teorizzazione dell’art autre, fino ai Gutai e ai nuovi” (M.
Bandini, Un art autre e altri scritti di estetica 1946-1969 di Michel Tapié de Céleyran,
Nike, Milano 2000, p. 31).