martedì 30 ottobre 2007

IL NOVECENTO Caratteri generali sul Novecento

RICERCHE A CURA DI D. PICCHIOTTI

Mai come nel Novecento la cultura artistica ha conosciuto una tale velocità di evoluzione. Nel corso di questo secolo le novità e le sperimentazioni artistiche si sono susseguite con ritmo talmente incalzante da fornire un quadro molto disomogeneo in cui è difficile la organizzazione del tutto in pochi schemi interpretativi. Decine e decine di movimenti e di stili si sono succeduti, esaurendo la loro presenza, a volte, nel giro di pochi anni o al massimo di qualche decennio.
La storiografia di questo secolo, nella maggior parte dei casi, risulta un elenco, più o meno dettagliato, dei tanti movimenti e protagonisti apparsi alla ribalta della scena artistica. Ciò, tuttavia, fornisce scarsi riferimenti di catalogazione critica. Un diverso approccio all’interpretazione artistica del Novecento può ottenersi ricorrendo a categorie dell’àmbito culturale più generali. In particolare, con riferimento agli inizi del Novecento, le categorie critiche più agevoli risultano soprattutto tre:
1. la comunicazione
2. la psicologia
3. il relativismo.

1. La comunicazione

La comunicazione è quell’atto mediante il quale si ottiene una trasmissione di informazioni da un soggetto (emittente) ad un altro soggetto (ricevente). Il mezzo di trasmissione della comunicazione è il linguaggio. Affinché avvenga una comunicazione, condizione essenziale è che il linguaggio deve essere conosciuto da entrambi i soggetti: l’emittente ed il ricevente.
Nell’ambito dell’arte molti possono essere i linguaggi utilizzabili: dalle parole (poesia) alle immagini (pittura), dai suoni (musica) ai movimenti del corpo (danza) e così via. Alcuni linguaggi posseggono una universalità, quali la musica, che possono in genere essere compresi da tutti. Altri linguaggi richiedono una conoscenza specifica: per poter leggere una poesia bisogna conoscere la lingua in cui è stata scritta.
Le immagini possono essere considerate un linguaggio anch’esso universale, purché esse rimangano nell’ambito della rappresentazione naturalistica. Ricordiamo che definiamo «naturalistiche» quelle immagini che propongono una rappresentazione della realtà simile a quella che i nostri occhi propongono al cervello. Le immagini naturalistiche rispettano i meccanismi fondamentali della visione umana: la prospettiva, il senso della tridimensionalità, la colorazione tonale data dalla luce, e così via.
Il naturalismo è sempre rappresentazione della realtà in quanto ne segue le leggi fondamentali di strutturazione. La gran parte dell’arte occidentale ha sempre utilizzato il naturalismo per la rappresentazione artistica. Ciò ha permesso all’arte figurativa di essere un mezzo di comunicazione più popolare e diffuso che non la scrittura.

Nel corso dell’Ottocento, la nascita prima della fotografia e poi della cinematografia, ha permesso la riproduzione della realtà con strumenti tecnici pressoché perfetti. Ciò ha decisamente tolto alla pittura uno dei suoi scopi ritenuti specifici: quello di riprodurre in immagini la realtà. Se la cosa poteva apparire negativa, di fatto ha imposto alla pittura una diversa impostazione del suo fare. Abbandonato il terreno della rappresentazione, e quindi del naturalismo, l’arte figurativa ha cominciato ad esplorare i vasti ed inediti territori della comunicazione.
In sostanza, l’arte moderna non ha più interesse a «rappresentare» la realtà. L’arte moderna usa le forme per «comunicare» pensieri, idee, emozioni, ricordi e quanto altro può risultare significativo. Pertanto, nell’approccio all’arte moderna, non bisogna mai porsi l’interrogativo, guardando un’opera d’arte, cosa essa rappresenti ma cosa essa comunichi.

Tuttavia, la comunicazione richiede sempre un linguaggio che deve essere noto sia all’artista sia al fruitore dell’opera. Il naturalismo, abbiamo detto, è un linguaggio universale in quanto rispetta le regole universali della visione umana. L’arte moderna, abbandonando il naturalismo, di fatto abbandona il linguaggio comunicativo più diffuso e popolare. E così è costretta, ogni volta, ad inventarsi un nuovo linguaggio. Con il rischio che i linguaggi nuovi non vengono sempre assimilati e compresi, producendo di fatto l’incomprensibilità del messaggio che l’artista voleva trasmettere.
E ciò produce un singolare paradosso: l’arte moderna vuole solo comunicare ma per far ciò sceglie spesso la strada della incomunicabilità. O, per lo meno, impone, prima di capire il messaggio, la necessità di studiare il nuovo linguaggio utilizzato dall’artista. Ciò comporta che l’arte moderna necessita di un approccio «colto». Solo studiando da vicino le problematiche, connesse ai movimenti ed ai singoli artisti, diviene possibile comprendere il significato di un’opera d’arte.
2. La psicanalisi
La nascita della psicanalisi, grazie a Sigmund Freud, ha rivoluzionato il concetto dell’interiorità umana. Se prima l’articolazione della psiche veniva posta sul dualismo ragione-sentimento, ora viene spostata sul dualismo coscienza-inconscio.
L’inconscio è quella parte della nostra psiche in cui sono collocati pensieri ed emozioni nascoste, le quali, senza che l’individuo se ne renda conto, interagiscono con la sua coscienza orientando o influenzando le sue preferenze, motivazioni e scelte esistenziali.
L’aver individuato questo nuovo territorio dell’animo umano ha aperto notevoli possibilità all’arte moderna. Il linguaggio delle parole, essendo un linguaggio logico, consente la comunicazione più immediata e diretta con la coscienza delle persone, ove di fatto ha sede la razionalità umana. Il linguaggio delle immagini, data la sua natura di linguaggio analogico, si presta meglio ad esplorare, o a comunicare, con l’inconscio delle persone.
Alcuni movimenti artistici sono nati proprio con l’intenzione di tradurre in immagini ciò che ha sede nell’inconscio. Tra tutti, chi ha scelto con maggior impegno questa strada è stato soprattutto il Surrealismo. Ma tale interesse ha alimentato anche la poetica di altri movimenti avanguardistici dell’inizio secolo, quali l’Espressionismo e l’Astrattismo.
Tuttavia, rimane costante a tutti i movimenti del Novecento, la finalità di una comunicazione che sia «totale»: ossia, giunga anche ai territori più profondi e recessi della psiche umana.
3. Il relativismo
Nel corso del Novecento si assiste ad una sempre maggiore frantumazione delle epistemologie forti. Cadono le certezze, sia dovute alla religione, sia quelle riposte nella scienza, sia quelle della politica o della filosofia. L’uomo si sente sempre più immerso in un mondo incerto, dove tutto è relativo. A questa conclusione sembra giungere anche la scienza che, con la Teoria della Relatività di Einstein, porta a riconsiderare tutto l’impianto di certezze fisse su cui era costruito l’edificio della fisica.
Ad analoghe posizioni giungono gli scrittori, quali Luigi Pirandello, che con le sue opere letterarie e teatrali vuole dimostrare come la verità sia solo un «punto di vista» che varia da persona a persona. In campo filosofico la comparsa dell’esistenzialismo contribuisce a ridefinire la realtà solo in rapporto al singolo individuo.
Questo nuovo clima culturale non poteva non incidere sul panorama artistico. Venuta meno la certezza di una verità assoluta, ogni sperimentazione sembra muoversi nel campo di una preventiva ricerca di sé. Nasce l’esigenza di manifestare preventivamente le proprie intenzioni per dare le coordinate entro cui collocare la nuova esperienza estetica. E ne è la riprova il fatto che quasi tutti i movimenti avanguardistici dei primi anni del secolo nascono con dichiarazioni programmatiche, quali i manifesti, che servono proprio a questo scopo.
In seguito, la ulteriore frammentazione della ricerca artistica, rimette in gioco anche la partecipazione del fruitore dell’opera d’arte, al quale si chiede una partecipazione attiva alla significazione del fare artistico. In questo caso, l’arte, più che dare delle risposte, propone delle domande, lasciando il senso di quanto proposto alla libera, e a volte diversa, interpretazione del pubblico e dei critici. La necessità di un rapporto così problematico all’arte contribuisce in maniera, a volte decisiva, a rendere l’arte moderna sempre meno popolare e sempre più élitaria.
Concetto di avanguardia
I numerosi movimenti artistici sorti all’inizio del Novecento, sono stati tutti caratterizzati da una volontà di rottura con il passato. Questa forte carica di rinnovamento, li ha di fatto posti in prima linea nell’ambito delle nuove ricerche artistiche. Ciò ha determinato l’appellativo, dato a questi movimenti, di «avanguardie». Tutto il Novecento, in realtà, è stato caratterizzato da un clima di sperimentazione continua. Ma, per delimitare quelli che sono stati i primi movimenti di rinnovamento, vi è la convenzione di definirli «avanguardie storiche».
Lo spazio temporale di questo fenomeno coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale. Le prime avanguardie sorgono intorno al 1905, con l’Espressionismo; le ultime agli inizi degli anni ’20, con il Surrealismo (1924).
Parigi, nel corso del XIX secolo, si era affermata come la capitale europea in campo artistico. Il fenomeno delle avanguardie storiche interessa invece tutta l’Europa, anche se Parigi continua a conservare un ruolo determinante nel campo artistico. Le prime due avanguardie sorsero infatti nella capitale francese. Nel 1905, si costituì il gruppo dei Fauves, che rappresenta il primo movimento di ispirazione espressionistica. Nello stesso anno l’Espressionismo si diffuse soprattutto in Germania e nei paesi nordici. Nel 1907, grazie a Picasso e Braque, sempre a Parigi sorse il movimento del Cubismo.
Anche il Futurismo, che è un’avanguardia decisamente italiana, partì da Parigi. Qui, infatti, sul quotidiano Le Figaro, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò nel 1909 il «Manifesto del Futurismo». Il Cubismo e il Futurismo produssero influenze notevoli in Russia, dove in quegli anni sorsero movimenti quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo.
Anche la seconda avanguardia italiana di quegli anni, la Metafisica, in embrione nacque a Parigi, dove Giorgio De Chirico, il massimo rappresentante del movimento, svolse parte della sua attività giovanile.
Una cesura notevole nello sviluppo delle avanguardie fu determinato dallo scoppio, nel 1914, della prima guerra mondiale. Numerosi artisti furono costretti a partire per il fronte bellico, e molti di essi morirono in guerra. A Zurigo, nella neutrale Svizzera, si rifugiarono numerosi artisti ed intellettuali, e qui nacque, nel 1916, il movimento di maggior rottura tra le avanguardie storiche: il Dadaismo.
Dal Dadaismo e dalla Metafisica, nel 1924, nacque quella che viene considerata l’ultima delle avanguardie storiche: il Surrealismo. Anche qui, il centro di maggior irradiamento del nuovo movimento fu soprattutto Parigi e la Francia.
Infine, pur se non può essere considerato un movimento omogeneo e compatto, le avanguardie storiche produssero il fenomeno di maggior novità nell’arte del Novecento: l’Astrattismo. L’abbandono definitivo della mimesi naturalistica avvenne intorno al 1910, grazie soprattutto ad un artista di origine russa, ma operante in Germania: Wassilj Kandiskij. La sua formazione artistica è di matrice espressionistica, tanto che l’Astrattismo, nella sua fase iniziale, può essere considerato un estremo limite dell’Espressionismo. In seguito, l’Astrattismo conobbe sviluppi notevolissimi, divenendo, soprattutto nel secondo dopoguerra, terreno fertile per numerose sperimentazioni, che attraverso l’arte Informale e l’arte Concettuale, arrivano fino ai giorni nostri.
Il fenomeno delle avanguardie si spense intorno agli anni ’30. La foga rinnovatrice aveva momentaneamente esaurito la sua carica rivoluzionaria. A questo momento di pausa artistica, corrispose, in quegli anni, l’affermazione, in campo politico, di regimi totalitari e reazionari, quali il fascismo in Italia e il nazismo in Germania, che si fecero fautori di un indirizzo artistico di stampo tradizionalistico e accademico. Avversarono apertamente i nuovi stili artistici, arrivando in Germania a definirli «arte degenerata», eliminandola dai musei e dalle collezioni statali. Molti esponenti artistici che avevano operato in Germania furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti, dove trasferirono molte delle novità culturali prodotte in Europa. Un fenomeno analogo accadde in Russia, dove, sotto Stalin, si affermò un indirizzo artistico, definito «realismo socialista», che rifiutava la sperimentazione, in favore di un’arte di matrice popolare, con forti contenuti ideologici.

Ma le avanguardie storiche avevano oramai totalmente modificato il concetto di arte visiva. In pochi anni avevano accumulato un patrimonio enorme di idee e di concetti, che divennero la vera eredità per tutti i futuri movimenti che si sono sviluppati in campo artistico fino ai giorni nostri.

Dall' "opera aperta" all' "opera chiusa":

di Lidia Pizzo e Vittorio Pannone


L'arte non è forma di conoscenza razionale e non ha quindi valore gnoseologico, se lo avesse avrebbe bisogno della consapevolezza che solo un apparato filosofico, scientifico, ecc.... potrebbe darle. Ciò è estraneo all'essenza dell'arte, perchè se l'opera d'arte mettesse in evidenza una mancanza verrebbe meno al suo scopo che è quello di essere forma totale e totalizzante.
La forma , infatti, non va intesa come morphè, forma sensibile, ma come èidos, forma intellegibile che ingloba in sè anche il primo termine superandolo. Tuttavia, è da tenere presente che anche la morphè ha sempre contenuto una certa dose di astrazione.
Infatti, per potere dominare il reale gli artisti si sono sempre serviti di canoni estetici e di gusto che hanno caratterizzato un'epoca. Sono nati così determinati stili che hanno portato a vedere, poniamo il corpo umano, secondo una certa tipizzazione: bizantina, classica, barocca, neoclassica, ecc....Oggi il processo di astrazione si è assolutizzato per diventare espressione di un sentire puro,duri un attimo o più è ininfluente, la creatività è un bisogno insopprimibile dell'uomo e perciò essa va espressa in qualunque modo e con qualunque mezzo.
Comunque sia, una volta conformata l'opera, essa è un oggetto del tutto, così come è, in realtà, l'uomo che con l'opera d'arte, nel nostro caso, condivide il concetto di cosalità.
Ma se l'arte è cosa essa è un fatto reale e quindi si può definire come correaltà messa in forma da un soggetto che ha presentificato l'attimo, gli attimi della creatività. Essa è affidata ed esprime l'e-motività dell'artista, pertanto contiene la totalità del reale, per raggiungere la quale l'artista stesso riesce ad anticipare nuove forme che questa totalità permettono di penetrare. La presentificazione dell'attimo della creatività si manifesta attraverso mezzi contingenti (colore, massa, superficie, ma anche suono, parola, ecc...) e manifesta un sentire puro, assoluto, fuori dallo spazio e dal tempo, ma che nello spazio e nel tempo si attualizza.
Quindi, già fin dall'inizio l'opera d'arte contiene la totalità, l'assoluto che di per se stessi sono difficili da penetrare.
La morphè dell'opera custodisce ben chiuso il suo segreto, essa è come un guscio difficile da penetrare, onde spesso l'incomprensione dell'opera. La penetrazione, infatti, richiede uno sforzo sovrumano per alleggerire il quale ci si serve di moduli, decodificazioni, o altro affidati alla critica, alla storia, all'estetica, alla filosofia, all'antropologia, alla semiotica, ecc... La loro funzione "reale", quindi, è quella di creare gli strumenti per penetrare l'opera.
Ma questi strumenti sono estranei all' 'esserci' dell'opera, che ribadiamo , non ha funzione gnoseologica, ma solo la funzione di "rivelare l'attimo della totalità della creazione".
Così, fino ad oggi, l'opera d'arte è diventata tale solo ed esclusivamente dopo una valutazione post factum e ciò ha sempre implicato l'applicazione, come detto sopra, di determinati canoni di giudizio estetico e di gusto espressi da un soggetto. Ma nel momento in cui il soggetto compie una valutazione, attraverso un suo processo logico, il ragionamento è soggettivo e vale solo per lui. Il ragionamento, infatti, per essere oggettivo e quindi assoluto deve andare fuori dalla logica e perdere il suo carattere sillogizzante, deve essere a-logico, deve guardare all'attimo che ferma qualunque accadere e lo mostra.
E' questa "essenza" del mostrare che si deve cogliere, ogni parola è d'impaccio. In altri termini, nell'opera d'arte bisogna cogliere ciò che sta al di là del pensiero senza usare il pensiero e l'intelligenza classificante. Bisogna scendere nel "silenzio" e nell' "abisso" dell'opera, toccare il suo "centro" senza intermediazione alcuna. Se consideriamo l'opera d'arte come uno specchio, il soggetto che guarda si trova davanti allo specchio ad una distanza tale che gli permette la visione perché decodifica l'opera secondo una sua personale ermeneutica. E' necessario annullare la distanza, i codici, perché ogni distanza ci distoglie dall'opera. Il nostro compito è quello di penetrare, di entrare nello specchio, eliminare la "distanza", per "sentire" l'opera come totalità e, pertanto, non totalità fuori di noi ma dentro di noi, non totalità fuori da lei ma dentro di lei, in lei.
Ciò può avvenire abdicando, come dicevamo, ad ogni sillogizzazione che possa "spiegare" l'opera che invece deve essere recepita come con-templa-azione sim-patetica, come una aisthesis colta nel suo significato etimologico di sensibilità, emozionalità, affettività. Una volta che l'opera è contemplazione simpatetica avverrà che l'aisthesis dell'opera e l'aisthesis dell'astante coincideranno. Le due spiritualità sono entrate in comunione e quindi l'opera come morphè e come eidos si chiuderà attorno all'astante.
Guariti dall'asfissiante sindrome dell' "opera aperta" si troverà nell' "opera chiusa" l'intensità dell'attimo originario della creazione, l'epi-fanicità senza frapposizione di alcun logos e pertanto sarà "ri-trovato" l'attimo contemplativo da cui l'opera è scaturita.
L'astante ha eliminato qualsiasi distanza tra lui e l'opera e attraverso l'aisthesis solamente sarà diventato "a-stante" capace di cogliere l'opera nella sua essenza di totalità, di astanza totalizzante. Il soggetto è stato spinto verso il "centro" dell'opera, nel suo nucleo, verso, cioè, il centro del centro.
Adesso, se apparentiamo l'opera alle pareti di una stanza, chiusa qualunque apertura con noi dentro la stanza, troviamo buio, nulla, vuoto. Ora, al buio perdiamo i punti di riferimento. La coscienza senza luce si ripiega in se stessa. Infatti, per percepirci come soggetto abbiamo bisogno dell'alterità. Ma, combaciata con noi l'alterità, in questo caso il nulla dell'opera, il soggetto scompare in questo nulla.
Il noi, qualunque noi, si identifica col vuoto, in quanto "dentro" l'opera si annulla, come si diceva, l'io e il tu, quindi il soggetto implode insieme all'essenza dell'opera che è totalità-nulla. L'implosione coscienziale, che in ultima analisi ci ha portato al centro del centro dell'opera, ci fa percepire allora che "il fine" dell'opera è "nulla","vuoto", "buio".
Raggiungendo il nulla abbiamo eliminato il movimento che è vita, che è andare verso l'esterno, mentre stando all'interno "viviamo" la stasi, il nulla. A questo punto scatta la paura del nulla, la paura dell'origine, la paura originaria, la paura del mistero, contenendo il nulla tutti i misteri che possono essere solo colti ma non decodificati.
Così, se il nulla dell'opera è il nulla originario, esso ci fa sprofondare nel "mistero" della creazione. Per esorcizzare la paura del nulla e quindi della creazione l'uomo ha utilizzato, ad esempio, l'estetica, che ha determinato la "distanza", dominando, così, la paura del nulla, la paura della creazione. Il vero dramma dell'uomo non è raggiungere il nulla ma "viverlo", infatti "vivendolo" esso ci porta al fondamento, diventa Fondamento assoluto.
Ora, penetrati nel nulla attraverso una implosione, ci "saldiamo" ad esso, ne diventiamo parte, ma in quanto parte non possiamo coglierlo nella sua totalità. Il minore non può contenere il maggiore. La totalità del nulla non può entrare nel nostro nulla a lei saldato.
Allora, se il nulla è totalità, esso contiene tutto, anche la luce e di essa la coscienza che "vive" il nulla si serve per staccarsi, dissaldarsi dalla totalità del nulla, per percepire il mistero, qualunque mistero di una creazione, anche se esso risulta sempre indecodificabile.
Così, se attraverso la luce, che prima era stata abolita penetrati dentro l'opera, avevamo colto il nulla, ora isolando la sola luce riusciamo a ri-percepire l'alterità e rendiamo possibile la creazione che non decodificherà, come detto, il suo mistero ma lo esprimerà. Arrivati attraverso l'aisthesis al nulla, dal nulla si riparte per avere la creazione che pur sempre all'interno rimane nulla affinchè il processo possa ricominciare.
La differenza sta nella luce ed è "lei" che fa la differenza, che permette cioè la creazione che sostanzialmente risulta "nulla-illuminato", ma questa volta cosciente, in quanto il soggetto sceso al centro dell'opera nel buio, nel vuoto, nel nulla, li ha vissuti. Infatti, solo nel buio illuminante della coscienza, che si rivela dunque come volontà, è possibile la consapevolezza totalizzante.
Se c'è sbaglio in quanto detto, ne siamo ben lieti. L'errore è il "buio", fatecelo vivere, creeremo ''magari un testo con i vostri interventi e se siete artisti, ispirati dal nulla potremo tutti insieme realizzare'.. comunque sia contattateci. Accettiamo tutto dalle contumelie, ai complimenti ma con moderazione....

Considerazioni a proposito dell'artista Gutai

Artina Corgnati

Nella decade che segue la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone condivide si può dire in tutti i suoi aspetti il destino degli sconfitti: il processo di democratizzazione, somministrato a marce forzate sotto lo stretto controllo americano, e la ferma repressione di tutti quei movimenti più o meno spontanei che potevano essere in odore di comunismo.
Il paesaggio, brutalizzato dagli attacchi convenzionali e poi, in maniera eclatante, dalla bomba atomica, denuncia tutte quelle irregolarità di sviluppo, quelle accelerazioni ad alta tecnologia e quegli abbandoni parziali e fluttuanti di speculazione, sfruttamento e degrado che in seguito diventeranno rapidamente tipici di tutte le aree industrializzate del Primo Mondo.
Con contrasti ancora più marcati e pervasivi che altrove: offerti, tra l'altro, dalle contraddizioni latenti ed esplosive innescate dal vertiginoso aumento demografico unito aduna scarsa, immatura e posticcia abitudine al rispetto dell'altro e dei diritti umani, nel contesto di un territorio ad altissimo rischio ambientale e sismico.
Insomma: una situazione straordinaria per le arti belle, che infatti accelerano il terremoto, producendo un corto circuito di prassi, pensiero, tradizione e sovversione che ne in Europa ne in America era stato possibile ottenere fino a quel momento.
In altre parole: in Giappone vengono raccolte le membra sparpagliate del linguaggio artistico che dalla Guerra in avanti si esprimeva soltanto attraverso deflagrazioni ed accensioni estemporanee, nel migliore dei casi, per individualità pulsionali, incapaci di coordinarsi in stile se non a prezzo della perdita della propria eccezionalità soggettiva.
In Giappone invece il problema dello stile è aggirato e brillantemente risolto; le membra vengono raccolte e coordinate in un corpo unico che incarna precisamente le esigenze di cui l'arte, l'arte come fatto umano, sapeva farsi carico in quel momento.
Questo corpo si chiama Gutai, cioè concreto, materializzato. Pochi dubbi, infatti, potevano restare anche ai più nostalgici, a proposito della sopravvivenza dello spirito o dell'astratto.
La sua epoca era stata conclusa da tempo, suggellata da quelli che Goya avrebbe definito i "disastri della guerra" e che continuavano a ripetersi con variazioni sempre nuove, e sempre più atroci, accuratamente predisposte dal mondo intero durante gli intervalli di pace.
Di quella condizione che di lì a qualche anno Marcuse avrebbe definito la "logica dell'irrazionale", incommensurabile per spietatezza, l'arte si fa carico attraverso una radicalizzazione del sentire effettuata nelle opere; immediata, urgente, non compromissoria.
Questo è Gutai, di cui Shozo Shimamoto è uno dei mèmbri più precoci e più attivi. Passata la fase disastrosa del terrore atomico, Yoshihara, il maestro fondatore di Gutai, scende dalla montagna, dove si era ritirato in inevitabile silenzio, per tradurre il pensiero in azione coordinando intorno ad essa l'intensa produzione sperimentale dei giovani giapponesi.
Shimamoto è fra questi. Il suo lavoro, negli anni Cinquanta, fase eroica di Gutai, si caratterizza immediatamente per una sovrana insofferenza dei limiti consustanziali allo stile inteso all'occidentale.
Il suo stile, che comunque si delinea, prende forma appunto da questa considerazione aperta dell'opera, centro di implosione e concentrazione di istanze sino a quel momento separatissime: come, ad esempio, lo sfregio, lo spazio, il quadro, la pietra, la macchina bellica, la pittura, i passi.
Sarebbe assurdo pensare a Gutai come ad un gruppo di artisti che svolgono separatamente un compitino pittorico, prossimo all'informale europeo ed americano, e una deflagrante attività di destabilizzazione scenica a base di eventi che si consumano tanto rapidamente quanto fatalmente compromettono il panorama mondiale delle arti visive, insediandovisi a viva forza, come un cuneo irresistibile.
No. Pittura e azione sono risultanti dello stesso nucleo propulsivo, dello stesso pensiero sulle cose, che tende a posizionarsi proprio sul cuore pulsante del linguaggio contemporaneo perché non ne rispetta le forme e la buona creanza, le priorità e le marginalità, le province e gli imperi.
La pittura, quindi, per esempio la pittura di Shozo Shimamoto, nasce non come modalità di espressione di istanze e di impulsi soggettivi, istanze represse e sublimate che dal corpo fisico dell'uomo trapassano al sostiate indifferente e onnicomprensivo della tela, ma come atto, anzi fenomeno di materializzazione dei materiali "in sé".
La pittura è al servizio dei materiali, come l'olio o lo smalto, è la prassi di scoperta e valorizzazione delle loro qualità intrinseche. Adottando un simile punto di vista, già intorno alla metà degli anni Cinquanta, Gutai precede, almeno nei lineamenti teorici, artisti come Piero Manzoni eYves Klein, anche se la sua sintassi resta sostanzialmente apparentata a quella dell'informale.
D'altra parte, una volta rimosso qualsiasi equivoco di ordine estetico, una volta posto l'accento più sul processo di esecuzione dell'opera che sull'oggetto che ne deriva, fatta piazza pulita da ogni chimerico chiacchericcio a proposito dell'astrazione ribadendo che le opere Gutai non sono astratte, non appare ancora necessario liberare la superficie anche dal colore, anche dalla macchia, anche dalla traccia delle violenze subite ed auspicate, per immergerla semplicemente nel vuoto, trasparente ed afasico.
Non a caso nell'informale europeo, e soprattutto in quello che scimmiotta talentosamente proprio la scrittura e la gestualità giapponese come accadde a Mathieu, Gutai riconosce ed apprezza un certo clima naive, insofferente di forme precostituite e pieno di tensione verso l'origine delle cose.
L'informale, in realtà, questa formula abusata ed incomprensibile, in realtà probabilmente non è naive ma per certi versi è sicuramente liberatorio e decongestionante, almeno nell'immediato.
Con la differenza che la liberazione di certe istanze soggettive e pulsionali caratteristica dell'espressionismo astratto tende a risolversi in una fruttifera operazione di mercato, in una banalizzazione del linguaggio e in una chiusura sempre più serrata verso la ripetitività più stantia e demoralizzante e solipsistica, a fronte della quale la piazza pulita tanto del "vuoto" metafisico Kleiniano quanto del "pieno" ironico e caustico manzoniano appare come una cura necessaria, inevitabile e non sufficiente.
Gutai invece carica l'intervento pittorico di una speciale forza centrifuga che tende a risolvere l'oggetto nell'azione, a dilatare il significato e la possibile portata espressiva del materiale ponendolo in relazione con il corpo dell'artista.
Per questo, in area Gutai, non risulta necessario attraversare un processo di azzeramento che elida l'eccesso soverchiante di materia umorale e ben presto priva di alcun senso storico. Non c'è compiacimento. L'opera va intesa non come sublime compimento di una ricerca estetica e linguistica ma come testimonianza, profondamente concreta e per così dire vissuta, di un accadimento traumatico, portatore e foriero di "altro" esistente: altro da pensare, da toccare e da sentire.
Conseguentemente l'artista occupa la scomoda ma interessante posizione del testimone, il primo a sorprendersi, ad allarmarsi, a soffrire di quanto viene accadendo sotto ai suoi occhi. L'intervento sulla superficie porta alla creazione di uno spazio imprevisto, di fronte al quale ogni preconcetto stilistico appare inaffidabile e limitato.
Alla luce di queste considerazioni, il gesto automatico va riferito non alla mano o all'inconscio ma alla materia, alla carta, agli smalti. L'artista semplicemente li lascia fare, senza preoccuparsi dell'esito.
"L'automatismo" ha scritto Yoshihara, "necessariamente sorpassa l'immagine dell'artista". Niente di astratto, quindi, se ancora ci fossero dubbi in proposito.
Una carta lacerata ed accesa di prevaricante energia cromatica e segnica giace senza residui ne rimandi ne riserve accanto ad una passerella di assi instabili, traballanti e minacciose che tentano i passi del viandante, costringendolo all'attenzione nei confronti di tutto ciò che gli appare normale, e non lo è, minando la sua tranquillità di uomo sicuro del proprio cammino nella storia.
E giace accanto ad una pietra immobile che si comporta come e meglio del pennello o della spatola e spacca bottiglie intere di colore liquido lanciatole contro in un gesto altamente ritualizzato e pieno di consapevoli richiami alle tradizioni marziali, a sua volta equivalente del cannone che spara contro tele inermi getti furiosi di colore.
A tutto questo e molto più, Shozo Shimamoto ha assistito in pochi anni.
I suoi interventi, i suoi lavori assomigliano tutti ad altrettanti modi di lasciare che le cose si compiano: una delle poche armi efficaci per non arrecarsi come un morto su un formulario di successo e non perdere di vista la posizione etica dell'artista in un mondo sempre più conseguente con le proprie recenti e lontane, spaventose premesse.

Martina Corgnati

Una chiave interpretativa per capire il rapporto fra Arte e Contemporaneità

Alessandro Tempi


I diversi modi in cui, nell'età contemporanea - vale a dire quella in cui si osservano i maggiori e più conseguenti sviluppi delle tecnologie comunicazionali e si affermano effettualmente i cosiddetti mass-media - le pratiche operative dell'arte e le enunciazioni estetiche si sono poste in relazione, deliberatamente o meno, con le innovazioni tecnologiche emergenti concorrono a delineare un complesso tema di valenza storiografica ed estetica che ripropone mutatis mutandis le ragioni di un'originaria unità ideale fra arte e tecnica. A questo scopo, è utile soffermarsi preliminarmente sul senso dell'aggettivo contemporaneo e quindi sul concetto stesso di contemporaneità, poiché useremo questi termini non nella loro accezione propriamente storiografica - con rispetto alla gradualità del processo storico fra Moderno e Contemporaneo ed alla continuità e discontinuità dei fattori caratterizzanti le due partizioni. Useremo altresì questi termini secondo un'ipotesi empirica che possiamo così enunciare: la storia diventa contemporanea nel momento in cui il concetto di contemporaneità assume senso storico. Individuiamo insomma la contemporaneità nel momento in cui si stabilisce manifestamente una condizione strutturale di sincronia e/o contestualità nei processi delle relazioni umane. Corollario di questa assunzione è che la comunicazione ne diventa il criterio analitico che trova nei media comunicazionali i fattori caratterizzanti di questa condizione.

Sulla base della stessa ipotesi procediamo ad un'altra assunzione : che un discrimine fra Moderno e Contemporaneo può essere rinvenuto anche nel momento in cui inizia il movimento di distacco delle arti figurative - ed in questo senso le loro manifestazioni vengono a supporto di questa analisi - dalla loro funzione storica di rappresentazione di saperi diversi (religiosi, mitologici, letterari, morali) e quindi da una ritualità fortemente definita sul piano sociale e simbolico 1 , per scoprirsi ed assegnarsi intenzionalità e finalità del tutto autonome da un mero rapporto di specularità col mondo. Dagli Impressionisti e più ancora da Cezanne in poi, com'è noto, l'arte figurativa va concentrarsi su se stessa, sulla propria linguisticità, in uno sforzo autoanalitico teso e ridefinire i suoi domini, il suo senso, la sua stessa essenza. Nell'età contemporanea insomma essa tenderà sempre più a definirsi come sapere autonomo e come forma specifica e consapevole di conoscenza. Non che questo fenomeno non fosse in parte già avvenuto: la nascita dell'estetica moderna, nel Settecento, si pone esattamente sotto il segno dell'autonomia delle arti, ma allora le ragioni erano d'ordine teoretico e sociologico; ora sono invece interne all'autoconsapevolezza del fare artistico, alla sua intenzionalità. In questo senso, le tendenze solitamente definite formaliste, riduzioniste od analitiche vogliono appunto designare questa emancipazione dell'arte come sapere e come linguaggio

Non è un caso, dunque, che il rapporto dell'arte con la tecnologia si sviluppi proprio nell'età contemporanea: l'arte raggiunge lo stadio analitico nel momento in cui si esaurisce la sua spinta rappresentativa-oggettiva, il suo naturalismo insomma, in coincidenza con l'emergere di forme tecniche o mediatiche capaci di documentare, testimoniare, narrare, rappresentare in maniera più fedele, diretta e con effetti più estesi

È in questo quadro, del resto, che possiamo collocare il contributo delle avanguardie storiche, fenomeno completamente nuovo nella storia dell'arte e che non casualmente coincide con l'emergere di media come la fotografia ed il cinema; con esse infatti i processi generativi dell'arte rompono gli antichi rapporti con la trascendenza e si vanno a collocare sotto il segno dell'antropologia. Questa spinta all'immanenza (che include coerentemente anche quell'introflessione analitica di cui prima si parlava) ha insomma, con le avanguardie, un duplice effetto: da un lato collega l'immaginario alle logiche espressive dei nuovi media, dall'altro configura nuovi modelli comportamentali - una nuova ragion pratica, potremmo dire - rispondente alle mutate condizione antropologiche.
Intorno alla relazione fra arte e tecnologia si aggregano insomma, nell'arco incompiuto della contemporaneità, molteplici esperienze artistiche, individuali e di gruppo, ciascuna delle quali articola peculiarmente il proprio discorso tecnologico dell'arte. Sono queste peculiari articolazioni che qui ci interessa porre in luce.

Partiamo da un'enunciazione forte: il fondamento dell'arte contemporanea risiede nel suo rapporto con la tecnologia. È un'affermazione che va intesa nella sua valenza euristica e come artificio interpretativo. In realtà, essa non contraddice - tanto per riferirsi ad una delle più congrue teorie del Moderno in arte - la lettura in chiave analitica proposta da Menna, perché il passaggio dal visivo al concettuale (vale a dire la transizione verso l'autoreferenzialità e lo stato di meta-arte), che è anche tensione o ambizione verso una forma di conoscenza che sia concezione e non solo visione (o, come affermava Cezanne, creazione e non rappresentazione), viene storicamente da lontano, almeno dai prodromi secenteschi del Moderno, quando si cominciano a percepire i limiti dell'esperienza sensibile ed a capire che il mondo accessibili ai sensi non è che una modesta porzione della realtà

. La progressiva sostituzione di un universo artificiale ad un universo naturale, rispetto al quale l'arte è, dal punto di vista rappresentativo, sempre seconda rispetto alle innovazioni della traduzione tecnica delle immagini, non può che rafforzare e portare a compimento la tensione analitica dell'arte, vale a dire la sua maturazione come meta-arte, verso una forma d'esperienza in cui la componente sensibile-visiva è sempre funzionale e ancillare rispetto alla componente mentale-conoscitiva. Del resto, il momento sincronico dell'arte moderna, il suo hic et nunc operativo ed interattivo, può essere letto proprio come analogato della comunicazione istantanea.
Il rapporto fra arte e tecnologia giunge dunque a delinearsi compiutamente in quella fase storica che chiamiamo contemporaneità, ove sono riscontrabili per la prima volta peculiari processi di cambiamento: il passaggio da un universo naturale ad un universo tecnico come termine di riferimento dell'arte figurativa; l'avvio di un processo di astrazione e di messa in crisi dei fondamenti della rappresentazione visiva (in cui il fare artistico si connota anche di valenze estetiche o teoriche); la duplice polarizzazione del fare umano fra creazione artistica e creazione tecnica; l'analogia che si instaura fra la contemporaneità come dimensione dei processi relazionali e la contestualità come essenza dei processi artistici (il passaggio, come si dice in ambito concettuale, dall'opera all'operatività).
Nell'arco del contemporaneo il rapporto fra arte e tecnologia può essere agevolmente ricostruito sulla base di due criteri: la sequenza diacronica in cui, nel corso degli ultimi due secoli, si affermano tre differenti media comunicazionali (fotografia, cinema, video) e che, come suggerisce Fagone, potrebbe venire considerata alla stregua di una vera e propria periodizzazione dell'arte contemporanea; conseguentemente, il mutamento culturale che nel corso di quest'ultimo secolo ha caratterizzato la percezione del mondo tecnico da parte degli artisti, determinandone le diverse modalità d'impatto sulle loro pratiche, come pure sul loro universo di pensiero.

Il 1839 può essere considerato come termine a quo di una possibile ricostruzione delle inerenze fra arte e tecnologia. È in quell'anno (che, per una di quelle emblematiche coincidenze storiche è anche quello che vede la nascita di Cezanne), secondo una convenzione storiografica comunemente accettata, che viene ufficialmente sancita l'invenzione della fotografia come tecnica di produzione delle immagini. Pur rinviando ad un ulteriore trattazione l'esame degli effetti di questo medium sul linguaggio pittorico, bisogna nondimeno tenere conto che da quel momento l'atteggiamento della pittura è profondamente mutato sia in relazione al mondo esterno, sia in relazione al proprio statuto di disciplina espressiva. Da quel momento prendono inizio anche tutta una serie di influenze reciproche fra pittura e fotografia: tutta la tradizione pittorica e gli elementi del linguaggio figurativo costituiscono un ineliminabile fondamento normativo per il nuovo mezzo d'espressione, mentre quest'ultimo apre nuove possibilità rispetto ad aspetti particolari della tecnica pittorica (il movimento naturale, il taglio dell'immagine, il rapporto figura-sfondo, la cosiddetta profondità di campo). Ma l'aspetto più significativo di queste influenze è, com'è noto, qualcosa di esterno agli effetti puramente tecnici commisurabili sul piano della produzione dell'immagine; è la possibilità che il medium fotografico dispone di riprodurre e diffondere le opere d'arte "auratiche" o "cultuali" (la definizione è di Benjamin, ovviamente). A cagione di questa sua peculiarità, che colloca compiutamente la sua azione nel momento fruitivo del processo di comunicazione artistica, il mezzo fotografico influenzerà profondamente i modelli di crescita e di collocazione in campo sociale di ogni opera d'arte visiva.

Bisognerà attendere l'inizio del nuovo secolo, tuttavia, perché siano riconoscibili le condizioni oggettive di un mutamento culturale nella percezione del fatto tecnico da parte del mondo dell'arte. Questo mutamento, pur presentando inquietanti ombre ideologiche non meno che ambigue ingenuità stilistiche, prende il nome di Futurismo. Non che per tutto il secolo XIX il problema della tecnica fosse stato limitato ad un mero interscambio fra i linguaggi della pittura e della fotografia. Benjamin stesso ricorda infatti come l'avvento di quest'ultima vada non casualmente a coincidere con l'emergere della dottrina della "art pour l'art" : una reazione teologica, dice il pensatore tedesco, che nel respingere qualsiasi funzione sociale all'atto creativo, ne rifiuta ogni possibile determinazione da parte di elementi oggettivi. Del resto anche l'esperienza impressionista può essere canonicamente letta come precoce testimonianza di un'acquisita consapevolezza dei limiti del linguaggio figurativo nei confronti delle istanze rappresentative-oggettive alle quali il mezzo fotografico sembra in effetti fornire una sorta di "extrema ratio". Su questa stessa via si muove anche Cezanne, la cui esperienza pittorica è da più parti considerata come una vera a propria soglia dell'arte contemporanea (fondamentali a questo riguardo la lettura in chiave fenomenologica datane da M. Merleau-Ponty 6

e recentemente quella culturologica di R. Barilli 7 ), che sviluppando l'istanza impressionista di un oltrepassamento della realtà naturale, giunge a formulare per la pittura un'autenticità essenziale proprio nella sua antispecularità, come a dire che l'arte è la vera realtà, perché è rivelazione e creazione di un mondo che chiede di essere considerato oggettivamente (e quali saranno poi le conseguenze di questa "petitio" , su cui si delinea il presupposto ontologico dell'arte, sarà del resto reso manifesto nello sviluppo analitico dell'arte del XX secolo).
Già da queste considerazioni è dunque possibile capire in che modo possa configurarsi il rapporto fra arte e tecnologia; è evidente che non si tratta di semplici incidenze di un fatto tecnico quale la fotografia sulla pratica pittorica ad essa contemporanea. Il linguaggio pittorico trae infatti da questa innovazione tecnica conseguenze estreme, che vanno inscritte al quadro delle reazioni intellettuali ad un generale radicarsi delle ragioni tecnico-scientifiche nella cultura e nella società del XIX secolo e che sono parallele, non certo per caso, all'instaurarsi del sistema capitalistico occidentale. Le inerenze formali fra arte e tecnologia vanno dunque analizzate partendo dalla nuova ricollocazione del fenomeni artistici nel contesto della "zivilisation", ma allo stesso tempo individuando i presupposti estetici e culturali di una rafforzata autonomia dell'arte, che sconfina in ambiti puramente teoretici.

Le "estreme conseguenze" tratte dalla pittura sono già, all'avvio di questo secolo, un fatto compiuto, quando il Futurismo irrompe eversivamente con la sua mistica redentiva del progresso tecnico (in cui, per uno strano paradosso, riecheggia una concezione di forte ascendenza nietzscheana). Si è molto discusso sull'effettiva consistenza teorica di questo movimento e sulla sua tenuta nel confronto con le elaborazioni programmatiche delle altre avanguardie storiche. Qui mette conto ammettere che la mitologia dinamistico-macchinistica futurista rivela comunque i lineamenti di un autentico e convinto mutamento culturale nei riguardi del fatto tecnico, che non trova analoghi nelle estetiche immediatamente adiacenti. È del tutto originale, in tal senso, l'idea marinettiana di una correlazione esplicita fra universo tecnologico plasmante (una sorta di tecnomorfismo ante litteram) e la sfera delle creazioni dello spirito, correlazione che pone per la prima volta in stato di interface arte e tecnologia, cogliendo forse senza volere uno dei nodi cruciali di un'avanzata riflessione teoretica sull'arte. È a partire dai futuristi, insomma, che la coscienza artistica sa di avere un alter ego, un doppio col quale è ancora misteriosamente ma tenacemente chiamata a fare i conti. Con l'intuizione futurista, insomma, il rapporto arte/tecnologia ha modo di maturare dai semplicistici termini di una reciprocità di influenze strumentali verso la percezione di una dualità, ovvero di un legame genetico profondo, che d'allora in poi sarà difficilmente ricusabile, fra le due più alte espressioni dell'intelligenza umana.







È sintomatico che l'irruzione del mondo della tecnica nell'estetica futurista assuma il connotato della seduzione: solo così, del resto, è possibile scardinare il sistema delle belle arti, ritenuto ormai obsoleto, per ricomporre un'unità creativa senza regole o priorità, ma abbacinata dalle proprie stesse mitizzazioni. Ma è giusto negli anni in cui il Futurismo si avvia stancamente verso la sua seconda fase che in Europa prende corpo un orientamento diverso in ordine al rapporto arte/tecnologia, un orientamento che si configura, nonostante la contiguità temporale con i manifesti futuristi, un stadio più avanzato del mutamento culturale nella percezione del fatto tecnico, non più assunto come mito o simbolo di un'improbabile riforma estetica, ma come regola universale di ogni possibile produzione artistica. Si usa qui la parola produzione non a caso, perché fra i portati di quel mutamento vi è anche l'idea di una diversa collocazione ed incidenza dell'artista nella società, il che implica da un lato una sua partecipazione attiva alla trasformazione dei rapporti sociali, dall'altro il suo rapportarsi col fattore strutturale più determinante della società moderna: l'industria. In questo senso, esperienze d'avanguardia quali il Costruttivismo, il Purismo di Ozenfant e Jeanneret, il Bauhaus e l' architettura funzionalista esprimono, pur nelle loro evidenti differenziazioni tematico-stilistiche, l'esigenza di far discendere modelli e canoni artistici da una razionalità tecnologica intesa in senso forte e quindi regolativo. Da qui si comprende l'importanza decisiva che gli aspetti metodologico-progettuali hanno guadagnato nel quadro dell'operare artistico: essi infatti vanno a corrispondere una domanda di ottimizzazione e razionalizzazione del processo di produzione industriale, che si attesta così come essenziale orizzonte di riferimento estetico di quell'operare. Non va dimenticato infatti che la cultura del Bauhaus, del Purismo e del Costruttivismo introduce una visione essenzialmente laica, antimetafisica ed immanente del fatto artistico e che ciò avviene non solo per ragioni ideologiche estrinseche (il comune orientamento ideologico di queste avanguardie), ma anche e soprattutto come risultato di un processo di interiorizzazione del modello di razionalità di cui la tecnologia è considerata portatrice. Si capisce dunque che l'attenzione verso gli aspetti fruitivi-desti-nativi della produzione artistica, il suo funzionalismo insomma, che potrebbe far pensare ad un modo per recuperare la dimensione sociale dell'arte, è in realtà da considerare esattamente nella sua valenza tecnica, come elemento-chiave di una metodologia operativa che pone la progettazione, vale a dire l'elaborazione di sollecitazioni pratiche e funzionali provenienti dall'esterno della sfera strettamente ideativa, a fondamento stesso del proprio operare. Nella tensione verso la perfezione tecnica caratteristica di questo approccio è insomma dato leggere il forte richiamo razionalistico da cui tutta questa cultura modernista attinge.
Il patto razionalistico-regolistico che l'arte stringe con la tecnologia fin dal primo dopoguerra non deve tuttavia far perdere di vista che c'è un medium che più degli altri irrompe vitalmente nel campo delle arti visive, influenzandone pervasivamente la ricerca e la sperimentazione. Questo medium è ovviamente il cinema, che nell'esperienza delle avanguardie storiche assume il carattere di una "pura esperienza visiva" 8

in cui si tenta la decostruzione della continuità omogenea della realtà. Opere filmiche come "Ballet Mecanique" (1924) di Fernand Leger o "Emak Bakia" (1927) e "Etoile du Mar" (1928) di Man Ray invertono il senso illusivo che questo medium va accrescendo con la nascente industria cinematografica, cercando di mettere in luce la continua alienazione dell'uomo nell'ambiente dominato dalle logiche macchinistiche. Altre esperienze dell'avanguardia accetteranno invece di confrontarsi dialetticamente con l'ambiguità propria del mezzo cinematografico, portandone all'estremo taluni elementi strutturali quali la scenografia (con l'Espressionismo) od il montaggio (col Surrealismo), ma rivelando nel contempo in ciò una forte ed inscindibile discendenza da altre forme espressive (teatro, pittura, letteratura) verso le quali queste opere filmiche sono senza dubbio tributarie. Ma ponendo da parte la questione relativa alla definizione della specificità linguistica del mezzo cinematografico (che sarà adeguatamente affrontata da studiosi come Rudolph Arnheim e Galvano Della Volpe), uno dei contributi più significativi al formarsi di un approccio estetico al cinema (vale a dire concernente le condizioni di percezione del nuovo mezzo tecnico) è, com'è noto, quello di W.Benjamin. Il suo ragionamento è così persuasivo che merita di essere citato nella sua interezza:
"Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell'inventario, mediante l'accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l'analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell'obiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza, riesce dall'altro a garantirci un margine di libertà enorme ed imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine." 9

Verrebbe da notare che le "sparse rovine" cui Benjamin metaforicamente allude sono state in effetti un dato reale e tragico della Storia, maturato di lì a poco con l'avvento dei regimi totalitari europei e culminato nel secondo conflitto mondiale. È forse a partire da questi eventi che l'indefettibile immagine simbolico-regolistica della tecnologia, su cui molti artisti e movimenti avevano fatto confidente affidamento per i primi tre o quattro decenni del secolo, comincia ad offuscarsi. E la riflessione etico-filosofica che ne scaturirà, corroborata dalle acute analisi dei francofortesi, contribuiranno a delineare del mondo tecnologico un'immagine meno aureolata, anzi in taluni casi fortemente negativa, giacché si scopre che quel modello di riferimento creativo che per molti artisti era stata la razionalità tecnica è in realtà strutturalmente corresponsabile di ogni sistema totalitario di questo secolo e quindi alla base dei suoi meccanismi di oppressione. 10

In arte, il diffondersi di un atteggiamento di critica e di opposizione al modello di razionalità tecnologica porterà, a partire dal secondo dopoguerra, alla crisi dell'impianto concettuale del Moderno e per questa via ad una sostanziale messa in sospensione del rapporto con la tecnologia. La lunga stagione dell'Informale è in questo senso paradigmatica di un clima culturale di profonda sfiducia nei valori conoscitivi e razionali che, sul piano linguistico, si traduce generalmente in un rifiuto della forma e del rapporto fondante fra rappresentazione e realtà. Se si pensa che proprio questo rapporto era stato alla base dell'utopia moderna del dominio umano sulla natura attraverso le tecniche della riproducibilità (che ovviamente non sono solo quella della riproduzione visiva, come poteva pensare Benjamin, ma soprattutto quelle fondate sull'analogia con i processi conoscitivi ed organici della natura), si capisce quanto radicale sia stato il mutamento di orizzonte culturale entro il quale l'esperienza artistica dell'ultimo dopoguerra si è andata collocando rispetto al problema tecnologico. Che tuttavia non cessa di attirare l'attenzione di taluni artisti come Lucio Fontana, Alexander Calder, Jean Tinguely o Nam Jun Paik, ai quali si devono le prime congrue indicazioni di un modo nuovo di ripensare il rapporto arte/tecnologia ben al di là di quel fondamentalismo rappresentativo su cui ha poggiato, in ultima analisi, ogni opera d'arte visiva del passato. E questo modo nuovo costituisce un ulteriore stadio di quel mutamento culturale che siamo andati delineando finora: ferme restando le implicazioni teoriche relative alle forme di intenzionalità ed autoreferenzialità che la tecnologia rivela ad una serrata critica filosofica, il fattore tecnologico viene ora assunto non come un canone di riferimento esterno, ma più esattamente come medium, vale a dire come strumento al quale si affida il potenziamento delle capacità espressive della comunicazione artistica e la possibilità stessa della sua modellazione.

La maturazione di questo modo nuovo nei rapporto fra arte e tecnologia - sviluppatosi, come vedremo, nel contesto di talune neoavanguardie del secondi dopoguerra - ha naturalmente ricevuto straordinario impulso da un fenomeno di portata storica quale l'espansione massiva dei processi di comunicazione elettronica attraverso il video ed il computer, la cui infiltrazione capillare e pervasiva non solo nell'ambito dei processi produttivi, ma nel complesso delle dinamiche relazionali, decisionali e conoscitive è ormai ampiamente sondata e documentata.

Su un piano specifico, le implicazioni di questa nuova fase tecnologica sul campo dell'arte sono estese: i nuovi strumenti videoinformatici stanno dimostrando di possedere potenzialità linguistiche peculiari tali da sviluppare nuove sintesi figurali attraverso le quali è possibile pervenire ad altrettanto nuove definizioni dell'universo teorico e pratico della produzione delle immagini. A ciò si aggiunge il fatto che la multimedialità (ovvero la possibilità operativa di utilizzare più strumenti espressivi in uno stesso contesto produttivo) conferisce nuove possibilità di relazione fra immagine e suono, sfere ritenute tradizionalmente separate ed autonome della comunicazione artistica, ma dal cui riallineamento all'interno di una metodologia creativa può dipendere una più diffusa ed al tempo stesso più critica esperienza artistica. Inoltre, non va sottovalutato il fatto che l'adozione di strumenti e modelli tecnologici ha radicalmente trasformato il concetto ed il fine stesso dell'operare artistico: se oggi non si parla più di opera, ma di operazione (od operatività) è perché il concreto oggetto artistico è stato sostituito non già - o non solo - dalla sua immateriale dimensione mentale (come nell'Arte Concettuale), ma da qualcosa di altrettanto tangibile, perché sensorialmente esperibile, che possiamo definire come "ereignis", che vale "contemporaneamente per evento e per esperienza" 11

, insomma non una cosa ma un processo il cui significato si dà nell'atto stesso del suo farsi. Il senso di molte videoinstallazioni, ad esempio, o del telematic networking, va infatti ricercato nell'applicare la qualità artistica non ad un oggetto, ma ad un evento che, come il "gesamtkunstwerk" wagneriano, chiama a raccolta sensi ed intelligenza per esperire nuove, inedite misure di tempo e di spazio e quindi nuove definizione dell'esistente.
In questo breve e schematico itinerario storico lungo l'arco incompiuto della contemporaneità (termine storiografico che qui abbiamo assunto come ambito storico di un mutamento qualitativo delle conoscenze e di un riassetto generale del quadro culturale in cui si realizzano i processi di innovazione), si possono allora trarre almeno tre conclusioni utili ad una possibile teoria del rapporto arte/tecnologia. La prima è che fra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX la tecnica comincia ad essere considerata come un allargamento dell'orizzonte artistico, come una nuova, avanzata possibilità di riscatto dai rapporti limitanti fra mezzi ed esiti dell'operare artistico. Questa visione pertiene ad un modo tipicamente moderno di concepire i rapporti fra arte e tecnologia, secondo il quale quest'ultima è assunta come canone di riferimento tramite cui riconfigurare l'universo teorico e sociale della creazione artistica. La seconda è che con i recenti sviluppi delle tecnologie informazionali ed immaginali, il rapporto arte/tecnologia viene ad assumere una fisionomia critica: le nuove sintesi artistiche rese possibili dall'impiego creativo dei media innescano inevitabilmente un discorso metatecnologico che ci pone in condizione di riflettere criticamente sull'ovvietà e/o naturalità dei prolungamenti (ma potremmo parlare anche, mcluhanianamente di estensioni) normativi ed omologanti del modello tecnologico. La terza, infine, e qui il discorso non può fare a meno di debordare su un piano essenzialmente teoretico, è che il problema dell'inerenza della tecnica sul campo dell'arte si presta oggi anche come propedeutica ad una lettura in chiave analitica delle condizioni stesse della rappresentazione. L'universo immaginale cui le odierne tecnologie danno accesso ed al quale in maniera sempre più diffusa fa riferimento certa pratica artistica attuale costituisce un ulteriore area di applicazione del tema-chiave della riproducibilità; solo che qui non si tratta più della riproducibilità di opere visive, ma della riproducibilità tout court. Da possibilità inerente la percezione ed il momento fruitivo dell'oggetto artistico, la riproducibilità tecnologica si trasforma in condizione e strumento dell'operare e proprio in questa funzione essa può fornire, anche sul versante artistico, un insostituibile contributo metodologico ed operativo ad un'analisi avanzata di concetti quali appunto rappresentazione (che non a caso pertiene tanto all'arte quanto alla filosofia) ed immagine (su cui si gioca l'antinomia dibattuta fra significato e senso).

Per questa via è possibile comprendere cosa precisamente si debba intendere per discorso tecnologico dell'arte e perché esso, pur procedendo da origini antiche, culmini proprio nell'arco dell'età contemporanea (o della contemporaneità). Per capire meglio, bisogna tuttavia anticipare uno degli assunti basilari di questo discorso: è fin dalle sue origini che l'arte intrattiene con la tecnica un rapporto particolare, di intensa ambiguità, espresso dall'etimologia stessa del termine tecnica (dal greco téchne, che designava esattamente ciò che oggi chiameremmo tecniche e che nella cultura latina e medievale avrebbe preso il nome di artes). Per molto tempo, insomma, ciò che per noi oggi è arte è stato chiamato tecnica (dal cui ambito sono peraltro nate le "belle arti" moderne). Parimenti, di ciò che per noi oggi afferirebbe ad un ambito di ricerca scientifico-tecnologica, molto ricadrebbe nel campo delle artes di un tempo (astronomia, geometria, matematica). Tutto ciò è ovviamente spiegabile per ragioni ad un tempo storico-culturali e linguistiche, ma rimane il fatto che una parte di ambiguità permane ancor oggi. È ancora da verificare, dunque, se a partire da questo residuo di ambiguità sia possibile formulare una teoria che tenti di spiegare l'attuale dualità e/o antitesi fra arte e tecnologia. Chiamiamo allora discorso tecnologico dell'arte questo tentativo di conoscere qualcosa di più di quel rapporto, che è a mio avviso riscontrabile ripercorrendo sia la storia delle idee estetiche, sia il manifestarsi di talune esperienze artistiche nell'arco della contemporaneità, che pertanto va a costituire l'orizzonte privilegiato di questo discorso. È in quest'arco, del resto, che l'arte raggiunge una matura consapevolezza della tecnica, giacché solo allora la tecnica si dimostra per la prima volta capace di rappresentare un modello di riferimento alternativo alla natura, un modello che sfida l'arte ad uscire dallo "hortus conclusus" delle "belle arti" per agire senza mediazioni nel mondo delle cose e degli uomini. Per annullare, in altre parole, la separazione con la vita.

L'arte come conoscenza in presa diretta, immediata, contemporanea, della vita e quindi compresente alla vita stessa è un'idea che del resto attraversa tutto il corso delle avanguardie storiche fino alle neoavanguardie recenti. Quest'idea, lo si sarà capito, deve molto, a mio avviso, al concetto di contemporaneità, che prima ancora d'essere un artificio storiografico fondato su criteri ripartitivi o problematici, vuole invece esprimere il modo storico della comunicazione che gradualmente si afferma nel mondo con l'inarrestabile espandersi delle tecnologie comunicazionali. Con questo concetto si esprime insomma la realtà viva ed operante dei processi comunicazionali nella formazione della società e dell'immagine del mondo, il quale non senza paradosso diventa sempre più contenuto di tali processi. Ogni arte è dunque autenticamente contemporanea quando è in stato di contemporaneità conoscitiva col mondo, quando insomma da questo rapporto si sviluppa una risposta critica nei confronti della contenutezza del mondo (giacché, verrebbe da dire, la contemporaneità è proprio questa sconcertante macrocondizione che ci contiene tutti). 12





Il discorso tecnologico dell'Arte. Una chiave interpretativa per capire il rapporto fra Arte e Contemporaneità
Alessandro Tempi
ISSN 1127-4883 BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 11 luglio 2000, n. 197 (2 settembre 1999)
http://www.bta.it/txt/a0/01/bta00197.html




I diversi modi in cui, nell'età contemporanea - vale a dire quella in cui si osservano i maggiori e più conseguenti sviluppi delle tecnologie comunicazionali e si affermano effettualmente i cosiddetti mass-media - le pratiche operative dell'arte e le enunciazioni estetiche si sono poste in relazione, deliberatamente o meno, con le innovazioni tecnologiche emergenti concorrono a delineare un complesso tema di valenza storiografica ed estetica che ripropone mutatis mutandis le ragioni di un'originaria unità ideale fra arte e tecnica. A questo scopo, è utile soffermarsi preliminarmente sul senso dell'aggettivo contemporaneo e quindi sul concetto stesso di contemporaneità, poiché useremo questi termini non nella loro accezione propriamente storiografica - con rispetto alla gradualità del processo storico fra Moderno e Contemporaneo ed alla continuità e discontinuità dei fattori caratterizzanti le due partizioni. Useremo altresì questi termini secondo un'ipotesi empirica che possiamo così enunciare: la storia diventa contemporanea nel momento in cui il concetto di contemporaneità assume senso storico. Individuiamo insomma la contemporaneità nel momento in cui si stabilisce manifestamente una condizione strutturale di sincronia e/o contestualità nei processi delle relazioni umane. Corollario di questa assunzione è che la comunicazione ne diventa il criterio analitico che trova nei media comunicazionali i fattori caratterizzanti di questa condizione.

Sulla base della stessa ipotesi procediamo ad un'altra assunzione : che un discrimine fra Moderno e Contemporaneo può essere rinvenuto anche nel momento in cui inizia il movimento di distacco delle arti figurative - ed in questo senso le loro manifestazioni vengono a supporto di questa analisi - dalla loro funzione storica di rappresentazione di saperi diversi (religiosi, mitologici, letterari, morali) e quindi da una ritualità fortemente definita sul piano sociale e simbolico 1 , per scoprirsi ed assegnarsi intenzionalità e finalità del tutto autonome da un mero rapporto di specularità col mondo. Dagli Impressionisti e più ancora da Cezanne in poi, com'è noto, l'arte figurativa va concentrarsi su se stessa, sulla propria linguisticità, in uno sforzo autoanalitico teso e ridefinire i suoi domini, il suo senso, la sua stessa essenza. Nell'età contemporanea insomma essa tenderà sempre più a definirsi come sapere autonomo e come forma specifica e consapevole di conoscenza. Non che questo fenomeno non fosse in parte già avvenuto: la nascita dell'estetica moderna, nel Settecento, si pone esattamente sotto il segno dell'autonomia delle arti, ma allora le ragioni erano d'ordine teoretico e sociologico; ora sono invece interne all'autoconsapevolezza del fare artistico, alla sua intenzionalità. In questo senso, le tendenze solitamente definite formaliste, riduzioniste od analitiche vogliono appunto designare questa emancipazione dell'arte come sapere e come linguaggio 2

Non è un caso, dunque, che il rapporto dell'arte con la tecnologia si sviluppi proprio nell'età contemporanea: l'arte raggiunge lo stadio analitico nel momento in cui si esaurisce la sua spinta rappresentativa-oggettiva, il suo naturalismo insomma, in coincidenza con l'emergere di forme tecniche o mediatiche capaci di documentare, testimoniare, narrare, rappresentare in maniera più fedele, diretta e con effetti più estesi 3

È in questo quadro, del resto, che possiamo collocare il contributo delle avanguardie storiche, fenomeno completamente nuovo nella storia dell'arte e che non casualmente coincide con l'emergere di media come la fotografia ed il cinema; con esse infatti i processi generativi dell'arte rompono gli antichi rapporti con la trascendenza e si vanno a collocare sotto il segno dell'antropologia. Questa spinta all'immanenza (che include coerentemente anche quell'introflessione analitica di cui prima si parlava) ha insomma, con le avanguardie, un duplice effetto: da un lato collega l'immaginario alle logiche espressive dei nuovi media, dall'altro configura nuovi modelli comportamentali - una nuova ragion pratica, potremmo dire - rispondente alle mutate condizione antropologiche. 4 .

Intorno alla relazione fra arte e tecnologia si aggregano insomma, nell'arco incompiuto della contemporaneità, molteplici esperienze artistiche, individuali e di gruppo, ciascuna delle quali articola peculiarmente il proprio discorso tecnologico dell'arte. Sono queste peculiari articolazioni che qui ci interessa porre in luce.

Partiamo da un'enunciazione forte: il fondamento dell'arte contemporanea risiede nel suo rapporto con la tecnologia. È un'affermazione che va intesa nella sua valenza euristica e come artificio interpretativo. In realtà, essa non contraddice - tanto per riferirsi ad una delle più congrue teorie del Moderno in arte - la lettura in chiave analitica proposta da Menna, perché il passaggio dal visivo al concettuale (vale a dire la transizione verso l'autoreferenzialità e lo stato di meta-arte), che è anche tensione o ambizione verso una forma di conoscenza che sia concezione e non solo visione (o, come affermava Cezanne, creazione e non rappresentazione), viene storicamente da lontano, almeno dai prodromi secenteschi del Moderno, quando si cominciano a percepire i limiti dell'esperienza sensibile ed a capire che il mondo accessibili ai sensi non è che una modesta porzione della realtà 5

. La progressiva sostituzione di un universo artificiale ad un universo naturale, rispetto al quale l'arte è, dal punto di vista rappresentativo, sempre seconda rispetto alle innovazioni della traduzione tecnica delle immagini, non può che rafforzare e portare a compimento la tensione analitica dell'arte, vale a dire la sua maturazione come meta-arte, verso una forma d'esperienza in cui la componente sensibile-visiva è sempre funzionale e ancillare rispetto alla componente mentale-conoscitiva. Del resto, il momento sincronico dell'arte moderna, il suo hic et nunc operativo ed interattivo, può essere letto proprio come analogato della comunicazione istantanea.
Il rapporto fra arte e tecnologia giunge dunque a delinearsi compiutamente in quella fase storica che chiamiamo contemporaneità, ove sono riscontrabili per la prima volta peculiari processi di cambiamento: il passaggio da un universo naturale ad un universo tecnico come termine di riferimento dell'arte figurativa; l'avvio di un processo di astrazione e di messa in crisi dei fondamenti della rappresentazione visiva (in cui il fare artistico si connota anche di valenze estetiche o teoriche); la duplice polarizzazione del fare umano fra creazione artistica e creazione tecnica; l'analogia che si instaura fra la contemporaneità come dimensione dei processi relazionali e la contestualità come essenza dei processi artistici (il passaggio, come si dice in ambito concettuale, dall'opera all'operatività).
Nell'arco del contemporaneo il rapporto fra arte e tecnologia può essere agevolmente ricostruito sulla base di due criteri: la sequenza diacronica in cui, nel corso degli ultimi due secoli, si affermano tre differenti media comunicazionali (fotografia, cinema, video) e che, come suggerisce Fagone, potrebbe venire considerata alla stregua di una vera e propria periodizzazione dell'arte contemporanea; conseguentemente, il mutamento culturale che nel corso di quest'ultimo secolo ha caratterizzato la percezione del mondo tecnico da parte degli artisti, determinandone le diverse modalità d'impatto sulle loro pratiche, come pure sul loro universo di pensiero.

Il 1839 può essere considerato come termine a quo di una possibile ricostruzione delle inerenze fra arte e tecnologia. È in quell'anno (che, per una di quelle emblematiche coincidenze storiche è anche quello che vede la nascita di Cezanne), secondo una convenzione storiografica comunemente accettata, che viene ufficialmente sancita l'invenzione della fotografia come tecnica di produzione delle immagini. Pur rinviando ad un ulteriore trattazione l'esame degli effetti di questo medium sul linguaggio pittorico, bisogna nondimeno tenere conto che da quel momento l'atteggiamento della pittura è profondamente mutato sia in relazione al mondo esterno, sia in relazione al proprio statuto di disciplina espressiva. Da quel momento prendono inizio anche tutta una serie di influenze reciproche fra pittura e fotografia: tutta la tradizione pittorica e gli elementi del linguaggio figurativo costituiscono un ineliminabile fondamento normativo per il nuovo mezzo d'espressione, mentre quest'ultimo apre nuove possibilità rispetto ad aspetti particolari della tecnica pittorica (il movimento naturale, il taglio dell'immagine, il rapporto figura-sfondo, la cosiddetta profondità di campo). Ma l'aspetto più significativo di queste influenze è, com'è noto, qualcosa di esterno agli effetti puramente tecnici commisurabili sul piano della produzione dell'immagine; è la possibilità che il medium fotografico dispone di riprodurre e diffondere le opere d'arte "auratiche" o "cultuali" (la definizione è di Benjamin, ovviamente). A cagione di questa sua peculiarità, che colloca compiutamente la sua azione nel momento fruitivo del processo di comunicazione artistica, il mezzo fotografico influenzerà profondamente i modelli di crescita e di collocazione in campo sociale di ogni opera d'arte visiva.

Bisognerà attendere l'inizio del nuovo secolo, tuttavia, perché siano riconoscibili le condizioni oggettive di un mutamento culturale nella percezione del fatto tecnico da parte del mondo dell'arte. Questo mutamento, pur presentando inquietanti ombre ideologiche non meno che ambigue ingenuità stilistiche, prende il nome di Futurismo. Non che per tutto il secolo XIX il problema della tecnica fosse stato limitato ad un mero interscambio fra i linguaggi della pittura e della fotografia. Benjamin stesso ricorda infatti come l'avvento di quest'ultima vada non casualmente a coincidere con l'emergere della dottrina della "art pour l'art" : una reazione teologica, dice il pensatore tedesco, che nel respingere qualsiasi funzione sociale all'atto creativo, ne rifiuta ogni possibile determinazione da parte di elementi oggettivi. Del resto anche l'esperienza impressionista può essere canonicamente letta come precoce testimonianza di un'acquisita consapevolezza dei limiti del linguaggio figurativo nei confronti delle istanze rappresentative-oggettive alle quali il mezzo fotografico sembra in effetti fornire una sorta di "extrema ratio". Su questa stessa via si muove anche Cezanne, la cui esperienza pittorica è da più parti considerata come una vera a propria soglia dell'arte contemporanea (fondamentali a questo riguardo la lettura in chiave fenomenologica datane da M. Merleau-Ponty 6

e recentemente quella culturologica di R. Barilli 7 ), che sviluppando l'istanza impressionista di un oltrepassamento della realtà naturale, giunge a formulare per la pittura un'autenticità essenziale proprio nella sua antispecularità, come a dire che l'arte è la vera realtà, perché è rivelazione e creazione di un mondo che chiede di essere considerato oggettivamente (e quali saranno poi le conseguenze di questa "petitio" , su cui si delinea il presupposto ontologico dell'arte, sarà del resto reso manifesto nello sviluppo analitico dell'arte del XX secolo).
Già da queste considerazioni è dunque possibile capire in che modo possa configurarsi il rapporto fra arte e tecnologia; è evidente che non si tratta di semplici incidenze di un fatto tecnico quale la fotografia sulla pratica pittorica ad essa contemporanea. Il linguaggio pittorico trae infatti da questa innovazione tecnica conseguenze estreme, che vanno inscritte al quadro delle reazioni intellettuali ad un generale radicarsi delle ragioni tecnico-scientifiche nella cultura e nella società del XIX secolo e che sono parallele, non certo per caso, all'instaurarsi del sistema capitalistico occidentale. Le inerenze formali fra arte e tecnologia vanno dunque analizzate partendo dalla nuova ricollocazione del fenomeni artistici nel contesto della "zivilisation", ma allo stesso tempo individuando i presupposti estetici e culturali di una rafforzata autonomia dell'arte, che sconfina in ambiti puramente teoretici.

Le "estreme conseguenze" tratte dalla pittura sono già, all'avvio di questo secolo, un fatto compiuto, quando il Futurismo irrompe eversivamente con la sua mistica redentiva del progresso tecnico (in cui, per uno strano paradosso, riecheggia una concezione di forte ascendenza nietzscheana). Si è molto discusso sull'effettiva consistenza teorica di questo movimento e sulla sua tenuta nel confronto con le elaborazioni programmatiche delle altre avanguardie storiche. Qui mette conto ammettere che la mitologia dinamistico-macchinistica futurista rivela comunque i lineamenti di un autentico e convinto mutamento culturale nei riguardi del fatto tecnico, che non trova analoghi nelle estetiche immediatamente adiacenti. È del tutto originale, in tal senso, l'idea marinettiana di una correlazione esplicita fra universo tecnologico plasmante (una sorta di tecnomorfismo ante litteram) e la sfera delle creazioni dello spirito, correlazione che pone per la prima volta in stato di interface arte e tecnologia, cogliendo forse senza volere uno dei nodi cruciali di un'avanzata riflessione teoretica sull'arte. È a partire dai futuristi, insomma, che la coscienza artistica sa di avere un alter ego, un doppio col quale è ancora misteriosamente ma tenacemente chiamata a fare i conti. Con l'intuizione futurista, insomma, il rapporto arte/tecnologia ha modo di maturare dai semplicistici termini di una reciprocità di influenze strumentali verso la percezione di una dualità, ovvero di un legame genetico profondo, che d'allora in poi sarà difficilmente ricusabile, fra le due più alte espressioni dell'intelligenza umana.







È sintomatico che l'irruzione del mondo della tecnica nell'estetica futurista assuma il connotato della seduzione: solo così, del resto, è possibile scardinare il sistema delle belle arti, ritenuto ormai obsoleto, per ricomporre un'unità creativa senza regole o priorità, ma abbacinata dalle proprie stesse mitizzazioni. Ma è giusto negli anni in cui il Futurismo si avvia stancamente verso la sua seconda fase che in Europa prende corpo un orientamento diverso in ordine al rapporto arte/tecnologia, un orientamento che si configura, nonostante la contiguità temporale con i manifesti futuristi, un stadio più avanzato del mutamento culturale nella percezione del fatto tecnico, non più assunto come mito o simbolo di un'improbabile riforma estetica, ma come regola universale di ogni possibile produzione artistica. Si usa qui la parola produzione non a caso, perché fra i portati di quel mutamento vi è anche l'idea di una diversa collocazione ed incidenza dell'artista nella società, il che implica da un lato una sua partecipazione attiva alla trasformazione dei rapporti sociali, dall'altro il suo rapportarsi col fattore strutturale più determinante della società moderna: l'industria. In questo senso, esperienze d'avanguardia quali il Costruttivismo, il Purismo di Ozenfant e Jeanneret, il Bauhaus e l' architettura funzionalista esprimono, pur nelle loro evidenti differenziazioni tematico-stilistiche, l'esigenza di far discendere modelli e canoni artistici da una razionalità tecnologica intesa in senso forte e quindi regolativo. Da qui si comprende l'importanza decisiva che gli aspetti metodologico-progettuali hanno guadagnato nel quadro dell'operare artistico: essi infatti vanno a corrispondere una domanda di ottimizzazione e razionalizzazione del processo di produzione industriale, che si attesta così come essenziale orizzonte di riferimento estetico di quell'operare. Non va dimenticato infatti che la cultura del Bauhaus, del Purismo e del Costruttivismo introduce una visione essenzialmente laica, antimetafisica ed immanente del fatto artistico e che ciò avviene non solo per ragioni ideologiche estrinseche (il comune orientamento ideologico di queste avanguardie), ma anche e soprattutto come risultato di un processo di interiorizzazione del modello di razionalità di cui la tecnologia è considerata portatrice. Si capisce dunque che l'attenzione verso gli aspetti fruitivi-desti-nativi della produzione artistica, il suo funzionalismo insomma, che potrebbe far pensare ad un modo per recuperare la dimensione sociale dell'arte, è in realtà da considerare esattamente nella sua valenza tecnica, come elemento-chiave di una metodologia operativa che pone la progettazione, vale a dire l'elaborazione di sollecitazioni pratiche e funzionali provenienti dall'esterno della sfera strettamente ideativa, a fondamento stesso del proprio operare. Nella tensione verso la perfezione tecnica caratteristica di questo approccio è insomma dato leggere il forte richiamo razionalistico da cui tutta questa cultura modernista attinge.
Il patto razionalistico-regolistico che l'arte stringe con la tecnologia fin dal primo dopoguerra non deve tuttavia far perdere di vista che c'è un medium che più degli altri irrompe vitalmente nel campo delle arti visive, influenzandone pervasivamente la ricerca e la sperimentazione. Questo medium è ovviamente il cinema, che nell'esperienza delle avanguardie storiche assume il carattere di una "pura esperienza visiva" 8

in cui si tenta la decostruzione della continuità omogenea della realtà. Opere filmiche come "Ballet Mecanique" (1924) di Fernand Leger o "Emak Bakia" (1927) e "Etoile du Mar" (1928) di Man Ray invertono il senso illusivo che questo medium va accrescendo con la nascente industria cinematografica, cercando di mettere in luce la continua alienazione dell'uomo nell'ambiente dominato dalle logiche macchinistiche. Altre esperienze dell'avanguardia accetteranno invece di confrontarsi dialetticamente con l'ambiguità propria del mezzo cinematografico, portandone all'estremo taluni elementi strutturali quali la scenografia (con l'Espressionismo) od il montaggio (col Surrealismo), ma rivelando nel contempo in ciò una forte ed inscindibile discendenza da altre forme espressive (teatro, pittura, letteratura) verso le quali queste opere filmiche sono senza dubbio tributarie. Ma ponendo da parte la questione relativa alla definizione della specificità linguistica del mezzo cinematografico (che sarà adeguatamente affrontata da studiosi come Rudolph Arnheim e Galvano Della Volpe), uno dei contributi più significativi al formarsi di un approccio estetico al cinema (vale a dire concernente le condizioni di percezione del nuovo mezzo tecnico) è, com'è noto, quello di W.Benjamin. Il suo ragionamento è così persuasivo che merita di essere citato nella sua interezza:
"Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell'inventario, mediante l'accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l'analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell'obiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza, riesce dall'altro a garantirci un margine di libertà enorme ed imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile ad un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine." 9

Verrebbe da notare che le "sparse rovine" cui Benjamin metaforicamente allude sono state in effetti un dato reale e tragico della Storia, maturato di lì a poco con l'avvento dei regimi totalitari europei e culminato nel secondo conflitto mondiale. È forse a partire da questi eventi che l'indefettibile immagine simbolico-regolistica della tecnologia, su cui molti artisti e movimenti avevano fatto confidente affidamento per i primi tre o quattro decenni del secolo, comincia ad offuscarsi. E la riflessione etico-filosofica che ne scaturirà, corroborata dalle acute analisi dei francofortesi, contribuiranno a delineare del mondo tecnologico un'immagine meno aureolata, anzi in taluni casi fortemente negativa, giacché si scopre che quel modello di riferimento creativo che per molti artisti era stata la razionalità tecnica è in realtà strutturalmente corresponsabile di ogni sistema totalitario di questo secolo e quindi alla base dei suoi meccanismi di oppressione. 10

In arte, il diffondersi di un atteggiamento di critica e di opposizione al modello di razionalità tecnologica porterà, a partire dal secondo dopoguerra, alla crisi dell'impianto concettuale del Moderno e per questa via ad una sostanziale messa in sospensione del rapporto con la tecnologia. La lunga stagione dell'Informale è in questo senso paradigmatica di un clima culturale di profonda sfiducia nei valori conoscitivi e razionali che, sul piano linguistico, si traduce generalmente in un rifiuto della forma e del rapporto fondante fra rappresentazione e realtà. Se si pensa che proprio questo rapporto era stato alla base dell'utopia moderna del dominio umano sulla natura attraverso le tecniche della riproducibilità (che ovviamente non sono solo quella della riproduzione visiva, come poteva pensare Benjamin, ma soprattutto quelle fondate sull'analogia con i processi conoscitivi ed organici della natura), si capisce quanto radicale sia stato il mutamento di orizzonte culturale entro il quale l'esperienza artistica dell'ultimo dopoguerra si è andata collocando rispetto al problema tecnologico. Che tuttavia non cessa di attirare l'attenzione di taluni artisti come Lucio Fontana, Alexander Calder, Jean Tinguely o Nam Jun Paik, ai quali si devono le prime congrue indicazioni di un modo nuovo di ripensare il rapporto arte/tecnologia ben al di là di quel fondamentalismo rappresentativo su cui ha poggiato, in ultima analisi, ogni opera d'arte visiva del passato. E questo modo nuovo costituisce un ulteriore stadio di quel mutamento culturale che siamo andati delineando finora: ferme restando le implicazioni teoriche relative alle forme di intenzionalità ed autoreferenzialità che la tecnologia rivela ad una serrata critica filosofica, il fattore tecnologico viene ora assunto non come un canone di riferimento esterno, ma più esattamente come medium, vale a dire come strumento al quale si affida il potenziamento delle capacità espressive della comunicazione artistica e la possibilità stessa della sua modellazione.

La maturazione di questo modo nuovo nei rapporto fra arte e tecnologia - sviluppatosi, come vedremo, nel contesto di talune neoavanguardie del secondi dopoguerra - ha naturalmente ricevuto straordinario impulso da un fenomeno di portata storica quale l'espansione massiva dei processi di comunicazione elettronica attraverso il video ed il computer, la cui infiltrazione capillare e pervasiva non solo nell'ambito dei processi produttivi, ma nel complesso delle dinamiche relazionali, decisionali e conoscitive è ormai ampiamente sondata e documentata.

Su un piano specifico, le implicazioni di questa nuova fase tecnologica sul campo dell'arte sono estese: i nuovi strumenti videoinformatici stanno dimostrando di possedere potenzialità linguistiche peculiari tali da sviluppare nuove sintesi figurali attraverso le quali è possibile pervenire ad altrettanto nuove definizioni dell'universo teorico e pratico della produzione delle immagini. A ciò si aggiunge il fatto che la multimedialità (ovvero la possibilità operativa di utilizzare più strumenti espressivi in uno stesso contesto produttivo) conferisce nuove possibilità di relazione fra immagine e suono, sfere ritenute tradizionalmente separate ed autonome della comunicazione artistica, ma dal cui riallineamento all'interno di una metodologia creativa può dipendere una più diffusa ed al tempo stesso più critica esperienza artistica. Inoltre, non va sottovalutato il fatto che l'adozione di strumenti e modelli tecnologici ha radicalmente trasformato il concetto ed il fine stesso dell'operare artistico: se oggi non si parla più di opera, ma di operazione (od operatività) è perché il concreto oggetto artistico è stato sostituito non già - o non solo - dalla sua immateriale dimensione mentale (come nell'Arte Concettuale), ma da qualcosa di altrettanto tangibile, perché sensorialmente esperibile, che possiamo definire come "ereignis", che vale "contemporaneamente per evento e per esperienza" 11

, insomma non una cosa ma un processo il cui significato si dà nell'atto stesso del suo farsi. Il senso di molte videoinstallazioni, ad esempio, o del telematic networking, va infatti ricercato nell'applicare la qualità artistica non ad un oggetto, ma ad un evento che, come il "gesamtkunstwerk" wagneriano, chiama a raccolta sensi ed intelligenza per esperire nuove, inedite misure di tempo e di spazio e quindi nuove definizione dell'esistente.
In questo breve e schematico itinerario storico lungo l'arco incompiuto della contemporaneità (termine storiografico che qui abbiamo assunto come ambito storico di un mutamento qualitativo delle conoscenze e di un riassetto generale del quadro culturale in cui si realizzano i processi di innovazione), si possono allora trarre almeno tre conclusioni utili ad una possibile teoria del rapporto arte/tecnologia. La prima è che fra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX la tecnica comincia ad essere considerata come un allargamento dell'orizzonte artistico, come una nuova, avanzata possibilità di riscatto dai rapporti limitanti fra mezzi ed esiti dell'operare artistico. Questa visione pertiene ad un modo tipicamente moderno di concepire i rapporti fra arte e tecnologia, secondo il quale quest'ultima è assunta come canone di riferimento tramite cui riconfigurare l'universo teorico e sociale della creazione artistica. La seconda è che con i recenti sviluppi delle tecnologie informazionali ed immaginali, il rapporto arte/tecnologia viene ad assumere una fisionomia critica: le nuove sintesi artistiche rese possibili dall'impiego creativo dei media innescano inevitabilmente un discorso metatecnologico che ci pone in condizione di riflettere criticamente sull'ovvietà e/o naturalità dei prolungamenti (ma potremmo parlare anche, mcluhanianamente di estensioni) normativi ed omologanti del modello tecnologico. La terza, infine, e qui il discorso non può fare a meno di debordare su un piano essenzialmente teoretico, è che il problema dell'inerenza della tecnica sul campo dell'arte si presta oggi anche come propedeutica ad una lettura in chiave analitica delle condizioni stesse della rappresentazione. L'universo immaginale cui le odierne tecnologie danno accesso ed al quale in maniera sempre più diffusa fa riferimento certa pratica artistica attuale costituisce un ulteriore area di applicazione del tema-chiave della riproducibilità; solo che qui non si tratta più della riproducibilità di opere visive, ma della riproducibilità tout court. Da possibilità inerente la percezione ed il momento fruitivo dell'oggetto artistico, la riproducibilità tecnologica si trasforma in condizione e strumento dell'operare e proprio in questa funzione essa può fornire, anche sul versante artistico, un insostituibile contributo metodologico ed operativo ad un'analisi avanzata di concetti quali appunto rappresentazione (che non a caso pertiene tanto all'arte quanto alla filosofia) ed immagine (su cui si gioca l'antinomia dibattuta fra significato e senso).

Per questa via è possibile comprendere cosa precisamente si debba intendere per discorso tecnologico dell'arte e perché esso, pur procedendo da origini antiche, culmini proprio nell'arco dell'età contemporanea (o della contemporaneità). Per capire meglio, bisogna tuttavia anticipare uno degli assunti basilari di questo discorso: è fin dalle sue origini che l'arte intrattiene con la tecnica un rapporto particolare, di intensa ambiguità, espresso dall'etimologia stessa del termine tecnica (dal greco téchne, che designava esattamente ciò che oggi chiameremmo tecniche e che nella cultura latina e medievale avrebbe preso il nome di artes). Per molto tempo, insomma, ciò che per noi oggi è arte è stato chiamato tecnica (dal cui ambito sono peraltro nate le "belle arti" moderne). Parimenti, di ciò che per noi oggi afferirebbe ad un ambito di ricerca scientifico-tecnologica, molto ricadrebbe nel campo delle artes di un tempo (astronomia, geometria, matematica). Tutto ciò è ovviamente spiegabile per ragioni ad un tempo storico-culturali e linguistiche, ma rimane il fatto che una parte di ambiguità permane ancor oggi. È ancora da verificare, dunque, se a partire da questo residuo di ambiguità sia possibile formulare una teoria che tenti di spiegare l'attuale dualità e/o antitesi fra arte e tecnologia. Chiamiamo allora discorso tecnologico dell'arte questo tentativo di conoscere qualcosa di più di quel rapporto, che è a mio avviso riscontrabile ripercorrendo sia la storia delle idee estetiche, sia il manifestarsi di talune esperienze artistiche nell'arco della contemporaneità, che pertanto va a costituire l'orizzonte privilegiato di questo discorso. È in quest'arco, del resto, che l'arte raggiunge una matura consapevolezza della tecnica, giacché solo allora la tecnica si dimostra per la prima volta capace di rappresentare un modello di riferimento alternativo alla natura, un modello che sfida l'arte ad uscire dallo "hortus conclusus" delle "belle arti" per agire senza mediazioni nel mondo delle cose e degli uomini. Per annullare, in altre parole, la separazione con la vita.

L'arte come conoscenza in presa diretta, immediata, contemporanea, della vita e quindi compresente alla vita stessa è un'idea che del resto attraversa tutto il corso delle avanguardie storiche fino alle neoavanguardie recenti. Quest'idea, lo si sarà capito, deve molto, a mio avviso, al concetto di contemporaneità, che prima ancora d'essere un artificio storiografico fondato su criteri ripartitivi o problematici, vuole invece esprimere il modo storico della comunicazione che gradualmente si afferma nel mondo con l'inarrestabile espandersi delle tecnologie comunicazionali. Con questo concetto si esprime insomma la realtà viva ed operante dei processi comunicazionali nella formazione della società e dell'immagine del mondo, il quale non senza paradosso diventa sempre più contenuto di tali processi. Ogni arte è dunque autenticamente contemporanea quando è in stato di contemporaneità conoscitiva col mondo, quando insomma da questo rapporto si sviluppa una risposta critica nei confronti della contenutezza del mondo (giacché, verrebbe da dire, la contemporaneità è proprio questa sconcertante macrocondizione che ci contiene tutti). 12

Modernità e postmodernità: interconnessioni e spostamenti

Wolfgang Welsch

A questo punto, appaiono appropriati alcuni chiarimenti sulle relazioni tra modernità e postmodernità. Secondo la tesi contenuta nelle mie osservazioni e l'evidenza in esse data esiste una congruenza tra la sfera dell'arte e l'ambito della filosofia; infatti, ciò che ha indicato la strada agli artisti d'avanguardia della modernità ha dato frutti anche alla filosofia nel pensiero postmoderno. 
Questo mostra chiaramente che la differenza tra modernità e postmodernità non è assoluta, in altre parole che la postmodernità non può essere semplicemente una transmodernità o un'antimodernità a cui vorrebbero ridurla i suoi detrattori. Guardando i fatti, essa diviene una forma di riscatto radicale dei contenuti moderni o una forma quotidiana essoterica delle conquiste, un tempo esoteriche, della modernità 
In secondo luogo risulta confermato che l'arte moderna era nettamente avanzata nel contesto dell'intera cultura, soprattutto nei confronti della filosofia contemporanea. Infatti, mentre quest'ultima - come si è visto in Husserl - stava ancora immergendosi nel progetto di una philosophia perennis, l'arte, da molto tempo, aveva conquistato gli elementi di una nuova concezione della realtà. Tale posizione avanzata rende conto dell'alto potenziale di identificazione che è stato assegnato all'arte in questo secolo. Chiunque cerchi di ottenere accesso al nuovo, alle circostanze e ai modi di comprensione della realtà contemporanea, gli è stato consigliato di rivolgersi all'arte piuttosto che alla filosofia. Detto in termini più espliciti, il reale compito filosofico della comprensione contemporanea è stato percepito molto prima e meglio dall'arte anziché dalla filosofia - o almeno nel senso in cui questo è stato percepito dalla filosofia istituita accademicamente (arriveremo presto a parlare di un'eccezione come Nietzsche). 
Così provvista l'arte ha lasciato dietro di sé posizioni moderne antiquate prima degli altri modi della nostra autocomprensione; ne dovrebbe derivare, in terzo luogo, come nient'affatto sorprendente che il termine postmoderno provenga originariamente dalla sfera dell'arte - anche se non importa che lo si voglia riferire alla pittura, nei confronti della quale l'espressione è stata usata per la prima volta nel 1870 in Inghilterra, alla letteratura, che ha provocato negli Stati Uniti la disputa sulla postmodernità che si estende all'incirca dal 1959/1960 fino al presente, o all'architettura, la quale dal 1975 è diventata il principale campo di battaglia della discussione. Tuttavia, il termine è stato introdotto nella filosofia piuttosto tardi, vale a dire nel 1979 - 
In quarto luogo, il porre effettivamente nella stessa rete gli elementi moderni e postmoderni sopra esposti definisce i criteri a cui si deve prestare attenzione se si desidera arrivare a distinzioni attendibili. Queste non possono essere ottenute costruendo violente sezioni cronologiche trasversali, ma facendo, per così dire, ricerche analitiche in profondità sulle differenze di contenuto. In un tale scenario risulta allora immediatamente comprensibile che Adorno, un moderno progredito il cui pensiero è stato formato dall'esperienza dell'arte, fosse da un lato, proprio per questa ragione, in grado di intraprendere passi evidenti in direzione della postmodernità mentre dall'altro - come un hegeliano che "malgrado tutta la sua critica a Hegel stava con Hegel"59 - restava in ultima analisi un moderno; come nei confronti della questione fondamentale dell'opzione per l'unità opposta all'accettazione della pluralità. Solo osservazioni in profondità di questo tipo, dunque, possono fornire criteri inconfutabili e condurre a distinzioni sicure. Dall'altro lato, invece, procedere in modo indifferenziato produce una confusione senza speranza - e su questo punto gli oppositori della postmodernità si sono distinti in generale per una grande arbitrarietà e spesso per un disprezzo degli standard moderni di onestà e di metodo accademici così scandaloso pari a quello degli apologeti più spinti del postmoderno più gettonato (Hyped-up). 
Nietzsche l'apripista 
Un'ultima parola di chiarimento riguarda il titolo: l'allusione all'opera di Nietzsche La nascita della tragedia dallo spirito della musica, pubblicata nel 1871, ha un significato preciso. Com'è noto, Nietzsche sviluppa in quest'opera il punto di vista secondo cui la tragedia attica discende inizialmente dal coro e dal culto di Dioniso, solo in seguito, con Euripide e Socrate, la cultura greca ha iniziato a declinare e l'entusiasmo dionisiaco è venuto paralizzandosi entro i sentieri equilibrati della ragione e del pensiero teoretico che ha cercato di eliminare tutto quello che era incommensurabile60. Questa paralisi ed espulsione dell'incommensurabile, ratificata dalla marcia trionfale della scienza contro cui la critica di Nietzsche è in genere diretta, viene rovesciata dall'arte moderna e dalla filosofia postmoderna, poiché l'arte moderna non punta più al bello e alla tranquillità ma anela al differimento nell'incommensurabile; e la filosofia postmoderna coglie decisamente questo tentando di ridargli i suoi diritti61. La relazione tra la filosofia postmoderna e l'arte moderna - che è il primo significato del mio titolo -, perciò, non solo corrisponde genealogicamente alla relazione tra musica e tragedia in Nietzsche; ma la filosofia postmoderna - qui sta il secondo e più significativo senso della mia allusione - attua anche ciò che Nietzsche voleva stimolare per mezzo della sua opera programmatica: andare al di là della razionalità che era divenuta restrittiva attraverso la riconsiderazione dell'incommensurabile. In questo senso, la filosofia postmoderna redime il progetto e la profezia di Nietzsche (del progenitore Nietzsche) - e se non lo fa ovunque letteralmente ma (in contraddizione con il trasmetterlo con uno spirito puramente storicista) in conformità con le condizioni contemporanee, questo avviene anche nello spirito di Nietzsche. 

VI. DOPO LA NASCITA E L'INFANZIA IL DIVENIRE ADULTO O DAL PENSIERO POSTMODERNO AL PENSIERO ESTETICO 
In questa sesta sezione desidero porre una questione che mi sembra particolarmente importante e nel rispondervi delineerò il mio approccio. Che cosa può significare, a lungo andare, l'iniziazione estetica del pensiero postmoderno per questo tipo di pensiero? Manterrà esso il suo carattere estetico, e se sì ciò ritornerà a suo vantaggio; e se la risposta è ancora affermativa, quali sono i vantaggi che è in procinto di ottenere? 
1. Pensatori postmoderni come pensatori estetici 
Che il pensiero postmoderno rimanga caratterizzato dall'estetica è evidente e ciò può essere mostrato in tutti gli autori principali del discorso postmoderno quali, oltre quelli già citati, Baudrillard, Kamper, Sloterdijk. 
Così, Jean Baudrillard ha variamente usato i fenomeni estetici per decifrare da essi le circostanze della realtà contemporanea. Ha letto, per esempio, dalle frasi senza senso dei graffiti americani, che per lungo tempo abbiamo trattato non solo nelle teorie poststrutturaliste accademicamente elevate ma anche nella vita quotidiana come significanti fluttuanti liberamente senza significato, che i segni nella realtà sono diventati incongruenti, che la semiocrazia è imperante (Is lying) e che scoprirla è uno dei pochi interventi critici ancora possibili62. 
Oppure ha compreso - e questo è caratteristico di un modo estetico di pensiero - come visualizzare metaforicamente e in modo simultaneo alcuni fenomeni isolati del mondo d'oggi come fenomeni chiave - per esempio il cancro e i cloni. Il cancro, l'eccessiva crescita dello stesso, e i cloni, l'identica riproduzione dello stesso, stanno infatti a simbolizzare la tendenza fondamentale contemporanea verso l'espansione vorace dello standardizzato e verso la paralisi estrema nell'uniformità. 
Allo stesso modo Dietmar Kamper, nelle sue analisi dei fenomeni attuali, inizia sempre con le ambivalenze del carattere dell'immagine (imagic). Le immagini contengono le più antiche promesse di felicità ma si rivelano anche insignificanti e ingannevoli. Quando vengono realizzate, visioni di salvezza si trasformano improvvisamente in imprese di rovina63. La società delle immagini di oggi è una società dell'immaginario con conseguenze letali, non una repubblica del fantasioso che dovrebbe essere in accordo con il creativo e liberare le facoltà. Tuttavia, la sola cosa che aiuta l'azione contro la barriera imprigionante dell'immaginario è ancora una volta un appello all'immaginazione64. Dunque, un immaginario corretto contro un immaginario erroneo; questa è una linea di opposizione fondamentale nel pensiero di Kamper, che in proposito cerca di modellarsi sull'estetica. 
Una specie di impregnazione estetica è evidente anche in Peter Sloterdijk. Le sue analisi sono disseminate di immagini di esempio e il suo linguaggio è pervaso dalla metaforicità. Anche il suo pensiero è estetico, poiché un caratteristico stile di musicalità diviene udibile in esso - incidentalmente - secondo Nietzsche, e non il segno più infimo ha a che fare con un autentico filosofo. 
Così, anche in Sloterdijk viene suggerito uno spostamento di accento sul concetto dell'estetico, che tratterò separatamente più sotto. Sloterdijk dice (in un libro caratteristicamente sottotitolato un "saggio estetico") che oggi la linea separante il logico e l'estetico è divenuta indifendibile: "Bisogna fare attenzione a qualcosa che è percezione, estetica nel senso più ampio, e che rimane fino alla sua ultima istanza una questione del pensiero"65. Egli si riferisce perciò a un'estetica in senso ampio, non determinata da alcuna relazione con l'arte ma che enfatizza la percezione. Tale percepire costituisce per Sloterdijk il nucleo del pensiero. E questo contiene una svolta che secondo me è caratteristica del pensiero postmoderno e della sua impregnazione estetica. 

 Dall'estetica all'aistetica 
Ciò che Sloterdijk qui chiama "estetica nel senso più ampio" io l'ho tematizzato altrove con la definizione di "aistetica"67. Mi sembra, infatti, che il pensiero postmoderno sia più propriamente un "pensiero aistetico" e che proprio per questo esso dia alla sua iniziazione estetica una tendenza veramente produttiva. L'espressione "aistetica", infatti, indica il riflesso elementare dell'estetica retrocesso all'aisthesis; cioè alla percezione. E questo riflesso retrocesso costituisce il cuore del "pensiero aistetico". Darò di questo, tuttavia, il seguente abbozzo molto in breve68. 
In modo abbastanza caratteristico, gli autori postmoderni menzionati non tematizzano l'arte fondamentalmente per dire qualcosa su di essa ma per comprendere, a partire dalle percezioni (che essi traggono dall'arte, tra le altre cose), la nostra realtà. Perciò, l'arte non è l'ambito a cui puntare ma l'ambito che fa da modello alla riflessione. Essa può farlo perché rende disponibili delle risorse per la percezione e richiede o libera una particolare capacità di percezione. È tale percepire che conta nel "pensiero aistetico". 
Questo non significa una percezione puramente sensoriale ma una percezione in generale, fondamentalmente una comprensione di fenomeni originari che, come tali, possono essere capiti soltanto per mezzo di atti simili alla percezione e non, per esempio, attraverso l'induzione o la deduzione logica. Questo tipo di percezioni hanno infatti a che fare con l'avere cognizione, il divenire consapevoli, avvertiti e sensibili. Si tratta, cioè, di scovare i significati primi - soprattutto quelli che oltrepassano il sensibile. Devo perciò richiamare ancora una volta la tematizzazione del sublime di Lyotard, il fatto che vi sia un rendersi conto del fallimento della sensibilità e un divenire coscienti del transestetico o dell'anaestetico. Percepire i confini e gli oltrepassamenti dell'estetico - che non avevano un proprio posto nell'estetica tradizionale - diviene centrale per il pensiero aistetico che abbiamo abbozzato sopra. Si potrebbe effettivamente vedere l'intera differenza tra postmodernità e modernità rispecchiata in questa distinzione tra aistetica ed estetica. Poiché in essa tutte le opposizioni menzionate ritornano - consapevolezza dei confini contro pretese di globalità, primato della sublimità contro quello della bellezza, opzione lyotardiana contro quella habermasiana. 

 Pensiero aistetico: un pensiero realistico di oggi 
Per un pensiero capace di percepire come questo - che comincia, cioè, dalla percezione e rimane imbrigliato in ceppi anaestetici; in breve un pensiero aistetico che abbraccia sia l'estetica che l'anaestetica - mi sembra, non perché correntemente alla moda come sospettano alcuni ma per la sua capacità di comprendere e la sua pertinenza alla realtà, essere giunto il momento. Oggi, infatti, - questa è la mia tesi - esso è il pensiero genuinamente realistico, quello che meglio, qui e ora, misura la realtà presente (che assolutamente niente è in grado oggi di misurare). Le prospettive estetiche, che un tempo erano considerate incerte, stanno divenendo, perciò, sempre più vicine alla realtà e sono le più intense per la loro forza di rivelazione69. 
Ma quello che si rivela decisivo per il cambiamento nella pertinenza di un tipo di pensiero - per lo spostamento di enfasi, cioè, da un pensiero logocentrico a uno aistetico - è un cambiamento nella realtà stessa. La realtà del giorno d'oggi è infatti essenzialmente costituita attraverso processi percettivi; cioè, soprattutto per mezzo di processi medi di percezione. Tale realtà può quindi solo essere trattata per mezzo di un pensiero capace di percezione. Questo vale - il che è apparentemente paradossale - anche per i fenomeni anaestetici - dal 26 aprile 1986, il giorno in cui è accaduto il fatto di Chernobyl, noi tutti sappiamo che le minacce decisive di oggi sono di tipo anaestetico, che non possono più essere percepite dai sensi e che solo il danno che causano influenza questi, divorandoli. Solo per qualcuno che è aisteticamente in sintonia, soprattutto per coloro la cui attenzione è rivolta all'oltrepassamento anaestetico dell'estetico, tali scoperte sono attinenti in modo allarmante.